Egitto e non solo nell’interessante analisi di Alain Gresh sulla Fratellanza musulmana

In sede di giudizio su complessi sconvolgimenti politici occorre rifuggire dagli schematismi e dagli assiomi geopolitici. Le “primavere arabe” hanno lasciato sul terreno diversi cadaveri e altri ce ne lasceranno, dato che l’onda che iniziò due anni fa è tutt’altro che esaurita. 

Lo vediamo in Egitto. I fatti invalidano ogni reductio ad unum, ogni semplificazione. Chi ieri incensava la Turchia di Erdogan, oggi si ricrede. Accade oggi a coloro che, affetti da una laicistica islamofoba, lanciavano fuoco e fiamme contro la Fratellanza musulmana, in quanto, dicevano, asservita ad un patto strategico con la Casa Bianca. A poco più di un anno di distanza dalla caduta di Mubarak l’Egitto è in subbuglio a causa della azzardata mossa di Morsi di dare un taglio islamista alla Costituzione. Si trova contro non solo la sinistra laica, ma anche i vecchi sostenitori di Mubarak, pezzi grossi della borghesia nazionale e, dulcis in fundo, Obama, che non vede affatto di buon occhio l’ascesa strategica regionale della Fratellanza. 

Gli islamisti alla prova del potere

Una potente ondata islamista originata dall’alleanza tra Fratelli musulmani, salafiti ed emiri del Golfo sembra sommergere il mondo arabo. Analizzandola meglio, si scopre però che il Corano non è la bussola che consente di navigare nel paesaggio politico regionale.

I Fratelli musulmani? «Un gruppuscolo che ha deviato dalla retta via.» La rivoluzione egiziana? «Non sarebbe stata possibile senza l’appoggio dell’Iran, ed è il preludio a nuovi accordi Sykes-Picot (1).» L’elezione di Mohamed Morsi? «Una scelta infelice.» Come molte autorità del mondo arabo, il capo della polizia di Dubai, il generale Dahi Khalfan Al-Tamim, comunica anche su Twitter: «Se i Fratelli musulmani provano a mettere in discussione la sicurezza del Golfo, scorrerà tanto sangue da sommergerli». Per tutta l’estate del 2012, il «primo poliziotto» di Dubai ha moltiplicato gli attacchi contro la confraternita, definendola un’«organizzazione traviata la cui fine è vicina» (2) e proponendone il blocco dei beni e dei finanziamenti. Aggiungendo il gesto all’anatema, le autorità degli Emirati arabi uniti – di cui Dubai fa parte – hanno trascinato in tribunale una sessantina di Fratelli per complotto contro il regime.

Il giornale Asharq Al-Awsat è di proprietà della famiglia del principe ereditario saudita Salman. Malgrado la fama di cui gode il quotidiano panarabo in Occidente, il suo grado di autonomia rispetto alla politica dell’Arabia rasenta lo zero (3). All’indomani del giuramento di Morsi, il 30 giugno 2012, il caporedattore, Abdul Rahman Al-Rashed, ha avanzato una serie di domande – o meglio quelle della famiglia Al-Saud (4). Il nuovo capo dello stato egiziano combatterà il terrorismo e si opporrà veramente ad al Qaeda? Riprenderà il ruolo di mediatore dell’ex presidente Hosni Mubarak sulla questione palestinese? Appoggerà realmente l’opposizione siriana, dal momento che si dichiarava contrario a qualsiasi intervento militare all’estero? Sosterrà il re Abdallah II contro la contestazione guidata dal ramo giordano dei Fratelli musulmani (5)?

«Dato che l’Iran è stato a lungo un solido alleato dei Fratelli musulmani, il presidente egiziano riallaccerà relazioni diplomatiche con Teheran, con il pretesto che gli stessi paesi del Golfo mantengono tali relazioni? Resterà in silenzio di fronte alle attività ideologiche e religiose dell’Iran, intensificatesi dalla caduta di Mubarak, come dimostra l’appoggio di Teheran a gruppi locali decisi a diffondere lo sciismo tra gli egiziani? Al-Azhar [importante istituzione dell’islam sunnita con base al Cairo] ha già messo in guardia contro questa influenza che potrebbe scatenare un conflitto confessionale in Egitto.»

Alcune settimane più tardi, in settembre, lo stesso giornalista denunciava la volontà del Cairo di includere Tehran – a fianco di Riyad e Ankara – in un gruppo quadripartitico incaricato di trovate una soluzione alla crisi siriana (6). Non stupirà apprendere che il ministro degli affari esteri saudita ha boicottato una riunione del gruppo tenutasi il 17 settembre al Cairo. Queste prove di sfiducia, come molte altre apparse sulla stampa del Golfo, hanno suscitato poca eco in Occidente, forse perché sono in contraddizione con la visione prevalente: quella di una grande alleanza dell’islam sunnita, che riunisce gli emiri del Golfo e i diversi movimenti islamisti, per imporre un rigoroso ordine religioso e l’applicazione della sharia. Come se il comune riferimento a una concezione conservatrice dell’islam cancellasse considerazioni politiche e rivalità diplomatiche, differenze nazionali e divergenze strategiche.

Alcuni precedenti storici alimentano questo tipo di preoccupazione, anche se dovuti più alla politica che alla religione. Negli anni ‘50 e ‘60, migliaia di quadri dei Fratelli musulmani, perseguitati in Egitto, Siria, Algeria e Iraq, si stabiliscono nel Golfo, in particolare in Arabia saudita. Come ricorda un intellettuale egiziano vicino alla confraternita, «Non si trattava di un patto ufficiale. All’epoca, l’organizzazione era stata smantellata e non disponeva di una direzione strutturata. Ma è vero che i militanti insediati in Arabia saudita hanno fornito al paese migliaia di quadri, che hanno contribuito alla lotta contro il nazionalismo arabo, quello del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser in particolare, e contro la sinistra».

L’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici, nel dicembre del 1979, rilancia l’intesa in nome della comune lotta contro il comunismo (7). Mobilitati in particolare dalle reti islamiste — i Fratelli musulmani resteranno infatti defilati, limitandosi a un aiuto umanitario (8) –, appoggiati dagli Stati uniti e dalla Central Intelligence Agency (Cia), finanziati dalle monarchie petrolifere, migliaia di volontari affluiscono per combattere l’Armata rossa. Al Qaeda nascerà da questa mobilitazione in favore dei «combattenti della libertà» afghani. La «primavera araba» rappresenta quindi la terza tappa di questa «santa alleanza»? È un’ipotesi seducente, ma occulta realtà più sottili nate nel post guerra fredda, a cominciare dalla rottura tra i Fratelli e la monarchia saudita, sopravvenuta all’inizio degli anni ‘90, all’ombra dell’invasione del Kuwait.

È proprio in un quotidiano di questo emirato, Al-Seyassah, che il potente ministro dell’interno saudita dell’epoca, il principe Nayef, dettagliava, già nel 2002, le sue lagnanze nei confronti dell’organizzazione (9): «I Fratelli musulmani sono la causa della maggior parte dei problemi del mondo arabo e hanno provocato gravi danni in Arabia saudita. Li abbiamo sostenuti eccessivamente e hanno distrutto il mondo arabo.» Il principe ricordava che, durante la crisi del Golfo del 1990-1991, aveva ricevuto una delegazione di cui facevano parte, in particolare, il tunisino Rashid Gannushi (attuale presidente di Ennahda), il sudanese Hassan Al-Turabi, lo yemenita Abdul Majid Al-Zindani e il turco Necmettin Erbakan, tutti appartenenti al movimento dei Fratelli. «Abbiano chiesto loro: “Approvate l’invasione del Kuwait?” Hanno risposto che erano lì per ascoltare il nostro punto di vista. Ma poi si sono recati in Iraq, dove, con nostra grande sorpresa, hanno pubblicato una dichiarazione di sostegno all’occupazione del Kuwait.»

Quando la realpolitik conta più della solidarietà religiosa. Il principe evitava però di accennare a un’altra causa della sua irritazione, condivisa da altri emiri della regione: l’insediamento dei Fratelli all’interno delle società del Golfo e la loro partecipazione, a partire dalla guerra del Kuwait, alle contestazioni contro il regno. Perché la loro visione politica – uno stato islamico, certo, ma basato su elezioni – diverge da quella della monarchia, fondata sull’indiscussa fedeltà alla famiglia reale saudita. La quale, infatti, ha preferito finanziare le diverse correnti salafite, tutte piuttosto rassicuranti con il loro rifiuto di intervenire in campo politico e l’invito a sostenere i poteri costituiti quali che fossero – la famiglia reale come Mubarak.

Il divario tra Riyad e la confraternita si è ampliato negli anni 2000, con la partecipazione dei Fratelli musulmani, attraverso l’Hamas palestinese, all’«asse di resistenza» contro Stati uniti e Israele, a fianco di Iran, Siria e Hezbollah libanese. Poi le rivoluzioni arabe hanno modificato lo scacchiere politico. L’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti non le approvano. Per loro, il successo delle esperienze condotte dai Fratelli in Egitto o in Tunisia è tutto fuorché una buona notizia. I dirigenti wahhabiti, che avevano eccellenti relazioni con Mubarak e hanno accolto l’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali dopo la fuga – rifiutandone l’estradizione richiesta dal nuovo potere tunisino –, rimproverano ai Fratelli di aver fatto cadere i due dittatori, e agli Stati uniti di averli abbandonati.

La monarchia si erge a baluardo della controrivoluzione e schiaccia la rivolta in Bahrain, nel marzo 2011. Eppure la prima visita del presidente Morsi all’estero – come quella del primo ministro tunisino Hamadi Jebali, membro di Ennahda –, l’11 luglio 2012, è stata riservata all’Arabia saudita. Non per solidarietà «islamista», ma in nome della realpolitik che domina le relazioni internazionali. L’Egitto ha molto bisogno dei soldi di Riyad – ha ricevuto 1,5 miliardi di dollari e altri 2,5 miliardi sono stati promessi (10). D’altra parte, più di un milione e mezzo dei suoi cittadini lavora nel regno, e i fondi inviati alle famiglie alimentano la bilancia dei pagamenti del paese.

Quanto all’Arabia, quali che siano i suoi pregiudizi, non può rompere con il più importante paese del Medioriente. «La visita di Morsi non ha risolto tutti i problemi», commenta un diplomatico egiziano. È un eufemismo. Molte questioni restano sul tappeto, dal trattamento riservato agli egiziani nel regno alla sorte degli investimenti sauditi in Egitto. Nell’aprile 2012, Riyad richiamava il suo ambasciatore al Cairo dopo che una serie di manifestazioni avevano denunciato l’arresto nel regno wahhabita di Ahmed Al-Gizawy, un avvocato accusato di detenzione di droga. Nell’agosto 2012, Essam El-Erian, uno dei principali dirigenti dei Fratelli diventato consigliere del presidente, chiedeva sul suo account su Twitter all’ambasciata saudita «di fornire chiarimenti circa il reato, il procedimento giudiziario e le circostanze dell’arresto di Nagla Wafa», una cittadina egiziana detenuta dal 2009, condannata a cinque anni di carcere e a cinquecento colpi di frusta per un dissidio finanziario con una principessa (11).

Ad alimentare il contenzioso c’è anche il destino degli investimenti del regno in Egitto. Nel giugno 2011, un comunicato del ricchissimo principe Al-Walid Bin Talal annunciava che avrebbe «donato al popolo egiziano» tre quarti dei centomila acri acquistati a prezzo stracciato grazie al sistema di corruzione dominante sotto il presidente Mubarak (12). Evitava così di avere noie con la giustizia egiziana. Altre inchieste, riguardanti in particolare interessi sauditi, sono state aperte dalla procura egiziana, anche se il Cairo e Riyad tentano di placare le tensioni che ne derivano e un apposito ufficio è stato creato presso il ministero dell’investimento egiziano per risolvere i contenziosi con l’Arabia (13). Riyad si adombra anche per il ritorno del Cairo sulla scena diplomatica, dopo che nell’ultimo decennio l’Egitto era scomparso, mantenendosi spesso al seguito della monarchia wahhabita.

Il viaggio di Morsi in Cina – segno che i tempi del testa a testa con gli Stati uniti sono finiti –, poi in Iran, ha confermato i timori. La visita a Teheran, a fine agosto 2012, è valsa di certo al presidente la stima dell’opinione pubblica egiziana, fiera che abbia resistito alle pressioni degli Stati uniti e insieme poco sensibile al discorso antiraniano e antisciita dei dirigenti del Golfo. Ma, per evitare di urtare l’Arabia, Morsi ha dovuto effettuare un numero da equilibrista: è rimasto solo poche ore nella capitale iraniana, non ha incontrato la Guida della rivoluzione come previsto e ha rifiutato di dare indicazioni sulla ripresa delle relazioni diplomatiche bilaterali. Dopo avere reso omaggio a Gamal Abdel Nasser – il colmo, visto che l’ex rais aveva violentemente represso i Fratelli negli anni ’50 e ’60 –, ha inasprito la posizione sulla Siria chiedendo l’allontanamento di Bashar Al-Assad, pur rifiutando l’intervento esterno chiesto dall’Arabia saudita.

Quanto a Gannushi, il dirigente tunisino di Ennahda, durante il lungo esilio, ha risieduto molto tempo a Londra, preferendola a Riyad. Durante la sua visita negli Stati uniti, nel dicembre 2011, ha dichiarato che la «primavera araba» avrebbe sradicato gli emiri del Golfo; una previsione che gli è valsa la risposta ironica del quotidiano saudita Al-Riyadh (14), che si è chiesto se la profezia riguardasse anche l’emiro del Qatar. Riyad si adombra per il ritorno del Cairo sulla scena diplomatica regionale dopo un decennio di assenza In effetti, le relazioni tra il Qatar – che si richiama, come l’Arabia saudita, al wahabismo – e i Fratelli sono solide.

L’emirato pensa di aver trovato nella confraternita uno strumento di espansione della sua politica, dal momento che non dispone né di esercito né di diplomatici né di un numero di spie sufficiente a svolgere un ruolo regionale attivo, e che, se dispone di un jolly, sono le sue infinite riserve di dollari. Ha saputo utilizzare la presenza sul proprio territorio, fin dagli anni ’70, dello sceicco Youssef Al-Qaradawi, diventato uno dei predicatori più popolari della regione grazie alla trasmissione «La sharia e la vita», ospitata dal canale del Qatar Al-Jazira. Al-Qaradawi è un riferimento religioso per la confraternita, della quale ha fatto parte – pur conservando la propria autonomia.

Il Qatar, dopo aver corteggiato Hezbollah, Siria e Iran – e mantenendo solide relazioni con gli Stati uniti –, ha scelto dalle «primavere arabe» di scommettere sulla vittoria dei Fratelli. Al-Jazira, canale totalmente finanziato dall’emirato, vi ha perso molta della sua credibilità nonché alcuni dei migliori giornalisti; è diventata, in Egitto e talvolta in Tunisia, il portavoce dei Fratelli. La visita dell’emiro del Qatar al Cairo, nell’agosto 2012, in pieno ramadan, e i 2 miliardi di dollari depositati nella Banca centrale egiziana per aiutarla a risolvere i problemi di tesoreria, confermano la solidità del rapporto. Tanto più che è grazie all’avallo delle autorità egiziane che il 23 ottobre l’emiro si è recato a Gaza, dove ha incontrato il governo diretto da Hamas. Contrariamente a quanto pensava il generale De Gaulle, che si involava con idee semplici verso l’«Oriente complesso», questa regione del mondo non è misteriosa, anzi può essere analizzata a partire dagli stessi concetti politici del resto del mondo. Sempre che li si voglia applicare.

Così, le diverse ramificazioni dei Fratelli non obbediscono alla bacchetta di un direttore d’orchestra misterioso che, nascosto alla Mecca, legga uno spartito ispirato ai dogmi dell’islam: la loro strategia spesso si adatta agli interessi nazionali, come dimostra la politica di Morsi rispetto a Israele o a Gaza, destinata a provocare una forte delusione all’interno di Hamas. A questo quadro vanno aggiunti i salafiti – il loro ingresso in politica in Egitto e in Tunisia implica sfide nuove che queste correnti avevano finora rifiutate (15) – il riavvicinamento tra il Qatar e l’Arabia saudita, anche se l’emirato resta diffidente rispetto al potente vicino; o ancora le minacce alla monarchia giordana – che ormai rifiuta di coordinare il suo aiuto ai ribelli siriani con il Qatar, sospettato di favorire i Fratelli. Tutto ciò dà un’idea delle difficoltà che si incontrano nel voler leggere il paesaggio islamista regionale attraverso un’ottica esclusivamente religiosa.

Note:
(1) Gli accordi che, negoziati segretamente tra Francia e Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale, portarono alla spartizione del Medioriente tra le due potenze.
(2) Cfr., tra gli altri, «Dubai police chief warns of Muslim Brotherhood, Iran threat», Egypt Independent, Il Cairo, 26 luglio 2012; sito Asharq, 6 settembre 2012; Al-Arabiya, 9 settembre 2012.
(3) Si legga Mohammed El-Oifi, «Viaggio nel cuore della stampa panaraba», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2006.
(4) Abdul Rahman Al-Rashed, «What will Mursi do?», Asharq Al-Awsat, Londra, 2 luglio 2012, www.asharq-e.com
(5) Si legga Hana Jaber, «La Giordania aspetta la sua “primavera”», Le Monde diplomatique/il manifesto, agosto 2012.
(6) Alsharq Al-Awsat, 19 settembre 2012, citato da Mideast Mirror, Londra, 19 settembre 2012.
(7) Si legga Christian Parenti, «Afghanistan, storia di un tentato comunismo», Le Monde diplomatique/il manifesto, agosto 2012.
(8) Stéphane Lacroix, «Osama bin Laden and the Saudi Muslim Brotherhood», Foreign Policy, Washington, DC, 3 ottobre 2012.
(9) Il testo è stato tradotto in inglese da un sito ufficiale saudita, Ain-Al-Yaqeen, 6 dicembre 2002: www.ainalyaqeen.com/issues/20021206
(10) Ahram Online, 19 settembre 2012.
(11) Al-Watan, Il Cairo, 2 settembre 2012.
(12) Reuters, 11 giugno 2011.

(13) «Through special office, government to protect Saudi investors», Al-Masry Al-Youm, Il Cairo, 4 ottobre 2012.
(14) «Ghannouchi crée la polémique en Arabie saoudite», BusinessNews.com, Tunisi, 15 dicembre 2011.
(15) Come dimostra la crisi all’interno di Al-Nour, il principale partito salafita in Egitto.

 (Traduzione di G. P.)

da le Monde diplomatique