Moneta unica, sovranità nazionale e fuoriuscita dal capitalismo

Lettera aperta ai compagni dei Carc

Il 4 dicembre scorso il Partito dei Carc ha diffuso un testo dal titolo «Note sulla crisi per il convegno “crisi sistemica, neokeynesismo, decrescita», nel quale l’esposizione della propria interpretazione della crisi capitalista serve da cornice alla critica di coloro i quali, il Mpl anzitutto, perorano l’uscita dall’euro e dall’Unione europea.


Di quale crisi stiamo parlando

Chiamati in causa ci sentiamo in dovere di rispondere, non per amore della polemica, quanto per chiarire ulteriormente il senso e le implicazioni della nostra posizione e del perché lo sganciamento dall’Unione europea e la riconquista della sovranità monetaria sono misure imprescindibili se si vuole far uscire il nostro paese dalla crisi storico-sistemica che dilania il capitalismo e contestualmente aprire una breccia al socialismo.

Tab. 1 – L’enorme aumento della produzione mondiale dopo la II Guerra

Voi scrivete:
«L’interpretazione da dare della natura della crisi in corso è per noi una questione decisiva. (…) L’incomprensione della realtà che abbiamo sotto gli occhi, i molti errori di linea politica e le molte parole d’ordine inconcludenti oggi in campo hanno origine nella interpretazione sbagliata della crisi: origini, effetti e esiti. La lotta per affermare la giusta interpretazione della crisi è indispensabile per liberare il campo della lotta politica da posizioni che deviano o ostacolano l’elaborazione e la conduzione della nostra soluzione politica, la soluzione favorevole alle masse popolari e al progresso dell’umanità».

Siamo perfettamente d’accordo con questa premessa. Come nessuno affiderebbe la propria salute ad un medico la cui terapia non sia fondata su una conoscenza adeguata dell’anatomia e un diagnosi esatta del male, così non saranno credibili le proposte dei rivoluzionari per uscire dalla crisi senza un’analisi scientifica della crisi medesima. E questa analisi presuppone una conoscenza adeguata della fisiologia del sistema capitalistico. Dell’attuale sistema capitalistico, anzitutto occidentale, non di quello che fu.

L’errore vostro è che non siete in grado di cogliere i profondi mutamenti avvenuti in seno alle formazioni sociali imperialistiche, ci riferiamo anzitutto agli ultimi 40 anni. Quasi mezzo secolo. Il capitalismo, a differenza di altri modi di produzione, come quelli asiatico, schiavistico o feudale, è dinamico, mutante. Esso ha conosciuto varie fasi: dalla manifattura al sistema industriale dispiegato, dal colonialismo all’imperialismo, dalla libera concorrenza al regime monopolistico, dalla democrazia liberale al fascismo e ritorno. Guai a quei rivoluzionari che si rifiutassero di cogliere questi mutamenti. La teoria è un’arma per cambiare la realtà, occorre maneggiarla con cura, altrimenti può esplodere in faccia a chi la usa in modo improprio, senza dimenticare che una teoria sbagliata è come una pistola scarica, che mette a repentaglio anzitutto chi la usa.

Tab. 2 – Il consumo mondiale di energia è aumentato di sei volte dopo la II Guerra, un indice infallibile della crescita dell’economia mondiale

Cos’è che spinge il capitale a passare da un modello sociale ad un altro? Da un paradigma ad un altro? La ragione è nel suo stesso ambivalente Dna. Animato dalla ricerca della massima estrazione di plusvalore, esso non solo deve sviluppare le forze produttive, è di necessità costretto a far sì che a questo sviluppo si adatti non solo la sovrastruttura, ma gli stessi rapporti di produzione — che non si comportano come un freno a mano che automaticamente si inneschi quando il motore è a tutto gas. Per dire che si è rivelata fallace l’idea meccanicistica per cui ci sarebbe una necessitata correlazione inversa tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. (Vedi, sul lungo ciclo di espansione capitalistica nella seconda metà del ‘900, le Tabelle N.1 e 2)

Ma veniamo al punto. Voi affermate:
«Abbiamo più volte in questi anni spiegato come il nostro paese e tutto il mondo è coinvolto e sconvolto dalla seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, iniziata a metà degli anni ’70 del secolo scorso e dal 2008 entrata nella sua fase acuta e terminale. E’ una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale: a livello mondiale e considerando tutti i settori produttivi, il capitale accumulato è tanto che, se i capitalisti lo impiegassero tutto nelle loro aziende che producono merci (beni e servizi), estrarrebbero una massa di plusvalore (quindi di profitto) inferiore a quella che estraggono impiegandone solo una parte. Quindi la crisi attuale ha la sua fonte nelle attività produttive (l’economia reale), cioè nella struttura della società (in questo senso è una “crisi strutturale”)».

E’ giusta questa diagnosi? Sì e no. Sì perché coglie un aspetto costitutivo della patologia che affetta il sistema. No perché voi, con uso maldestro del metodo dialettico, ossessionati dal “ridurre tutto ad unità”, dal cercare la “causa prima”, la “sorgente” di tutti i mali, finite per utilizzare il concetto di sovrapproduzione come un assioma geometrico, un dogma passepartout, senza sostanziarlo con accurate analisi empiriche e fattuali. [1]

Tab. 3 – L’avanzata del capitalismo cinese dagli anni ’50 al 2005

In primo luogo.
Non è vero che “tutto il mondo” capitalista soffre di crisi da sovrapproduzione.
Basta vedere le performaces di certi capitalismi emergenti (non solo asiatici, ma latino-americani e mediorientali) che conoscono alti livelli di sviluppo economico, di accumulazione di capitale e di profitti, anche dopo il crollo finanziario del 2008 e malgrado il ciclo recessivo della maggior parte dei paesi occidentali.

(vedi Tabella N.3 sulla poderosa crescita cinese)

In secondo luogo.

La crisi di “sovrapproduzione assoluta”, dev’essere intesa non solo come conseguenza e risultato del lungo ciclo espansivo post-bellico conosciuto dai paesi imperialistici, ma come tendenza. Una tendenza davanti alla quale il capitale non se ne sta inerme alla finestra, mettendo invece in atto anche radicali ed efficaci contro-misure.

Dopo il decennio di transizione dei ’70, i centri decisionali del blocco imperialistico, a cominciare da quello americano, abbandonato il paradigma keynesiano si sono votati a quello cosiddetto “neoliberista”. Voi considerate questo mutamento una pinzillacchera, se non una fesseria. Grave errore. Gravissimo errore! Questo mutamento di paradigma nella politica economica degli Stati e dei grandi gruppi sistemici ha indotto profonde trasformazioni di modello sociale, nelle modalità di accumulazione del capitale, che si sono a loro volta riverberate su tutto il corpo sociale modificando la stessa composizione di classe nonché ridisegnando la gerarchia tra Stati e settori economici.

Il fatto che qui adesso ci interessa è sottolineare come questo passaggio alla iper-finanziarizzazione, al sistema di capitalismo casinò, abbia non solo frenato la crisi di sovrapproduzione — la quale, scusateci la pedanteria, è solo un altro modo per significare la caduta del saggio medio di profitto —, ma abbia consentito al capitale di invertire momentaneamente la tendenza, spingendo per quasi un ventennio all’in su i tassi di profitto, malgrado la discesa di quelli di accumulazione. [2]
(Vedi l’istruttiva Tabella N. 4)

Tab. 4 – La curva dei tassi di profitto cresce a dispetto della discesa di quelli di accumulazione, la conferma dell’iper-finanziarizzazione che viene avanti dall’inizio degli anni ’80

Dal 1980 al 2000 abbiamo così avuto un periodo d’oro per l’imperialismo (ciò che ha consentito di accrescere la pressione, fino al crollo, sull’Urss e i suoi satelliti). Ci sono evidenze empiriche lampanti a conferma, basta volerle osservare e individuare, invece di restare appesi alla propria divinazione oracolare.

In che senso questo modello fondato sulla rendita finanziaria e sulla captazione indiretta di plusvalore sia diverso da quello precedente, come esso funzioni, e come abbia mutato la stessa composizione di classe, lo abbiamo spiegato più volte. [3]

Vale qui ribadire che senza una comprensione adeguata di come oggi funzioni il sistema, senza disvelare quali sono i nuovi meccanismi di accumulazione, non è possibile capire un’acca delle ragioni della sua crisi e della sua fenomenologia. Né si possono comprendere i mutamenti nella composizione delle classi che finiscono per determinare le dinamiche sociali e politiche. E chi non capisce come può dire la verità al popolo lavoratore?

In terzo luogo. Ipostatizzando la “crisi di sovrapproduzione assoluta”, facendone una formula astratta, sembrate dimenticare sia gli studi di Marx (particolarmente nel II. e III. Libro de Il capitale), che la storia delle crisi economiche capitalistiche, le quali possono essere di varia natura: commerciali (improvvisi aumenti dei prezzi delle materie prime, squilibri nelle bilance dei pagamenti, tra certi settori ed altri), finanziarie (monetarie, valutarie, di credito e/o di tesaurizzazione).

In certi casi la sovrapproduzione da causa può essere effetto, anche se la sostanza resta il fenomeno della svalorizzazione dei capitali, la caduta dei saggi di profitto.

Possiamo dirla così: (1) attenti al meccanicismo nell’affrontare la relazione causa-effetto, le connessioni tra i fenomeni sono spesso più complesse da spiegare e non sono sempre uniformi; (2) la sovrapproduzione assoluta è un risultato dello sviluppo capitalistico, si afferma cioè in ultima istanza, date certe condizioni di squilibrio. Senza individuare gli squilibri nella sfera della circolazione, senza cogliere l’importanza che nel sistema di capitalismo casinò hanno i meccanismi monetari, creditizi e bancari, le cartolarizzazioni (derivati), gli scambi borsistici ad alta frequenza, le speculazioni finanziarie su valute, debiti e materie prime, quindi l’importanza del denaro e della moneta, nulla si può dire di davvero decisivo su come fuoriuscire da questo inferno.

Non ci sfiora dunque la vostra critica per cui noi considereremmo questa crisi come solo ciclica o finanziaria. Da anni andiamo invece ripetendo che il capitalismo occidentale è alle prese con una crisi storico-sistemica, ma è storico-sistemica appunto perché essa risulta da un combinato disposto di fattori: crisi monetaria, creditizia, commerciale, di squilibri tra Stati e settori (per non parlare dei fattori politici, morali e intellettuali), tutti conchiusi entro la cornice di una crisi di sovrapproduzione cronica.


Sovranità monetaria, ovvero: liberazione o dipendenza

Tab. 5 – I profitti finanziari negli USA in % a quelli complessivi. Dopo il crollo del 2009 sono in netta risalita

Venendo ora alla vexata quaestio della sovranità monetaria vale ribadire che secondo noi:

(1) il modello di capitalismo casinò, esaurita agli inizi del secolo la sua spinta propulsiva, è entrato in fase agonica. Questa agonia, manifestatasi come mix esplosivo di crisi creditizia, monetaria e di squilibri commerciali, era inevitabile, inscritta nel Dna del capitalismo casinò. Il crollo finanziario del 2008 negli Usa, poi estesosi oltre Atlantico e in tutte le sfere economiche e sociali, è la dimostrazione fattuale di quanto stiamo dicendo.

Noi consideriamo quella data come periodizzante. Il vecchio consorzio imperialistico, anche a causa della competizione con i capitalismi e gli imperialismi emergenti, deve trovare una via d’uscita. Ne ha apparentemente due e due soltanto: o un keynesismo rafforzato che punti alla crescita della domanda aggregata — quindi: fine del liberoscambismo finanziario esasperato, controllo dirigista del mercato e dei flussi di capitale, riabilitazione dello Stato come architetto e primo agente nella stessa sfera economica, aumento della spesa pubblica —; oppure arroccarsi sul paradigma neoliberista portando alle estreme conseguenze le politiche deflattive e antipopolari. (La Tabella N.5 indica che quest’ultima paia la tendenza principale)

Tab. 6 – Il peso enorme della finanza nell’economia, in particolare quello delle banche europee in % sul Pil

Si apre in Occidente un periodo lungo di convulsioni sociali acutissime, e anche di profonde fratturazioni in seno alla classe dominante: per essere più precisi tra la nuova classe di oligarchia rentier-parassitaria e la tradizionale borghesia “operante”. [4]

(2) Il capitalismo casinò è quel sistema nel quale imponenti conglomerati finanziari, prima propulsori e poi paladini del globalismo liberoscambista, hanno assunto una potenza pari e in alcuni casi superiore a quella della maggior parte degli Stati imperialistici. (Vedi Tabelle N. 6 e 7)

Essi hanno di converso depotenziato gli Stati, li hanno soggiogati, trasformandoli in loro protesi, espropriandoli della loro sovranità. Ciò vale in particolare per lo Stato italiano — che astrusamente vi ostinate a definire “Repubblica pontificia”, dal che si deduce che secondo voi sarebbe la Curia papale il decisore politico di ultima istanza e non invece i poteri tecno-oligarchici europei —, uscito con le ossa rotte dal rigerarchizzazione tra le potenze, ridotto, per usare un’immagine ruvida ma azzeccata, al rango di potenza sub-imperialista. Una potenza di medio rango dunque, prona non solo al super-imperialismo statunitense (diciamo super perché si pone come tutore e guardiano armato non solo di sé medesimo bensì di tutto il consorzio imperialistico) ma ai conglomerati finanziari globali di cui sopra ed infine ai poteri tecno-oligarchici europei entro i quali la Germania è dominus.

Tab. 7 – Il declino del capitalismo industriale e la crescita di quello finanziario negli USA

Per certi versi, il marchingegno diabolico del debito sta operando una rigerarchizzazione delle potenze statuali, similmente a come agirono i “crediti di guerra” dopo la prima Grande guerra. La Germania di allora venne gettata nell’afflizione, ridotta a paese dipendente disarmato, in posizione di soggezione rispetto agli imperialismi vincenti. Per questo l’Internazionale comunista consigliò alla sezione tedesca di farsi campione della lotta per il ripudio di quei debiti e addirittura del riscatto nazionale tedesco. Un’esortazione che i comunisti tedeschi non accettarono, contribuendo così ad aprire la strada all’incipiente ondata nazista.

Non possiamo permetterci di commettete lo stesso errore strategico dei comunisti tedeschi, di lasciare alla destra sciovinista e reazionaria la bandiera della sovranità nazionale. Occorre impugnare invece il sovranismo e legarlo saldamente alla prospettiva socialista.

Ciò per dire che è un errore clamoroso non vedere questa nuova gerarchia, non riconoscere che questa alienazione della sovranità nazionale — che per affermarsi ha avuto bisogno di quella grande frattura rappresentata da “Mani pulite” servita a portare al potere frazioni borghesi, partiti e capi politici ubbidienti ai poteri finanziari globali — è un fattore politico e storico di prima grandezza. E’ proprio da questa angolatura che condividiamo il vostro appello alla formazione di un fronte (o, come voi stessi dite, di un comitato di salvezza nazionale — sottolineiamo nazionale, ma su questo torniamo più avanti) pronto a formare un governo popolare d’emergenza.

Tab. 8 – Un indice macroscopico degli squilibri indotti dall’euro e della nuova gerarchia tra gli Stati

Potremmo discutere a lungo della questione monetaria, ma vogliamo evitare di ricorrere agli inevitabili tecnicismi. La sostanza è di natura politica, con implicazioni tattiche sulle alleanze e strategiche sul percorso di fuoriuscita dal capitalismo.

Vale ribadire che voi, non riuscendo a mettere a fuoco l’importanza centrale che in un’economia fondata sul valore di scambio e la realizzazione del plusvalore hanno denaro, moneta, credito e finanza (che sembra riteniate meri orpelli o rivestimenti del capitale), non comprendete i meccanismi predatori che sottostanno al “debito pubblico”. Giungete ad affermare, di contro all’evidenza dei fatti e facendo il verso ai liberisti, che:
«La crisi dell’economia reale e il gonfiamento del debito pubblico hanno avuto, per quanto riguarda l’Italia, origini del tutto endogene» — il debito italiano è invece più che raddoppiato a partire dagli inizi dei ’90, quando si è deciso di dare in pasto i titoli di Stato alla finanza predatoria internazionale. (Vedi tabella N.9)

Tab. 9 – La curva storica del debito sovrano italiano rispetto a quella del Pil. Il raddoppio dagli anni ’90

Voi portate, contro la proposta di uscita dall’Unione europea e dall’eurozona, oltre a quello sulla natura della crisi, alcuni argomenti francamente risibili. Il solo che abbia un apparente valore sostanziale è questo: dato che la crisi sarebbe “mondiale” la soluzione non può che essere internazionale, cioè «… lo sviluppo della seconda ondata della rivoluzione proletaria». In altre parole ci state suonando lo stesso spartito dei dottrinari, per cui la sola soluzione alla crisi sarebbe la… rivoluzione socialista. Bingo! Tante pagine per propinarci uno slogan stereotipato?

Comunque, data la premessa, vi viene facile (come del resto tutti i dottrinari hanno sempre fatto verso i rivoluzionari) accusarci, non solo di voler “tornare alla Prima repubblica”, ma di credere «.. in definitiva possibile risolvere la crisi in modo sostanzialmente pacifico, ad opera delle stesse autorità e classi che ci hanno trascinato nella crisi, restando comunque nell’ambito del capitalismo (seppure riformato e corretto in alcuni suoi aspetti più estremi e distruttivi)».
In pratica ci state accusando di essere riformisti.

Parliamo di cose serie. Ogni persona ragionevole dovrebbe riuscire a capire tre concetti fondamentali:

(1) che la sovranità monetaria è un aspetto imprescindibile della sovranità nazionale e popolare, senza la quale non solo non c’è democrazia ma nemmeno una indipendente politica economica;
(2) che l’euro, proprio a causa dall’allineamento forzoso dei tassi di cambio nominali tra la valute in sfregio dei fondamentali delle economie, è lo strumento con cui le tecno-oligarchie hanno soggiogato i popoli e le nazioni più deboli;
(3) che questo soggiogamento è stato possibile non a dispetto ma grazie alla deliberata scelta alienatoria della borghesia italiana e dei suoi orpelli politici.

Ahinoi, anche questo voi sembrate non capire. E non riuscite dunque a comprendere che quella dell’uscita dall’Unione e dall’eurozona non è solo un arma per combattere le oligarchie finanziarie globali ed euriste, ma con esse la nostra stessa classe dominante ascara. Un’arma che si dimostrerà decisiva per mobilitare le masse e rovesciare questo miserabile stato di cose. Non riuscite a capire che il collasso dell’eurozona, e quindi un ritorno alle sovranità monetarie, non è solo un nostro desiderata, che è un processo oggettivo ineluttabile.

Potremmo discettare a lungo sugli aspetti di dottrina del problema — potremmo farlo, se siete d’accordo, in un seminario apposito. Qui vale il discorso che davanti a questo processo ci sono due e solo due possibilità: o lo si agevola pensando al dopo, nella prospettiva storica del socialismo (che non è dietro alla porta), o lo si contrasta, come vogliono i grandi poteri oligarchici e predatori dominanti.

Verso il socialismo. Come?

Compagni, voi da che parte state? Non rischiate, a causa di un malinteso internazionalismo, di essere la quinta ruota del carro di quella che voi stessi chiamate “sinistra borghese”? Come è possibile che non vediate che il dogma di questa “sinistra borghese” e dei poteri plutocratici globali che rappresenta, è proprio la difesa integerrima della moneta unica e dell’Unione imperialistica europea? Che quindi, obiettivamente, su questo punto, siete con tutti e due i piedi nel campo del nemico?

Come potete non capire che un “Governo di blocco popolare” che lasciasse il paese nell’Unione (un’Unione imperialista fondata sul paradigma neoliberista, con Trattati antipopolari mostruosi) e che mantenesse l’euro come sua moneta è un grottesco controsenso? Come fate a non capire che un governo popolare che volesse davvero applicare misure d’emergenza per uscire dalla crisi e per soddisfare i bisogni più vitali del popolo lavoratore, dovrebbe battere moneta propria, violare tutti i Trattati (da quello Maastricht, a quello di Lisbona al Fiscal compact)? Come non vedere che se si rifiutasse di onorare il debito sovrano — che in realtà lede la sovranità perché eterodetermima la politica economica nazionale anche solo drenando ingenti risorse verso i forzieri delle banche d’affari e dei fondi d’investimento — dovrebbe tirarsi fuori dai mercati finanziari e quindi sganciarsi dalla morsa dell’eurozona e del blocco euro atlantico? Abbattere quest’Unione imperialista è il solo modo per aprire un varco ad un’Europa confederativa e socialista. Non si passa dall’una all’altra come salendo una scala.

Solo una sterile logica dottrinaria può sorreggere l’idea eccentrica per cui un governo popolare (che secondo noi avremmo solo con la sollevazione democratica e rivoluzionaria generale e non grazie al “coraggio”, che non hanno, quelle che chiamate “Organizzazioni operaie e popolari”) avrebbe più chance restando nell’Euro e nell’Unione ad ogni costo e non invece spezzando la catena imperialistica.
Solo una sterile logica dottrinaria può dimenticare che il socialismo non lo si instaura dall’oggi al domani, che esso dovrà attraversare varie fasi, la cui prima è quella di una sollevazione che riconsegni sovranità piena al popolo, affidando al governo popolare di compiere alcune prime decisive trasformazioni economiche, sociali e politiche che avranno il socialismo come orizzonte, ma che, ben saldo il discorso dell’egemonia, eviterà ogni strappo avventuristico, ogni salto nel buio. Non si passa dall’economia mercantile alla socializzazione in un breve lasso di tempo. Di sicuro un simile governo avrà dei guai con gli estremisti di varia natura.

Tab. 10 – La Nato nerbo storico dell’Unione Europea

Ed è sempre frutto di dottrinarismo l’accusa patetica secondo cui, proporre lo sganciamento dalla gabbia della Ue e mettere sotto accusa il capitalismo tedesco come suo vero e proprio dominus, sarebbe un cedimento al nazionalismo.
Cos’è compagni? Il mito escatologico della rivoluzione mondiale? Quello che si rifiuta di vedere che lo sviluppo oltre ad essere ineguale è spesso anche scombinato? Nessun blocco sociale rivoluzionario ha mai vinto in un paese che non abbia conquistato la fiducia delle larghe masse, ove la classe d’avanguardia non abbia agito come “classe nazionale”. Fatte le dovute proporzioni la lotta che dobbiamo condurre è oramai, nelle condizioni di perdita si sovranità, anche una lotta di liberazione. Per cui si deve sposare la sovranità nazionale col socialismo, il patriottismo con l’internazionalismo. [5]

Certo che solo a scala mondiale si potrà sconfiggere definitivamante il capitalismo e costruire il socialismo, ma questo è un punto di arrivo, il percorso della rivoluzione sarà necessariamente tortuoso. Seguendo Lenin: la catena imperialistica si deve spezzare e si spezzerà nei suoi anelli deboli, cioè il punto di partenza può ben essere nazionale.

Anche noi auspichiamo che la rivoluzione sociale sia almeno europea, ma dentro questa Europa i vari paesi conoscono livelli diversi di crisi, di sviluppo delle contraddizioni sociali e di classe, diversa potenza delle classi dominanti, e diversi livelli di organizzazione antagonista. E’ realistico supporre che alcuni anelli sono destinati a spezzarsi prima.
Dove si spezzeranno, ammesso che i rivoluzionari si trovino al posto di comando, dovranno agire, certo per estendere la rivoluzione sociale, ma per farlo debbono anzitutto dare il buon esempio, che si misura anche da come resistono alle pressioni nemiche e guidano con successo la fase di transizione.

E del resto non parlate voi stessi di Comitati di salvezza nazionale? Se foste coerenti con quanto dite e con la critica che ci rivolgete, dovreste parlare di Comitato di salvezza internazionale, quantomeno europeo. Ma non lo fate, e non lo fate perché voi stessi vi rendete conto di quanto sia aleatoria e poco realistica una simile proposta politica.

Siamo stati già prolissi e la chiudiamo qui, certi che non confonderete, come noi non abbiamo confuso, lo stile asciutto della polemica, con l’astio. La chiarezza è necessaria non solo per mantenere la reciproca stima, ma pure per forgiare un fronte che voglia davvero vincere le sfide enormi che abbiamo davanti.

La Segreteria nazionale pro tempore del Mpl

Note

[1] Giusto cercare l’unità che innerva la molteplicità dei fenomeni sociali. Nel caso della crisi sistemica voi affermate che l’unità primordiale è appunto la “struttura della società”, e che “solo apparentemente la realtà è caotica”. La realtà capitalistica è invece effettivamente caotica. Che il pensiero cerchi di mettere ordine nel caos, prima in sede teorica e poi pratica, non toglie che una cosa è la realtà e un’altra il pensiero. Non si deve fare confusione tra concreto e astratto, fra molteplicità e totalità. Qui vale l’ammonimento di Marx rispetto all’errato uso hegeliano delle astrazioni concettuali: «Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è il solo modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. (…) L’insieme, il tutto, come esso appare nel cervello quale un tutto del pensiero, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile (…) Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente; fino a che, almeno, il cervello si comporta solo speculativamente, solo teoricamante. Anche nel metodo teorico, perciò, il soggetto, la società, dev’essere presente come presupposto»
(K. Marx, Introduzione a “per la critica dell’economia politica” del 1857)

[2] «Del resto questa iper-finanziarizzazione prese avvio nello stesso quindicennio di crescita dei tassi di profitto iniziatosi a partire dagli inizi degli anni ’80. Esso non si accompagnò ad una crescita del benessere sociale complessivo. I profitti non vennero reinvestiti su larga scala nelle sfere produttive, bensì in quelle improduttive della finanza speculativa. Lo attesta il decrescente tasso di accumulazione (vedi Tabella. n.3).
Non c’è nessun arcano in questa metamorfosi. Abbiamo detto che la legge suprema del capitalismo è che il danaro, capitale solo in potenza, fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione. Il capitale monetario dei paesi imperialisti e delle petromonarchie, che nel frattempo si era accumulato copioso, non trovando lucrosi gli investimenti nell’industria occidentale, doveva cercare altri approdi. Con l’ausilio indispensabile delle politiche liberistiche avviate negli anni ’80 dagli Usa e dal Regno Unito prima, e poi dal resto dell’Occidente, l’enorme massa di capitale monetario imboccò due strade complementari: (1) quella del capitalismo-casinò, dove il danaro poteva fruttare profitti senza passare per il ciclo faticoso della produzione di plusvalore, semplicemente captandolo, attraverso l’uso massiccio del credito ad usura, da ogni poro dell’economia e della società.; (2) quella di finanziare l’esportazione di capitali in paesi semicoloniali dove esistevano le condizioni affinché gli investimenti nel ciclo industriale consegnassero un alto plusvalore».
In: Alle origini del declino dell’Occidente. Scheda sulla crisi di sovrapproduzione (SollevAzione 27/9/2012)

[3] «Questo processo, prima di espandersi ad ogni latitudine, prese il via oltre Manica e oltre oceano. Grazie ad un habitat favorevole e all’appoggio dei governi neoliberisti di Reagan e della Teatcher e delle banche centrali, il capitale, nella forma di denaro liquido si è avventato su tutto ciò che, capitatogli a tiro, poteva fruttare guadagno. Gli investimenti in capitale costante e variabile si sono spostati progressivamente sui titoli (rappresentazioni fantasmagoriche delle merci), fino al fenomeno diabolico delle cartolarizzazioni e dei derivati. Le borse sono diventate, ad iniziare da quelle di Wall Street e della City, i templi in cui la rendita tutto sacrificava in nome del Dio denaro. Veniva così nascendo (con l’ausilio della macchina info-telematica) la nuova casta sacerdotale tecnocratica, quella dei brockers e dei grandi manager bancari, preposta al culto del nuovo “dogma trinitario” [11]: denaro, credito, interesse. Nuovi mostri, i fondi finanziari, prendevano forma nel brodo primordiale della inforendita. Questo passaggio determinava un mutamento profondo del sistema, prendeva forma quello che ho definito metacapitalismo. [12] Alla tradizionale figura del capitalista operante che usava sì il denaro, che acquistava e vendeva merci, ma per ricavarne un plusvalore per mezzo del processo di produzione, si affiancava il “capitalista monetario parassita”, dedito a prestare denaro per ottenerne un interesse campando così di rendita, senza quindi entrare mai nel ciclo della produzione, volteggiando nella sfera della circolazione monetaria per poi inquattarsi come tesoro depositato nei forzieri — di qui l’attuale trappola della liquidità: la montagna di denaro consegnata dalla banche centrali se ne sta ferma nei caveau della banche d’affari.
Soggiogati i governi, l’oligarchia rentier otteneva che i titoli di debito pubblico degli Stati diventassero prodotti finanziari e venissero gettati sui mercati. Una vera gallina dalla uova d’oro. Nasceva un sistema micidiale di rapina con cui spostare la ricchezza monetaria diffusa (risparmi) dalla tasche dei cittadini ai caveau delle banche, da certi settori ad altri, da certi Stati ad altri.
Ha tutto l’aspetto di una stregoneria quello per cui, nei mercati finanziari, il debito, diventato titolo negoziabile, ingrassa chi se lo passa di mano in mano, strozzando chi lo ha emesso e fregando chi se lo trova in mano per ultimo. La merce-debito, come aveva già segnalato Marx [13] non ha un valore di scambio, il suo prezzo dipende dall’irrazionale gioco della domanda e dell’offerta, dalle aspettative di rialzo — guadagno assicurato fino a quando le aspettative salgono, fino a quando tutto crolla a causa delle prime fughe. Un gigantesco sistema Ponzi. Morale: se da qualche parte qualcuno guadagna senza lavorare dev’esserci dall’altra qualcuno che lavora senza guadagnare.
Con queste modificazioni della struttura economica è mutata tutta la sovrastruttura della società. Questo sistema ha infettato tutto il corpo sociale. Centinaia di milioni di cittadini, proletari compresi, sono finiti per invischiarvisi. Non parliamo solo di coloro che si sono messi a giocare in borsa, a comprare e vendere obbligazioni e azioni. Con le privatizzazioni dei sistemi pensionistici la stragrande maggioranza dei lavoratori si è trovata nella situazione per cui il valore della pensione attesa dipende ora dal buon andamento del suo fondo pensione, dalle scommesse di quest’ultimo nelle bische del capitalismo casinò. Avendo gettato sul mercato i titoli di debito pubblico nella stessa situazione si trova la massa sterminata di pensionati, il cui reddito è appeso, come l’impiccato alla corda, alle performance dei mercati finanziari e degli spread, ovvero, anche in questo caso al rigore, alla macelleria sociale, alla capacità dello Stato di essere considerato solvibile da parte dei suoi strozzini creditori. Vi sono infine centinaia di milioni di cittadini che avendo affidato i loro risparmi (che altro non sono che rendite) alle banche, esigono che siano remunerativi di interesse, e per questo sono appesi alla abilità con cui la banca gioca d’azzardo i suoi quattrini sui mercati finanziari.
E’ nato un popolo-rentier, una nuova forma tentacolare di consociativismo interclassista. È sorta di conseguenza una specifica coscienza sociale: la psicologia egoistica del creditore il quale esige che il debitore, chiunque esso sia, quali che siano le sue condizioni, onori il suo contratto di debito. Mors tua, vita mea. Non stupiamoci quindi se la maggioranza dei tedeschi sta con la Merkel, e nemmeno se tanti greci non vogliono abbandonare l’euro. Sono due facce della stessa medaglia».
In: La catastrofe sociale e la sollevazione. Capitalismo casinò e struttura sociale. (SollevAzione, 3/12/12)

[4] «E’ una stupidaggine pensare che questo destino funereo del paese spinga le masse popolari alla sollevazione, ma lasci compatto lo schieramento dominante. Esso, ripetiamolo, andrà in frantumi e sarebbe sciocco se, chi pretende di strappare il paese a questo destino, facesse spallucce e, come un disco rotto, ripetesse a pappagallo lo slogan infantile “nessun compromesso con la borghesia ovunque essa sia”.
Il paese vive un crollo sistemico, esso è posto di fronte ad un bivio: o la catastrofe storica o la rinascita. E’ quindi in un larvato Stato d’eccezione. E da cosa è rappresenta la minaccia? Dalle frazioni globaliste del capitale finanziario le quali, poste davanti al collasso del loro sistema di rapina, vogliono uscire dal marasma esercitando la loro dittatura dispiegata spazzando via gli ultimi brandelli di sovranità nazionale e di democrazia. E’ entro la cornice di questo Stato d’eccezione che deciderà le sorti del nostro paese, che va pensata la questione della funzione di un soggetto rivoluzionario e ripensata quella delle alleanze.
Il difetto dell’argomentare dei nostri, come detto, pecca di astrattezza. E’ fuorviante incardinare la possibilità di un fronte ampio al feticcio della “borghesia progressista”. La questione delle alleanze è anzitutto politica e programmatica. Qui casca l’asino dei nostri, che sulla questione dell’euro e dell’Unione europea sono reticenti ed anzi sembrano condannare da un punto di vista di ultra-sinistra l’idea che la sovranità nazionale vada difesa. Di sicuro non ci si può alleare con le frazioni sovraniste ma reazionarie, xenofobe e imperialiste. Ci si può invece alleare con quelle sovraniste democratiche non in una prospettiva meramente difensiva ma offensiva, che punti dichiaratamente alla guida del paese. Alla guida per fare cosa? Questo è il problema per nulla astratto».
In: Con chi la facciamo la rivoluzione? Sulla questione del fronte e delle alleanze per salvare questo paese (SollevAzione, 14/11/12)

[5] «Un comunista, che è internazionalista, può essere nello stesso tempo un patriota? Noi pensiamo che non soltanto può, ma deve esserlo. Soltanto le condizioni storiche determinano il contenuto concreto del patriottismo. Esiste il nostro patriottismo ed esiste il “patriottismo” degli aggressori giapponesi e quello di Hitler, al quale i comunisti devono opporsi risolutamente. I comunisti giapponesi e tedeschi sono favorevoli alla sconfitta bellica del proprio paese. Contribuire con tutti i mezzi alla sconfitta degli aggressori giapponesi e di Hitler è nell’interesse dei loro popoli, e quanto più questa sconfitta sarà completa, tanto meglio sarà. … Poiché queste guerre scatenate dagli aggressori giapponesi e da Hitler sono funeste per il popolo dei loro paesi quanto per gli altri popoli del mondo. Altrimenti stanno le cose per la Cina, che è vittima dell’aggressione. Ecco perché i comunisti cinesi devono unire il patriottismo all’internazionalismo. Noi siamo contemporaneamente internazionalisti e patrioti e la nostra parola d’ordine è di lottare per la difesa della patria contro l’invasore. Per noi, il disfattismo è un delitto, e la lotta per la vittoria nella guerra di resistenza è un dovere a cui non possiamo sottrarci. Poiché soltanto la lotta per la difesa della patria consente di vincere gli aggressori e di liberare la nazione. Soltanto questa liberazione rende possibile l’emancipazione del proletariato e di tutto il popolo lavoratore. La vittoria della Cina sui suoi aggressori imperialisti sarà un aiuto per i popoli degli altri paesi. Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è quindi un’applicazione dell’internazionalismo».
Mao tse-tung, “Il ruolo del Partilo comunista cinese nella guerra nazionale” (ottobre 1938), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. II

 

da SollevAzione