Le valutazioni positive di Hamas e della Jihad Islamica, le preoccupazioni di un palestinese della diaspora
Il voto dell’Assemblea generale dell’Onu, che ha riconosciuto la Palestina come «Stato osservatore non membro», ha suscitato differenti reazioni nella società palestinese. E’ normale che sia così. Un riconoscimento dimezzato, come questo, può essere infatti interpretato come accettazione dello status quo, come resa e rinuncia alle rivendicazioni storiche sul diritto al ritorno e non solo. D’altro canto, la rabbia di Israele, il suo incredibile isolamento, non possono non essere letti se non come conseguenze di una sconfitta politica assai pesante, perlomeno sul piano simbolico.
E’ ben noto come diversi sì (tra i quali quello deciso all’ultimo minuto dal governo italiano) sono stati pronunciati solo per aiutare il quisling Abu Mazen, per rilanciare la ricetta dei «due popoli, due stati» oggi più che mai improponibile ed irrealistica. Questa mossa è la diretta conseguenza della sconfitta politica subita da Israele con l’insuccesso dell’attacco a Gaza. Una sconfitta che ha rafforzato le organizzazioni della resistenza che – da Hamas alla Jihad Islamica – hanno accolto favorevolmente il riconoscimento dell’Onu, con parole chiare ed inequivocabili.
Il segretario generale della Jihad Islamica, Ramadan Shalah, ha parlato di «momento storico», che «non può rimuovere i diritti dei palestinesi in nome dei negoziati». Per Ismail Haniyah il riconoscimento è una vittoria della resistenza. Hamas ha dunque accolto positivamente il voto dell’Onu, ribadendo al tempo stesso di non avere alcuna intenzione di riconoscere Israele e invitando a «non mollare un centimetro di terra palestinese».
Queste affermazioni dei dirigenti di Hamas e della Jihad ci sembrano condivisibili ed azzeccate, dato che colgono il senso politico di quanto avvenuto. E’ giusto tuttavia considerare anche le preoccupazioni presenti nella società palestinese e nella stessa diaspora. Pubblichiamo quindi di seguito le riflessioni – delle quali condividiamo ovviamente il duro giudizio sull’ANP – di un membro della Comunità Palestinese della Lombardia, pervenuteci attraverso l’associazione «Salaam Ragazzi dell’Olivo»
la redazione
Le riflessioni di Dirar
Capisco bene la vostra contentezza per l’ammissione della Palestina all’ONU, ma non bisogna esagerare. Chi ha votato per lo Stato di Palestina all’ONU, non l’ha fatto, come scrivete nel comunicato stampa (di Saalam Ragazzi dell’Olivo, ndr), per “la fine della sofferenza, dell’oppressione, dell’occupazione israeliana e il rispetto delle risoluzioni ONU e della legalità internazionale”. La votazione resta una goccia nel mare per un fatto simbolico e, come tale, è necessario interpretare sul terreno, il significato che ha prodotto il simbolo.
Proprio sull’aspetto della legalità, sembra che Abbas abbia dato garanzie scritte a non trascinare Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale. Benché la notizia sia di fonte giornalistica, la conferma è venuta, indirettamente, da Hassan Al Uri, consigliere per gli affari giuridici dell’ANP, il quale, in sostanza dice che Israele è responsabile di fronte al mondo per i suoi crimini. Vale a dire: campa cavallo che l’erba cresce.
Non esito, nemmeno un minuto a rettificare il mio scetticismo, e spero di farlo al più presto, di fronte a fatti tangibili e reali per una soluzione, di almeno parte, della complessa Questione Palestinese. In futuro, staremo a vedere la valutazione e la ripercussione all’annuncio di Netanyahu, dato giovedì scorso, di “punire il nuovo Stato di Palestina” con la costruzione di 3.000 unità abitative nelle colonie. Sono parole di sfida ma, secondo voi, avranno la qualifica d’atto criminale? E poi, è considerato atto criminale la distruzione d’alcuni battelli e sequestrare 13 pescatori a Gaza, com’è accaduto stamattina, anche quando si trovavano nelle acque delimitate da Israele stessa? Francamente sappiamo tutti che fine ha fatto il rapporto Goldstone. A questo proposito, è stata istituita un’inchiesta dall’ANP per accertare la responsabilità dell’accaduto. Conoscete il risultato, o l’inchiesta è ancora in corso di verifica?
Personalmente ho molti dubbi sull’operato dell’ANP, derivati dall’ambiguità del proprio comportamento in relazione alle dichiarazioni date per certe. Anzi, concordo con quell’amico che ha scritto che l’ANP è divenuta “un ingranaggio nel meccanismo dell’occupazione”. Mi riferisco all’intervista rilasciata il 2 novembre scorso ad un giornalista della seconda rete TV israeliana.
Da considerare che Mahmud Abbas è il presidente dell’ANP con mandato scaduto da più di tre anni fa. E’ anche il presidente dell’Organizzazione per Liberazione delle Palestina (OLP): struttura, ormai in disuso in quanto l’ultimo congresso ad Algeri, risale al 1988. Molti dei suoi membri sono morti, altri uccisi ed i restanti, ormai ultra settantenni, si trovano sparsi in vari paesi (e non possono entrare nei territori occupati). Infine, è presidente di Al Fateh, movimento politico (ex armato) fondata a Gerusalemme nel 1959 da Arafat. I membri sono stati “filtrati” nell’ultimo congresso svolto in agosto 2009, dopo 20 anni, a Betlemme. Il luogo poteva essere scelto in qualsiasi paese arabo, ma questa sede assicura la presenza dei “favoriti”. Tutti, secondo la mia opinione, ridotti ad essere membri con “compiti” funzionali.
Seduto ad una poltrona, Abbas sostanzialmente afferma:
Primo.
“Sono nativo di Safad, (città nell’alta Galilea), vorrei tanto vederla, so che non ho il diritto ad abitarci”. Nulla di strano circa quest’affermazione, anzi potrebbe aver ragione, perché egli ha letto bene la risoluzione 194 delle NU, nella quale è contemplato la rinuncia individuale al Diritto al Ritorno e la ricompensa per la sofferenza patita. Quindi, per un attimo, dimentica le proprie cariche e parla come qualsiasi profugo soffocato e oppresso che cerca un po’ di svago. Infatti, con la ricompensa, Abbas vorrebbe andare a Safad, non per abitarvi, ma solo per fare il turista.
Secondo.
Battendo coi palmi delle mani sui braccioli della sedia dice: “finché io sono al potere, non ci sarà nessuna terza intifada” e aggiunge “noi dobbiamo portare una lotta pacifica e diplomatica”. A questo proposito mi chiedo che fine hanno fatto quei ragazzi palestinesi a Bel’in e Na’lin che, fino a qualche tempo fa, ogni venerdì andavano a manifestare con le loro bandiere contro il muro? Oggi non ci sono più. Probabilmente secondo il pensiero di Abbas, questo tipo di lotta con le sole bandiere, provocava uno scontro con l’esercito israeliano e, quindi, era una forma di violenza da bandire. Il metodo seguito per bloccare questi “violenti” è semplice; basta arrestarli. Infatti, secondo accordi stipulati precedentemente i soldati israeliani possono entrare nei territori quando vogliono. Telefonano alla polizia palestinese informandola del percorso del commando israeliano che effettuerà un’incursione in un preciso quartiere. Durante il tragitto del commando israeliano, la polizia palestinese, anche se non può avere giubbotti antiproiettile e possiede fucili che sparano solo per 10 minuti (altrimenti si surriscaldano) si deve ritirare nelle proprie caserme. Per cui, liberamente il commando compie, ogni giorno (ripeto ogni giorno) la retata per arrestare 5, 10 e persino 20 attivisti. Risultato: pieno successo della missione di Keth Dayton, il generale americano che per cinque anni ha addestrato la polizia palestinese dell’ANP per mantenere l’ordine, ma non l’obbiettivo.
Terzo.
“Il futuro stato di Palestina è entro i confini del 67 con capitale Gerusalemme Est. Il resto è Israele”.
Seduto su quella poltrona, egli non vede la continua espansione delle colonie, i 600/700 punti di blocco, chiamati Checkpoint. Ignora le distruzione di case, la violenza dei coloni, e non s’accorge che l’acqua palestinese, che egli stesso beve, la deve pagare ad Israele. Non si rammenta che Gerusalemme era la Capitale della Cultura Araba, proclamato dell’UNISCO nel 2009, e lui stesso l’ha celebrata a Betlemme per il rifiuto israeliano. E poi, colmo dei colmi, è stato il 20 novembre, quando ha escluso proprio Gerusalemme, “la Capitale del futuro Stato di Palestina” dalle votazioni per eleggere i Consigli Municipali.
Non scrivo per fare del sarcasmo, anche se tutto è reale e documentato in pagine che meritano l’appellativo, in stesura, “Palestina, un’Opera Tragicomica”. È l’indice di frustrazione e l’incapacità di reagire con programmi seri, precisi, sereni e chiari soprattutto, che gettano nell’immondizia le lunghe e inutili trattative mentre le colonie si espandono a vista d’occhio.
C’è un detto che dice: è necessario mangiare tutto l’uovo per capire ch’è marcio? Con queste parole non intendo arrecare offese a nessuno, ma semplicemente, le stesse, hanno stimolato in me delle riflessioni sintetizzate in:
1- Annullare gli accordi d’Oslo. Sono valse vantaggiose ad Israele, giacché hanno trovato chi amministra gli occupati. In pratica, i dollari in arrivo nei territori occupati sono il prezzo per l’occupazione.
2- Ritirare il riconoscimento d’Israele. Ciò, eventualmente, potrà avvenire reciprocamente tra due stati.
3- Se queste due condizioni vincoli si realizzano, l’ANP deve essere sostituita con altri capaci, prima di tutto, di rifare e riformare l’OLP con tutte le fazioni politiche, sindacali, sociali e movimenti come quello delle donne, giornalisti, studenti…insomma, come lo era una volta.
Diversamente, l’ANP deve sciogliersi.
Non mi ritengo un politico, soprattutto non vivo nei territori occupati e non voglio liberare la Palestina stando a Milano. Mi ritengo profugo che ha subito ingiustizia infinita. Ammetto, però, che qualche dato, vista la complessità della Questione Palestinese, richiede analisi molto approfondita, molta esperienza, fatica e buona fede in ciò che si crede.
Un caro saluto e auguri di buon lavoro.
Dirar (membro della Comunità Palestinese della Lombardia)