Default e avvoltoi, sentenze e autogol

L’interessante caso della Repubblica Argentina

Il potere del denaro, scolpito nella sentenza di un giudice. Quanto è piaciuto ai media il quadretto uscito dal tribunale di New York! E quanto è piaciuto a chi vorrebbe cancellare ogni sovranità nazionale, per affermare il dominio incontrastato dell’unico Dio rimasto. Quel Dio denaro, che trova nel ruolo assegnatogli dagli hedge fund, il suo massimo splendore.
Gli è piaciuto davvero tanto, ma alla fine quella sentenza potrebbe anche andargli di traverso. Vediamo il perché.

I soliti catastrofisti avevano già immaginato la data del giudizio universale. Non più il 21 dicembre degli interpreti dei Maya, bensì il 15 dello stesso mese, giorno in cui l’Argentina sarebbe finita in «default tecnico» a causa della sentenza newyorchese. Il paese che dieci anni fa aveva scelto il default, che aveva disubbidito ai voleri del Fondo Monetario Internazionale, avrebbe dovuto alfine piegarsi al signor Thomas Griesa, giudice ben poco autorevole quanto assai asservito al re della speculazione, Paul Singer. Non pensiamo che andrà così e non crediamo che si tratti di un semplice rinvio. Come noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ed i piranha della finanza internazionale non hanno impiegato molto a capire quanto fosse serio il rischio di un autogol.

Questi piranha, pardon questi operatori finanziari tanto cari a Monti, Obama e Renzi, stritolerebbero volentieri l’Argentina, ma sono abbastanza affezionati al loro Dio di cui sopra per poterselo permettere.

Tutto ha inizio con il default del 2001 e la conseguente svalutazione del peso sul dollaro nella misura del 300%. Prima nel 2005, e poi nel 2010, il governo argentino propose ai vecchi creditori di convertire i bond posseduti in nuovi titoli, svalutati del 66% (la stessa misura della svalutazione monetaria sul dollaro), e con scadenze rimodulate nel tempo. Una soluzione neanche troppo onerosa per i creditori, che a fine giro dovrebbero portare a casa in questo modo interessi attorno al 70%.

Sta di fatto che il grosso di questi creditori (per l’esattezza il 93%) accettarono di buon grado la proposta argentina, soprattutto i più piccoli, assai meno i grandi fondi di investimento. Significativo il dato relativo ai creditori italiani. Di questi, i 400mila che accettarono il concambio erano in possesso di titoli per 8 miliardi di dollari, per una media di 20mila $/cad.; mentre i 53mila che non lo accettarono risultavano in possesso di ben 6 miliardi di dollari, per una media di 113mila $/cad.

Stessa situazione tra i creditori statunitensi, dove vecchi titoli per ben 8 miliardi di dollari sono detenuti in gran parte da alcuni tra i più importanti hedge fund, tra i quali quello di Paul Singer, che non hanno accettato il concambio, rivendicando il diritto ad un rimborso al 100%. Da qui il ricorso al tribunale di New York, che una settimana fa ha dato ragione ai fondi avvoltoio, come li chiama la presidentessa argentina Cristina Kirchner. Una sentenza formalmente motivata col criterio del pari passu, un principio in base al quale i possessori di obbligazioni dello stesso tipo non possono avere trattamenti differenti da parte del debitore. Un principio che per la verità non ha niente a che vedere con la decisione del giudice americano, che ha disposto il rimborso del 100% per gli hedge fund, contro il 34% degli altri obbligazionisti. Ma così va la giustizia, negli States e non solo…

Ma vediamo ora il perché, secondo i più, questa sentenza avrebbe dovuto avere un esito catastrofico per l’Argentina. Vedremo poi come mai questo non avverrà nell’immediato e, a parere di chi scrive, neppure in futuro, fornendo piuttosto  alcuni utili insegnamenti da tenere presenti da chi vorrà affrontare la questione della necessaria ristrutturazione del debito nei paesi europei colpiti dalla crisi prodotta dalla follia della moneta unica.

Perché qualcuno prevedeva la catastrofe?

La sentenza della scorsa settimana è arrivata ad imporre all’Argentina il versamento di 1,3 miliardi di dollari in un fondo presso la Bank of New York, da riservare agli hedge fund in attesa del verdetto definitivo della Corte d’Appello. Qualora l’Argentina non avesse adempiuto a questa imposizione, la stessa banca (che funge da intermediaria dei titoli argentini sul mercato statunitense) avrebbe bloccato il pagamento delle cedole agli obbligazionisti che hanno accettato il concambio. Ed un consistente pagamento è previsto proprio per il prossimo 15 dicembre.

Il mancato pagamento degli interessi sarebbe già considerato una sorta di «default tecnico», ma soprattutto avrebbe potuto innescare una potente reazione a catena, con una diminuzione del valore dei bond e un incremento dei Cds (le assicurazioni sui titoli); mentre la vittoria del signor Singer avrebbe fatto da apripista ad altri ricorsi per ottenere il 100% dei vecchi titoli pre-2002. A qualcuno era perciò sembrato che l’ora del giudizio universale per la reproba Argentina, rea di aver voltato le spalle ai pescecani di Wall Street, fosse davvero arrivata.

E invece no

Invece è successa una cosa un po’ diversa. Il governo di Buenos Aires ha fatto subito sapere di non aver alcuna intenzione di pagare gli hendge fund. Tra l’altro glielo impedisce una legge approvata ad hoc. Ed ha invece fatto ricorso contro la sentenza, chiedendo intanto lo sblocco dei pagamenti agli obbligazionisti che hanno accettato la ristrutturazione del debito. La Corte d’Appello newyorkese ha così deciso di annullare l’ordinanza del giudice Griesa che imponeva il blocco tramite la Bank of New York. Ed il versamento di 1,33 miliardi destinati al signor Singer proprio non ci sarà.

Naturalmente si tratta solo di un rinvio, in attesa dell’esito del ricorso di Buenos Aires. Ma è interessante vedere che cosa ha determinato la decisione dello sblocco. Da un lato l’ipotesi di un nuovo default argentino ha spaventato i governi occidentali ed i mercati finanziari, che non hanno affatto brindato insieme al signor Singer. Dall’altro, se i fondi che non hanno accettato il concambio hanno intravisto nella sentenza la possibilità di avviare nuove cause, quelli che invece lo hanno accettato si sono subito preoccupati di non vedersi azzerare di nuovo il valore dei titoli posseduti. E così, ad esempio, il maxi fondo hedge di Brevan Howard si troverà dalla stessa parte della barricata del governo argentino, contro quello di Paul Singer. Ma molti altri sono i grandi finanzieri interessati alla partita, ma con interessi contrapposti tra loro. Giusto per ricordarci che tra i capitalisti la lotta interna è spesso brutale e senza freni.

Perché un nuovo default argentino è altamente improbabile?

Se quanto sopra è vero, è ragionevole attendersi un esito ben diverso da quello previsto dai catastrofisti del 15 dicembre. Nel confronto tra un giudice asservito alla grande finanza, ed uno Stato deciso a difendere con tutti i mezzi la propria sovranità e le proprie decisioni economiche, non è il primo ad essere il più forte. I centri strategici del capitalismo mondiale colpirebbero volentieri l’Argentina, ma non al prezzo di un nuovo crack finanziario. Ecco perché è ben difficile che il signor Singer possa averla vinta. Certo, alla fine una transazione potrà esservi, ma non alle condizioni dettate dal giudice di New York.

E del resto, da un punto di vista meramente capitalistico, l’Argentina – proprio grazie al default ed allo sganciamento dal dollaro – non è certo nelle condizioni di dieci anni fa. In questo decennio ha avuto lunghi periodi con tassi di crescita attorno all’8%; ha ridotto il rapporto debito/Pil dal 165% del 2002, al 67% del 2007 fino al 45% attuale; ha visto aumentare il Pil/procapite dai 2.656 dollari del 2002, ai 6.705 del 2007, agli 11.573 attuali. Una progressione che non ha bisogno di troppi commenti. (Dati tratti dal Sole 24 Ore del 29 novembre 2012).

A volte, come spesso ci ricordava il compagno Mao Tse-tung, l’imperialismo è davvero una «tigre di carta». Ha i mezzi che sappiamo – politici, economici e militari – ma non sempre possono essere dispiegati al cento per cento. Un tempo un problema come questo sarebbe stato risolto con un colpo di stato. Oggi è un po’ più complicato, come ha dimostrato il golpe fallito dagli americani in Venezuela nel 2002.

Naturalmente non possiamo sapere come andrà a finire questa vicenda. I vari signor Singer in circolazione cercheranno in ogni modo di rimpossessarsi del malloppo. Ma noi non siamo così certi che ci riusciranno.

In ogni caso, guardando allo scenario europeo ed italiano, la vicenda argentina ci consegna alcuni insegnamenti preziosi. Il più importante dei quali è che la cancellazione del debito è possibile, che è possibile resistere alle oligarchie finanziarie in base al principio della prevalenza di diritto e di fatto degli interessi popolari. Che occorre essere fermi nella difesa della sovranità nazionale, determinati politicamente, e capaci di giocare tatticamente sulle contraddizioni del fronte avversario.

In Argentina non c’è stata alcuna rivoluzione, mentre noi sappiamo che l’alternativa al sistema attuale da lì deve passare. A maggior ragione dobbiamo essere ragionevolmente ottimisti. Il nemico ha le sembianze di un mostro, ci propone un futuro mostruoso per il popolo lavoratore, ed ha mille tentacoli con i quali cerca di stritolare ogni opposizione. Ma è un mostro che può essere contrastato, ferito ed ucciso. E’ forte, ma può essere sconfitto.