Il documento politico sulla situazione italiana

In vista della II. Assemblea del Mpl

Il nostro progetto e la fase attuale

1. Le tre grandi crisi
2. A che punto è la notte: la crisi economica dopo un anno di governo Monti
3. La crisi politica dopo il golpe bianco Monti-Napolitano
4. Il blocco dominante alla ricerca dell’egemonia perduta
5. Il fronte
6. Le elezioni e la possibile spallata al montismo
7. Il vero nodo: l’Europa
8. La sollevazione


MPL – II Assemblea nazionale

Chianciano Terme 12-13 gennaio 2013

Premessa

Questo documento è stato approvato dalla segreteria nazionale pro-tempore il 14 dicembre 2012. Essendo stato scritto in un momento confuso, ancor più che dinamico, della vicenda politica nazionale (fine anticipata della legislatura, incertezza sulle candidature a premier, eccetera) esso dovrà essere certamente aggiornato in alcune sue parti dall’assemblea di Chianciano.


Il nostro progetto e la fase attuale

Il progetto del Mpl ha ormai compiuto un anno. Le analisi che ci spinsero a metterlo in campo hanno trovato, nella sostanza, un pieno riscontro nelle vicende degli ultimi dodici mesi. Ciò nonostante il progetto non è progredito come avremmo voluto. Compito prioritario di questa assemblea è dunque quello di fare il punto della situazione, partendo dallo sviluppo della crisi nei suoi vari aspetti.

Poiché siamo sempre convinti della giustezza della nostra proposta, non ripeteremo qui gli assi di fondo dai quali ci siamo mossi, e che consideriamo ormai assodati. Ci sembra infatti più utile concentrarci su alcuni elementi che caratterizzano la fase attuale, per poi addivenire ad una messa a punto della nostra proposta politica.


1. Le tre grandi crisi

La crisi sistemica del capitalismo (strettamente collegata, non dimentichiamolo, alla crisi ambientale del pianeta che non tratteremo in questa sede) è nel pieno del suo svolgimento. Non lo diciamo noi, ma tutti gli indicatori economici fondamentali. Per ragioni che attengono al concreto sviluppo storico del capitalismo nelle varie aree del pianeta, questa crisi ha la sua area principale di infezione in occidente, dove si è affermato quello che abbiamo definito capitalismo-casinò. All’interno di quest’area geografica, la crisi ha colpito, colpisce e colpirà più duramente in Europa. Ciò è dovuto a due fattori. Il primo, è la progressiva perdita di centralità –  specie dopo la caduta dell’Urss – del Vecchio Continente (vecchio anche per ragioni demografiche) all’interno del blocco imperialista occidentale ad egemonia statunitense. Il secondo risiede nella follia dell’euro e di un progetto di tendenziale unificazione politica che non si regge in piedi.

E’ in questo contesto che va collocata la crisi italiana. Una crisi economica violentissima, che la maggioranza delle persone vive quotidianamente nella perdita e nella precarizzazione del lavoro, nella riduzione del reddito, nel peso insostenibile delle tasse, nella cancellazione di ogni diritto sociale. A differenza delle tradizionali crisi cicliche del capitalismo – che l’Italia ha conosciuto più o meno con una cadenza decennale nell’ultimo quarantennio (metà anni ’70, 1981-83, 1992-93 e 2002-03) – quella attuale ha ben altra durata e profondità, oltre a non avere al momento alcuna realistica via d’uscita. Proprio per questo essa investe vari aspetti, presentandosi ad un tempo come crisi economica, crisi politico-istituzionale e crisi della tradizionale egemonia sociale e culturale del blocco dominante. Tre crisi in una che dobbiamo esaminare più da vicino, fermo restando la centralità dell’aspetto economico.

2. A che punto è la notte: la crisi economica dopo un anno di governo Monti

La gravità della situazione non richiede troppi discorsi. Ma allineare i dati macro-economici ufficiali, confrontando la situazione al novembre 2012 con quella del novembre 2011, ad un anno esatto dall’insediamento di Monti, fa un certo effetto. Vediamo allora i risultati della cura dei professori: Pil: +0,4% nel 2011, -2,3% nel 2012; domanda interna: -1,0% nel 2011, -5,0% nel 2012; inflazione: +2,95% nel 2011, +3,2% nel 2012; tasso disoccupazione: 8,4% nel 2011, 10,6% nel 2012; famiglie in grado di risparmiare: 35% nel 2011, 28% nel 2012. Ed infine, rapporto debito pubblico/Pil: 120,7% nel 2011, 126,5% nel 2012; spesa per interessi/Pil: 4,9% nel 2011, 5,4% nel 2012.

Potremmo continuare a lungo, sia con altri dati relativi al 2012, sia con le previsioni aggiornate al 2013 e 2014. Ma si tratterebbe di cose assai note, la cui sintesi sta nel fatto che l’Italia è tuttora nel cuore della notte, che anzi il peggio deve ancora venire e che proprio non si vede alcuna luce in fondo al tunnel, come invece pretenderebbe Monti.

Se gli effetti sul popolo lavoratore sono devastanti, la cosa interessante è che la politica dei tagli non sta producendo nessun vero effetto di freno alla crescita inarrestabile del debito pubblico, con la conseguenza di renderlo palesemente insostenibile. Da qui la conferma della centralità – dalla quale siamo partiti – della cancellazione del debito, nelle forme e nei modi più consoni alla ricostruzione di un’economia nazionale fondata sui reali bisogni popolari.

Le prospettive future sono rese più cupe dall’approvazione del Fiscal Compact, un trattato che incatena l’Italia (e gli altri paesi europei) ad una politica di sacrifici, e certamente di stagnazione economica, per almeno vent’anni.

Se l’andamento negativo della cosiddetta «economia reale» è facilmente prevedibile, nessuno si faccia illusioni sul superamento della crisi finanziaria. Una crisi che è centrata sul debito pubblico, ma che è figlia di un debito privato (in primo luogo dei grandi gruppi industriali) e delle sue ricadute sulle banche, cioè sul cuore del capitalismo-casinò. Giusto per fare un esempio, basti pensare al caso di una delle cosiddette «banche sistemiche», il Monte dei Paschi di Siena, banca tecnicamente fallita se non fosse per l’imminente iniezione di ben 3,9 miliardi di euro da parte dello Stato. In questo modo il governo Monti tappa una falla nel sistema bancario, ma ne apre un’altra nei conti pubblici. La stessa cosa avviene, su scala internazionale, con il finanziamento dei fondi europei. Essi servono ad impedire default incontrollati (Grecia) e nuovi crac bancari (Spagna), ma contribuiscono ad aprire nuovi buchi nei bilanci statali, compreso ovviamente quello italiano.

In realtà la Grecia – con il riacquisto dei propri titoli spazzatura, imposto dalla troika – ha fatto un secondo default nella prima settimana di dicembre. I grandi beneficiari di questa operazione sono proprio gli hedge fund, che hanno rivenduto allo Stato a 30, titoli dal valore nominale uguale a 100, ma acquistati sul mercato a 10 o a 20. In questo modo la finanza speculativa ha fatto di nuovo bingo, ma chi ha pagato il conto? La Grecia ha ottenuto i soldi dal fondo Esfs, garantito dagli Stati dell’Eurozona, con il relativo aggravio per i bilanci pubblici di questi ultimi, alimentando così – anche per questa via – la spirale debito-sacrifici-nuovo debito.

La verità, ed anche questo secondo default greco lo dimostra, è che non se ne esce senza una ristrutturazione (cioè un taglio) del debito. Il nodo, in definitiva, non è tanto il default, ma le sue modalità e la sua gestione. Che il debito vada abbattuto lo sanno bene anche gli strateghi del blocco dominante, che tuttavia non vogliono pagare il conto. E’ da questo impasse che nasce la politica del rigore come unico orizzonte presente e futuro. Ma questa politica cozza con la stessa necessità capitalistica (quantomeno della sua frazione industriale) di uscire dalla recessione. Nonostante queste contraddizioni interne al blocco dominante, ad oggi non vi è alcun segnale di revisione sostanziale dell’indirizzo rigorista tracciato ed imposto dalle oligarchie europee. Questo indirizzo non riuscirà tuttavia ad impedire nuove e più gravi acutizzazioni della crisi finanziaria.

E’ vero che in questi ultimi mesi la situazione sui mercati finanziari si è relativamente stabilizzata. Ciò è dovuto agli impegni assunti dalla Bce nell’estate scorsa. Impegni ai quali, ad oggi, non è seguito alcun intervento sostanziale. Un risultato dunque basato soltanto sull’«effetto annuncio», destinato ad andare in crisi assai presto. Gli annunci, infatti, hanno la loro forza nella credibilità, ma essa, nel nostro caso, è legata ad uno sviluppo politico – gli «Stati Uniti d’Europa» – al quale non credono neppure gli euristi più spinti, salvo qualche fanatico senza troppo seguito. Le condizioni reali dell’ipotetico processo di unificazione europea sono state recentemente evidenziate dal mancato accordo sul bilancio comunitario. I paesi dell’Unione non sono riusciti a mettersi d’accordo su qualche miliardo da spendere nei prossimi anni, figuriamoci su un processo di unificazione politica…

Non passerà molto, dunque, prima di ritrovarci di fronte ad un ennesimo allarme spread, ancora oggi comunque ben al di sopra della soglia 200, indicata come obiettivo dal governo. Molti potranno essere gli inneschi di questa nuova crisi, che ha comunque sempre sullo sfondo la pessima situazione dell’economia reale con il crollo della ricchezza, della produzione, dell’occupazione. E’ con questo quadro che dovrà fare i conti il governo che uscirà dalle prossime elezioni politiche.

3. La crisi politica dopo il golpe bianco Monti-Napolitano

Che l’Italia viva non una semplice crisi, bensì una vera emergenza politica, dovrebbe essere chiaro a tutti. Il golpe bianco del novembre 2011 dovrebbe aver aperto gli occhi anche ai ciechi. Le stesse vicende che ne sono seguite non hanno fatto altro che evidenziare un tipico quadro da «stato d’eccezione». Il golpista in primis, il presidente della repubblica Napolitano, ha continuato a pilotare i passaggi politici più rilevanti, con un interventismo a getto continuo che ha spaziato dall’articolo 18, ai nodi europei, alla legge elettorale, all’Ilva. Il governo ha operato in spregio alle più elementari regole di una repubblica parlamentare, riducendo le camere ad un vero parco buoi chiamati solo a dire sì agli innumerevoli voti di fiducia. Tutto lo schieramento parlamentare (partiti inclusi) è stato come preso in ostaggio dai diktat europei e dai dogmi euristi.

La risultante di tutto ciò è stata l’ulteriore riduzione della politica a mera amministrazione di scelte fatte altrove, nei circoli dominanti della finanza internazionale, nella Bce, nelle chiuse stanze di Bruxelles. Ma se la politica viene ridotta a tecnica, senza di che non avrebbe avuto giustificazioni plausibili la stessa ascesa del «governo dei tecnici», è proprio la politica a ritrovarsi in profonda crisi. Tutto questo potrebbe sembrare oro colato per una classe dominate che ama pensarsi ultra-liberista e votata all’eliminazione di ogni laccio e lacciuolo che gli si ponga d’intralcio. Ma un «governo dei tecnici», configurandosi appunto come conseguenza di uno «stato d’eccezione», può trovare consenso solo a due condizioni: che l’eccezione sia riconosciuta come tale (e fin qui ci siamo); che produca degli effetti tangibili sulla condizione che ha determinato quella eccezionalità (e qui non ci siamo proprio).

Lo «stato d’eccezione» rende insomma in qualche modo accettabile (ovviamente non per noi, ma per i più sì) anche ciò che legittimo non è. Ma proprio perché in casi come questo sono i risultati a contare, al di là della stessa legittimità, è sui risultati che l’eccezionalismo (e dunque nel nostro caso il governo Monti) verrà giudicato. Ed il giudizio è ormai chiaro, come dimostrato dalle elezioni amministrative di primavera, da quelle siciliane di fine ottobre, da innumerevoli sondaggi e da un sentire diffuso che non è difficile percepire nei più diversi strati sociali della popolazione.

Lo stato dei partiti della strana coalizione che ha fin qui sostenuto Monti è anch’esso indicativo. Il Pdl, dopo lunghe convulsioni su primarie, leadership, propositi scissionisti e politica delle alleanze, sembrava aver sciolto questi dilemmi in nome dell’ennesima ridiscesa in campo di quello che è stato il suo capo indiscusso. Questa mossa ha cancellato le primarie, ha avvicinato la data delle elezioni in modo da rendere difficilmente praticabili scissioni consistenti se non concordate (il caso eventuale degli ex-An), sembrava aver posto le premesse sia per una riedizione dell’alleanza con la Lega che per una campagna elettorale basata sui temi tradizionali della destra, fisco in primo luogo. Una mossa, dunque, tatticamente azzeccata, tesa a limitare le perdite, ma ben lungi dal rappresentare una vera risposta al declino politico della destra.

Gli sviluppi successivi al «rientro» berlusconiano sono lì a dimostrarlo. La Lega ha fatto i suoi calcoli e non sembra ora disponibile ad una nuova alleanza se Berlusconi sarà il candidato premier. Le varie correnti del Pdl sono entrate in fibrillazione. L’isolamento di Berlusconi non è mai stato così grande. Un isolamento che l’ex premier potrebbe sfruttare a proprio vantaggio solo se avesse il coraggio di andare fino in fondo su una linea di contrapposizione con l’Unione Europea. Noi non abbiamo mai escluso, al contrario, la possibilità dell’emersione di un «sovranismo di destra», tra l’altro reso più probabile dall’«europeismo a prescindere» della sinistra, ma riteniamo altamente improbabile che la destra in questa campagna elettorale sia capace di impugnarlo con sufficiente coerenza.

Quando la nostra assemblea si svolgerà il quadro sarà necessariamente più chiaro, ma quel che possiamo dire fin d’ora è che il primo partito del 2008 non riuscirà neppure a prendere la metà della percentuale di allora, dei voti neanche a parlarne. In tanti, dopo aver considerato il paese ormai completamente berlusconizzato solo quattro anni fa, leggono ora il declino del Pdl come la semplice conseguenza del compimento della parabola berlusconiana, che la ricandidatura in extremis non è certo in grado di raddrizzare. Non possiamo dire che in questa analisi non vi sia una qualche verità, ma la ragione principale del tracollo della destra risiede piuttosto nella profondità della crisi, che – al di là dei meriti e dei demeriti di ciascuna forza politica – non poteva non travolgere le forze che sono state al governo 8 anni nel periodo 2001-2011.

Il Pd gode apparentemente di uno stato di salute migliore. Avere avuto Berlusconi come avversario gli ha dato qualche evidente vantaggio. Ed ora, dopo un anno di sostegno assoluto al peggior governo della storia repubblicana, si candida a governare. Un governo di coalizione ovviamente, ma nel quale il partito di Bersani ritiene di poter avere il ruolo di Primus inter pares. Mediaticamente, le recenti primarie hanno dato forza a questa prospettiva, ma è sempre bene ricordare che dopo le primarie ci sono le secondarie, cioè le elezioni vere, che sono poi quelle che contano. Sulle primarie si è parlato a sproposito, molto a sproposito, di un successo di partecipazione, di un riaccostarsi della gente alla politica e via delirando.

In realtà, secondo i dati ufficiali, hanno votato alle primarie di coalizione circa 3 milioni e centomila elettori, esattamente come quelle che incoronarono Bersani segretario (ma quelle riguardavano ovviamente solo il Pd) nell’ottobre 2009; mentre il confronto non regge con le precedenti primarie dell’ottobre 2005 vinte da Prodi, visto che allora votarono 4 milioni e trecentomila persone. Ecco allora che la mistificazione mediatica risulta evidente. La realtà è quella di un calo del 28%, per giunta in primarie vere, cioè combattute, a differenza di quelle di 7 anni fa, e con un’attenzione mediatica senza precedenti. Perché allora i mezzi di informazione hanno fatto a gara a venderci la favola della grande partecipazione? E’ presto detto, perché il Pd va aiutato visto che è il vero «partito sistemico», nel senso che è oggi l’unico che appare in grado, a certe condizioni, di tenere in piedi l’attuale sistema politico in base agli architravi rigoristi ed europei. Ed è inoltre l’unico partito in grado di competere con il M5S per la conquista del maggior numero di consensi. Ma è anche quello che dispone – dal bombardatore D’Alema al privatizzatore Bersani – di un personale politico abbastanza collaudato, un particolare questo che certo non dispiace alle oligarchie dominanti.

Il fatto che, grazie all’altrui crisi, il Pd abbia conquistato questa posizione centrale, non va scambiato con un suo rafforzamento, in termini di radicamento e di consenso. E’ semmai vero il contrario. Al più il Pd potrà realizzare un «sorpasso in discesa» (ricordiamoci che nel 2008 raggiunse il 33,2% dei consensi), così com’è avvenuto in Sicilia, dove ha vinto una coalizione con poco più del 30%, all’interno della quale il partito di Bersani ha ottenuto il 13,4% dei voti, pari al 5,6% sull’intero corpo elettorale… Certo, il Pd ora guida la giunta regionale siciliana, ma da qui a parlare di consenso ce ne corre. Peraltro una cosa è amministrare localmente, altra cosa è governare il paese. E farlo senza consenso non sarà facile. Insomma, il Pd potrà andare al governo, ma i guai per Bersani e soci verranno subito dopo.

A completare la triplice che sostiene il governo insediato con il golpe novembrino rimane la mini-Dc casiniana dell’Udc, ora alla ricerca di un accordo con la lista che fa capo a Montezemolo. Si tratta della componente più smaccatamente montista, un posizionamento scelto da Casini anche per  accreditarsi come il miglior custode dell’ortodossia liberista, rigorista ed europeista. Ma è probabilmente anche per questa collocazione, che i cosiddetti «centristi» proprio non riescono a venir fuori da un peso politico-elettorale assai modesto. Un peso che Casini vorrebbe rendere decisivo, magari rispolverando la teoria andreottiana dei «due forni». Ma questa tattica, già resa più complicata dal disfacimento della destra, si è ora ulteriormente indebolita con il naufragio della riforma della legge elettorale.

Il dato comunque interessante è che la somma dei voti della triplice di cui sopra raggiunse nel 2008 il 77,6% dei voti, mentre oggi i sondaggi danno la somma Pd+Pdl+Udc attorno alla soglia del 50%. Un’indicazione sul consenso reale alle politiche di Monti da non sottovalutare. Ne consegue – e l’incapacità di riformare la legge elettorale lo dimostra – che il sistema politico è ben lungi da risolvere la sua crisi.

4. Il blocco dominante alla ricerca dell’egemonia perduta

La crisi del sistema politico non nasce solo dalle dinamiche delle forze politiche, non deriva né dal solo berlusconismo né dal presunto trionfo dell’«antipolitica». E’ piuttosto la conseguenza di molteplici fattori storici (la fine della Guerra Fredda, la costante erosione della sovranità nazionale) e culturali (l’americanizzazione e la spettacolarizzazione di ogni ambito della vita sociale). Il sistema ha pensato di traghettare la vecchia forma della rappresentanza politica nella nuova dimensione asettica, a-ideologica (e verrebbe da dire «apolitica») della governance, producendo così un’inedita forma di totalitarismo sotto mentite spoglie democratiche.

Questo traghettamento – che in Italia ha coinciso grosso modo con il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica – è sempre stato un po’ traballante, ma aveva raggiunto in fin dei conti i suoi scopi fino allo scoppio della crisi economica. Con l’inizio della crisi, pilotata in senso sempre più autoritario dalle oligarchie europee, si è fatta via via più stridente la contraddizione tra una politica sempre più antipopolare nelle sue scelte di fondo e la necessità di mantenere un minimo di consenso e di coesione sociale. Una contraddizione sciolta un anno fa con la nomina quirinalizia di Monti, che se da un lato ha garantito al meglio gli interessi dei suoi committenti, dall’altro non ha certo contribuito a riconquistare il consenso perduto.

Il fatto è che il blocco dominante non ha più niente da dare né da dire, né in termini materiali, ma neppure in quelli spirituali. La politica dei tecnocrati è naturalmente arida, fredda come le loro cifre, asociale e quasi autistica. Il fine dell’azione politica è ormai solo quello di ottenere un bel voto, od almeno una sufficienza, dai mercati finanziari. Le umane aspirazioni ad una vita ed un lavoro migliore, ad un’istruzione e ad una sanità come diritto veramente di tutti sono ormai al di fuori del discorso dominante. Siamo al tentativo di restaurare un modello ottocentesco di società ma nel contesto del ventunesimo secolo.

L’unica sfera dove ancora sembra ci sia spazio per qualcosa è quello dei diritti civili. Il che non avviene per caso, bensì per lasciare uno spazio residuo ad un «discorso pubblico» che altrimenti resterebbe confinato ai commenti sulle partite di calcio, che non a caso hanno comunque la meglio su tutto il resto. Diritti civili come diritti individuali, perché l’individuo va esaltato, ma solo ed esclusivamente nella sua dimensione privata. Su questa materia è ammesso ancora discutere, ma guai a trasferire l’individuo nella società, guai ad ogni progetto collettivo, ad ogni visione che travalichi sul serio l’esistente.

Tutto ciò è, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Ma un processo gigantesco è in atto da tempo, senza che se ne riesca ancora a cogliere tutta la sua portata. Se il blocco dominante del capitalismo globalizzato, quello che definiamo capitalismo-casinò, ha sostituito la vecchia egemonia costruita sui tradizionali valori tipici della cultura novecentesca, con una nuova forma di egemonia basata su un individuo strutturalmente incapace di progettualità, immerso in una sorta di eterno presente allietato dal consumismo; la crisi dei consumi non ha allora solo una ricaduta economica, ce l’ha anche sul modo di pensare delle classi subalterne.

Il capitalismo non è più il «migliore dei mondi possibili». Questa (per noi) semplice verità comincia a insinuarsi nella testa di tante persone, senza che per questo si tramuti spontaneamente in coscienza anticapitalista. Questo processo di lento distacco dai miti della fase precedente, che avevano contribuito in maniera decisiva a produrre un lungo periodo di letargia delle masse, è in atto. Solo chi saprà coglierlo potrà indirizzarlo in senso rivoluzionario, e niente ci garantisce che questo passaggio, dal distacco alla sollevazione, possa davvero compiersi. Ma la scommessa è  questa.

Il blocco dominante avverte il problema, ma è strutturalmente impossibilitato a farvi fronte. L’abbandono della tradizionale cultura borghese rende ora impossibile il ritorno ai vecchi «valori». La tattica dei dominanti è allora un’altra: quella di prendere tempo, illudendo su un ritorno all’età dell’oro del consumismo diffuso. Da qui la necessità, per quelli come noi, di prospettare non solo un insieme di misure per uscire dalla crisi, salvaguardando in primo luogo le classi popolari, ma anche una visione più generale sulla società e sul percorso che dovrà portarci fuori dal capitalismo.  

Incapace di delineare una propria visione egemonica, il blocco dominante ha saputo però costruirsi un comodo nemico: il «populismo». Dentro questa categoria-ricettacolo vengono ricomprese tutte le opposizioni che si collocano fuori dall’attuale teatrino della politica, od anche quelle che si pensa potrebbero essere tentate di farlo. Nel linguaggio delle oligarchie, populista è chiunque si opponga alla loro ideologia, alla loro visione del mondo, alle loro leggi, ai loro interessi. E’ «populista» chi non aderisce al liberismo globalista del capitalismo-casinò, chi vorrebbe costruire un’alternativa ad un mondo dominato dai mercati finanziari, chi si oppone alla precarizzazione del lavoro, chi dice che le banche vanno nazionalizzate. Ma nella loro visione totalitaria, le oligarchie vanno ben oltre: è «populista» chiunque metta in discussione i dogmi europei, l’euro, le privatizzazioni, ma pure chi si permette di opporsi anche a semplici provvedimenti governativi. Si tratta, insomma, di un tentativo di criminalizzazione che va respinto con forza.

Per le oligarchie perseguire il bene per le classi popolari (semplificate nel concetto di «popolo) è per sua natura pernicioso. Chi lo fa è gente che vuol vezzeggiare il popolo, conoscendone il comune sentire, per trarne vantaggi, seguito e consenso politico. Solo loro, classe eletta, conoscendo la complessità delle cose, sono abilitati a discernere quel che è possibile da ciò che è improponibile, se non addirittura indicibile.

In realtà il vero populismo è anche e soprattutto inganno del popolo, con promesse irrealizzabili che servono a giustificare un presente che diversamente verrebbe rifiutato. Per sua natura il vero populismo non può essere che quello delle classi dirigenti. E’ populista la menzogna dell’«equità» modello Fornero, ma pure lo sfortunato «anche i ricchi piangono» di un manifesto con il quale il Prc cercava di nascondere la vera politica del governo Prodi. E’ populista l’illusione sparsa a piene mani sulla «ripresa» imminente, sulla «fine del tunnel», eccetera. Ma nel vero populismo c’è anche l’idea di un popolo che deve affidarsi alla guida sicura di che ne sa di più, sia esso un leader carismatico oppure un governo «tecnico» insediato dall’élite.

In conclusione, i veri populisti sono loro. I veri ingannatori sono loro. L’accusa va perciò rispedita al mittente. Accusano di populismo perché disprezzano il popolo ed odiano quella democrazia che dicono di rappresentare. E’ anche questo un segno di debolezza del blocco dominante, un’incapacità di argomentare e convincere, cui fanno fronte con il totalitarismo di un pensiero unico che ha sempre più spesso bisogno di anatemi. L’alternativa al loro populismo è la discesa in campo del popolo lavoratore, la riconquista del protagonismo sociale, la ridefinizione di un’idea superiore di democrazia. Quando questo avverrà le accuse di populismo del blocco dominante faranno solo sorridere.  


5. Il fronte

Da quanto abbiamo fin qui affermato discendono compiti giganteschi per chiunque creda davvero alla necessità ed alla possibilità della sollevazione, dell’alternativa, del socialismo. Se sul piano economico si tratta di costruire una piattaforma programmatica, in grado di indicare dei precisi obiettivi immediati per impedire la completa catastrofe sociale – e su questo crediamo di essere stati finora, come Mpl, quelli che hanno avanzato da tempo una chiara proposta organica -, sul piano politico il problema è innanzitutto quello della costruzione di un fronte in grado di sostenere quegli obiettivi, nella prospettiva della sollevazione e di un governo popolare d’emergenza.

Facile a dirsi, difficile a farsi. L’esigenza del fronte inizia infatti a farsi strada in diversi ambienti, ma in quanto a passi concreti siamo ancora molto indietro. E tuttavia, non vediamo alternative alla strada del fronte. Non si tratta solo di unire su un progetto le forze sparse esistenti, ad esempio quelle meritevolmente raggruppate dal Comitato No Debito, si tratta anche di trovare un ambito ed una forma per immettere nel percorso della sollevazione le decisive forze giovanili che hanno iniziato ad esprimere una nuova e decisiva radicalità.

Il fronte è però necessario anche per altri due motivi. Il primo è che non è oggi pensabile riunificare i tanti filoni dispersi all’interno di un contenitore di tipo partitico. Il secondo è che, anche ove ciò fosse possibile, esso non sarebbe in grado di intercettare una nuova disponibilità alla politica che spesso si abbina al rifiuto della forma partitica. Ci piaccia o meno, è questo un aspetto della realtà attuale che non possiamo minimamente trascurare. Lo abbiamo sempre detto, anche impegnandoci in aperte campagne astensionistiche, che non dobbiamo scambiare l’esodo da questa politica (quella ciò costruita dal sistema negli ultimi decenni) con la cosiddetta «antipolitica», una categoria quest’ultima inventata di sana pianta dall’èlite dominante per spaventare le anime pie di una certa «sinistra».

Il fronte dovrà essere dunque ampio, ma diretto dalle forze più consapevoli della gravità della situazione e della necessità della sollevazione, consapevoli cioè del fatto che il nodo vero da affrontare, in tempi difficili da prevedere ma certamente non biblici, è quello del potere.

Oggi la precipitazione della crisi politica, che va ben al di là della semplice chiusura della legislatura, ci mette di fronte a due/tre mesi di fibrillazione elettorale, un periodo nel quale, lo si voglia o meno, la scena principale sarà occupata dai soggetti in campo sul terreno delle elezioni. Occorre però pensare già da ora – ed è questa la proposta che facciamo da subito, a partire dalle forze che vorranno confrontarsi con noi a Chianciano – ad un vero rilancio della proposta del fronte da mettere in campo subito dopo le elezioni.

A quel punto non sarà più possibile tergiversare. Archiviata nei fatti l’epoca berlusconiana, chiusa almeno formalmente quella dei «tecnici», si aprirà quella di un governo «politico» sotto il totale controllo delle oligarchie euriste. Avremo dunque la prosecuzione dell’attuale politica, messa nelle mani di soggetti parzialmente (solo parzialmente) diversi. E siccome, mentre la recessione continuerà a colpire pesante, nuove misure draconiane si imporranno, anche a seguito della probabilissima richiesta d’«aiuto» necessaria per attivare il programma Omt (cioè l’acquisto dei titoli da parte della Bce), sarà quello il momento dell’accensione dello scontro sociale.

Non siamo né economicisti né deterministi, siamo però convinti che il 2013 sarà probabilmente l’anno della ripresa – in forme largamente imprevedibili e necessariamente diverse dal passato – dello scontro sociale nel nostro paese. Il rilancio della proposta del fronte, la sua precisazione in termini più concreti, la sua effettiva costruzione come fronte politico-sociale è perciò la più grande scommessa dei prossimi mesi. Per quanto è nelle nostre possibilità e nelle nostre modeste forze è in questa direzione che lavoreremo.

6. Le elezioni e la possibile spallata al montismo

Se dobbiamo avere lo sguardo già proiettato sul dopo-elezioni, non bisogna fare l’errore di disinteressarci alla contesa elettorale. Contrariamente a quel che qualcuno pensa, le elezioni non saranno il momento del redde rationem. Potranno, però, essere quello di un ulteriore indebolimento del sistema politico. Possiamo essere indifferenti a questo aspetto? Ovviamente no.

Non saranno il momento del redde rationem, perché il sistema politico ha oggi l’unico obiettivo di sopravvivere in qualche modo per poter proseguire (magari negandolo) con le politiche della cosiddetta «Agenda Monti». In questo delicato passaggio il blocco dominante sa di non poter avere il consenso (dunque i voti), gli basterà invece avere i seggi per mettere in piedi un governo che prosegua l’opera del professore, magari insediando lo stesso al Quirinale come custode dell’ortodossia eurista.

Il tanto vituperato Porcellum sarà alla fine lo strumento migliore per perseguire questo scopo. Se fino a qualche settimana fa l’obiettivo sembrava piuttosto quello di una specie di Montellum, teso ad impedire la vittoria di un qualsiasi schieramento (in pratica del centrosinistra), onde «obbligare» alla riedizione del Monti bis; oggi il quadro è cambiato in direzione di un probabile governo Bersani, comunque allargato ai cosiddetti «centristi».

Tanti gli elementi che hanno spinto in questo senso: il disfacimento della destra, la difficoltà dei centristi a farsi polo credibile, un certo (ma sempre molto relativo) recupero di immagine del Pd, ma soprattutto la mossa berlusconiana (difficile immaginare la riedizione di un tripartito con Berlusconi ancora leader del Pdl) e la popolarità insufficiente del Quisling della Bocconi. A patetica tutela di quest’ultimo, quasi fosse una specie di «oro della patria», è sceso ad un certo punto in campo Napolitano decretandone ad un tempo la (falsa) «ineleggibilità» e la «riutilizzabilità» post festum. Un percorso ad personam assai rivelatore della consapevolezza del rischio di un numero inadeguato di consensi elettorali.

Come noto, dopo il «ritorno» di Berlusconi, la possibilità di una candidatura a premier di Monti ha ripreso invece quota. A livello europeo tutti i leader del Ppe (e non solo, basti pensare ad Hollande) si sono pronunciati a favore di questa ipotesi. In Italia sono molte le spinte in questo senso, in particolare dal blocco centrista che certo se ne avvantaggerebbe. Molte, però, anche le controindicazioni (un insuccesso avrebbe seri effetti ben al di là del momento elettorale), ed in definitiva la decisione verrà presa in base ai sondaggi. Così funziona la «democrazia americanizzata» e tecnicizzata di questo critico passaggio di fine Seconda Repubblica.

Arretrato nella trincea di un governo purchessia a condizione che sia «dei nostri», il blocco dominante riuscirà senz’altro nell’impresa. Ma come, con quale forza di reggere agli urti tremendi della fase successiva? Questo è il punto. Ed è esattamente su questo punto che non possiamo essere indefferenti.

Posto che con il Porcellum i seggi per fare un governo siffatto ci saranno, non sarà indifferente vedere se a quella maggioranza di  seggi corrisponderà anche una maggioranza di voti (in quanto ad una maggioranza nell’intero corpo elettorale, questa è evidentemente da escludersi a priori). Il nostro obiettivo dovrà dunque essere quello dell’insuccesso elettorale (sempre in termini di voti) delle forze di punta del blocco eurista: cioè il centrosinistra e i cosiddetti «centristi». Occorre portare questo blocco sotto il 50% dei consensi. Sarà questa la soglia simbolica che ci dirà se la spallata al montismo sarà riuscita oppure no.

Bisogna prefiggersi questo obiettivo senza alcuna indulgenza nei confronti dell’antiberlusconismo di ritorno, che tanto comodo farebbe all’asse Bersani-Casini-Monti. E’ questo asse – al di là dei diversi equilibri interni che possono determinarsi – quello che intende proseguire l’opera del «governo tecnico». Berlusconi farà (se la farà) la sua partita, ma senza alcuna possibilità di vincere. Il suo obiettivo è quello di limitare i danni di un partito ed uno schieramento allo sfascio. Chi agiterà lo spauracchio del berlusconismo lo farà, oggi più di ieri, per imbrogliare le carte sulla vera posta in gioco: continuare il massacro sociale imposto dall’Europa od iniziare a costruire un consenso ed una forza per provare a liberarsene. Il nemico principale non è oggi Berlusconi, ma l’asse dell’euro, della Bce, delle banche, del Fiscal compact, dei sacrifici per il popolo lavoratore. L’inganno dell’antiberlusconismo ha fatto il suo tempo ed è venuto il momento di liberarsene definitivamente.

Come perseguire l’obiettivo della sconfitta dell’asse montista Bersani-Casini-Monti è il vero problema che abbiamo di fronte. In linea generale avremmo ovviamente preferito il costituirsi di un raggruppamento sul modello della Syriza greca. Non che non ci siano chiari i limiti di Syriza, ma nel quadro italiano un simile raggruppamento avrebbe di certo rappresentato un vero passo in avanti, anche nella direzione della costruzione del fronte.

Le cose non sono andate così, e quello che oggi si agita a sinistra del Pd oscilla pericolosamente tra l’irrilevanza di una residualità incapace di confrontarsi con la nuova situazione e la tradizionale tendenza alla subalternità verso il centrosinistra. Una subalternità assai manifesta nelle posizioni del sindaco di Napoli, De Magistris, che (a dispetto di affermazioni di segno opposto) ha rivendicato l’alternatività degli arancioni a Berlusconi, Monti e… Grillo, ma non a Bersani. Il Movimento Arancione (segnato peraltro da posizioni giustizialiste alla Di Pietro vecchia maniera) è di fatto obbligato ad unificarsi con il blocco Prc-Alba. Un’operazione elettoralistica che salta opportunisticamente ogni verifica sui contenuti e sui programmi. E’ un fatto che a due mesi dalle elezioni la confusione regna ancora sovrana, in assenza di un simbolo, di un nome, di un leader e di un programma minimamente degno specie sui temi della crisi, del debito, dell’Europa e dell’euro. Naturalmente, ci auguriamo il prevalere delle tendenze anti-Pd, ma quel che appare certo è che da quest’area non verrà niente di veramente credibile ed incisivo.

Restano dunque due possibilità: quella di schierarci su una posizione astensionista, come molti di noi hanno fatto negli ultimi anni; quella di utilizzare tatticamente il voto al Movimento 5 Stelle.

La forza della posizione astensionista è stata quella di incontrare una forte spinta popolare, nel segno di un esodo delegittimante di un sistema politico ormai avvertito come estraneo e nemico. I fatti hanno dimostrato come quella scelta sia stata giusta e centrata. Oggi quella stessa spinta tende ad usare il momento elettorale utilizzando il canale del M5S.

Abbiamo detto che oggi il sistema punta alla costruzione del governo, infischiandosene giocoforza del consenso. Il problema non è dunque più quello di dare uno strumento che rendesse possibile il manifestarsi dell’esodo popolare, ma piuttosto quello di rendere quanto più dura possibile la vita al futuro esecutivo. Non siamo cioè più nella fase della delegittimazione, ma in quella in cui occorre pensare sul serio la lotta per il potere.

Chiari ci sembrano i limiti del Movimento 5 Stelle, quelli programmatici e di prospettiva politica ancor più di quelli relativi al sistema di democrazia interna (sulla quale comunque ci sembrano ben poco credibili le accuse dei partiti, inclusi quelli della sinistra). Altrettanto chiaro è che, piaccia o non piaccia, il vero no al montismo comunque declinato, si misurerà in queste elezioni principalmente con i consensi che verranno raggiunti dal movimento di Beppe Grillo.

Il problema, venuta meno la possibilità di una Syriza italiana (di una lista caratterizzata cioè  da un rifiuto integrale di ogni possibilità di alleanza con il Pd) non è più quello di esprimere un voto in base ad una vicinanza ideologica, ma di farlo con il limitato ma essenziale obiettivo di colpire il sistema politico, con lo scopo di rendere debole quanto più possibile il futuro governo.

Positivi saranno dunque tutti i voti espressi alle liste che si presenteranno in chiara contrapposizione al montismo e al centrosinistra, ma solo quello dato al M5S avrà la forza di un corpo contundente. Un corpo contundente non è un progetto politico, ma se ha la forza di colpire l’avversario va usato senza esitazioni. Usato proprio nella prospettiva della sollevazione, perché non sarà indifferente trovarsi di fronte un governo debole piuttosto che uno forte.

Certo non scommettiamo su ciò che faranno i «grillini» una volta sbarcati in parlamento. Non è escluso, ad esempio, che finiscano per dividersi di fronte a scelte politiche per le quali non sembrano troppo preparati. In ogni caso, proprio per i limiti intrinseci al M5S, non ci facciamo nessuna illusione in proposito. Quel che non pensiamo possa venir meno è però l’opposizione al sistema politico dominante ed all’asse degli eurosacrifici Bersani-Casini-Monti. E questo, considerata la situazione, è già sufficiente per esprimere un orientamento.

7. Il vero nodo: l’Europa

Ma qual è la vera discriminante in base alla quale orientare le future scelte politiche, non solo quelle elettorali? Ecco, noi pensiamo che il vero elemento discriminante sia rappresentato dalla posizione sull’Europa. E’ vero che la crisi sistemica del capitalismo – in particolare della sua variante occidentale di capitalismo-casinò – prescinde e sta a monte della questione europea. E’ però altrettanto vero che non avremmo la recessione attuale, la politica dei sacrifici spinta alle estreme conseguenze, il vincolo del Fiscal Compact e quello del pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, se non avessimo a sovraintendere il tutto l’Unione Europea. Così come non avremmo avuto il governo Monti se non vi fossero state ad imporlo le oligarchie europee.

Non è dunque possibile affrontare alcuna questione sociale, dalla disoccupazione alla precarizzazione del lavoro, dalle pensioni da fame alla condizione più in generale degli anziani, dai livelli salariali ai diritti dei lavoratori, dalla necessità di ridurre la pressione fiscale a quella di diminuire il peso degli interessi sul debito, prescindendo dalla questione europea. Che questa sia la pratica di una sinistra che parla, sempre più a sproposito, di una inesistente «altra Europa», ci dice solo a quali livelli di mistificazione della realtà si possa giungere pur di non prendersi le responsabilità che il momento richiede.

L’unica Europa che c’è – oggi, non in un ipotetico futuro – è quella di Draghi e della Merkel. Altre non ve ne sono, né si annunciano all’orizzonte. E’ l’Europa, tanto per stare all’attualità, che ha approvato la cosiddetta «supervisione unica delle banche», che si applicherà (come voleva la Germania) alle sole banche di maggiori dimensioni (circa 150), ma che garantirà il salvataggio di queste ultime attingendo direttamente al fondo salva-Stati (in realtà salva-banche) Esm. Fondo ovviamente alimentato dagli Stati, con denaro pubblico, per tenere in piedi aziende private come le banche, senza che nessuno avanzi almeno la richiesta di nazionalizzarle.

Lo stesso meccanismo dei fondi europei produce effetti devastanti sulle economie del sud dell’Unione. Il costo del finanziamento, a causa degli alti spread tuttora esistenti, è infatti ben diverso tra stato e stato. Avviene così che se per la Germania trasferire il salvataggio delle banche dallo Stato al fondo Esm è un affare, per l’Italia e gli altri paesi del sud è un disastro, producendo in questo modo uno dei paradossi dell’euro: il trasferimento di ricchezza dalla parte più povera a quella più ricca dell’Eurozona.

In questo quadro, lo stesso progetto di costruzione degli «Stati Uniti d’Europa», a prescindere dal fatto che per noi rappresenterebbe un mostro imperialista ed autoritario, ancor più vorace di diritti e di democrazia di quanto lo sia già oggi, non ha in realtà alcuna possibilità di andare avanti.

Non è più dunque tollerabile l’ambiguità di troppi sul punto dirimente dell’Europa. Non si può svicolare da questo nodo, né in virtù di un astratto internazionalismo, né in nome di europeismo alternativo «democratico e di classe». Certo che siamo per l’unità internazionale del popolo lavoratore contro le oligarchie dominanti, certo che siamo per la solidarietà tra i popoli, ci mancherebbe altro. Ma non siamo degli illusi. Se, in futuro, potrà nascere un’Europa dei popoli, essa sarà il frutto di un lungo, tortuoso, doloroso processo storico. Ed esso passerà, inevitabilmente, dalla distruzione non dalla riforma dell’attuale Unione Europea. Essa non è qualcosa di plasmabile a piacere. E’ invece una struttura nata su un impianto prima liberale, poi liberista ed infine ultra-liberista. Essa risponde a precisi interessi di classe. E l’euro – definito giustamente da qualcuno il Reagan d’Europa – è stato ed è lo strumento per bastonare, impoverire e sconfiggere i vari segmenti del popolo lavoratore.

La questione dell’euro, la necessità di abbandonare la moneta unica per riconquistare la sovranità monetaria, è ormai un fatto riconosciuto da molti. Non si contano più gli economisti convinti della insostenibilità, quanto meno per i paesi mediterranei, dell’euro. Le rigidità imposte dalla moneta unica ad economie e paesi spesso assai diversi sono servite ad un duplice scopo: favorire i surplus commerciali dei paesi più forti (Germania in primis), costruire una ferrea disciplina del lavoro nell’intera Eurozona, ma in particolare nelle economie più deboli. A chi, a sinistra, diffonde ipotesi terroristiche di svalutazione ove l’euro saltasse, bisogna ricordare che in nome ed a causa dell’euro un’altra svalutazione è già in corso da anni: quella del salario, nelle sue forme di salario diretto, «salario indiretto» e «salario sociale».

L’euro è lo strumento utilizzato per piegare ogni resistenza di classe, per distruggere ogni diritto sociale, per dettare ai governi le scelte economiche fondamentali. Senza riconquistare la leva della politica monetaria non è neppure immaginabile la benché minima inversione di tendenza rispetto al quadro attuale delle politiche di austerità. Per questo ribadiamo l’obiettivo dell’uscita dall’euro come uno dei punti qualificanti del programma su cui dovrà nascere il governo popolare d’emergenza, che riteniamo debba essere lo sbocco naturale di una sollevazione popolare che o sarà contro l’Unione Europea e la sua moneta, o semplicemente non sarà.

Pensare di poter riformare l’Europa solo perché Hollande ha preso il posto di Sarkozy, o perché Bersani prenderà quello di Monti è palesemente ridicolo. Ma anche chi pensa che un’intera struttura plasmata sugli interessi del ristretto blocco dominante, possa essere cambiata attraverso la semplice protesta, declinata in versione sindacale o no-global, è assolutamente fuori dalla realtà. Pretendere di riformare l’Unione Europea sarebbe un po’ come pensare di poter riformare la Nato. Detto questo è detto tutto, anche perché non ci pare proprio che i «riformatori» abbiano in testa qualcosa di più del vuoto slogan dell’«altra Europa».

Il Movimento Popolare di Liberazione non pretende che questa posizione sia condivisa in toto dalle altre forze potenzialmente interessate alla costruzione del fronte, ma ritiene che questo nodo non sia più aggirabile per nessuno. Consideriamo perciò, oggi ancor più di ieri, come centrale la rivendicazione della piena sovranità nazionale. Non si tratta, del resto, di una rivendicazione astratta. Si tratta di rifiutare a priori il quadro in cui opererà il nuovo governo che nascerà in primavera. Se la sua collocazione europeista è scontata, chi vi si opporrà dovrà farlo a partire proprio dalla contestazione della subordinazione dell’Italia ai vincoli europei.

Ove non avvenisse, si aprirebbe probabilmente la strada ad un sovranismo reazionario e/o territorializzato (tipo Lega). Una ragione di più per rafforzare e sviluppare un sovranismo democratico e solidale, da immettere in una prospettiva di liberazione sociale affiancata dalla costruzione di nuove istituzioni statali, democratiche e soggette al controllo popolare.

Per queste ragioni il Mpl chiamerà a raccolta, nei prossimi mesi, le forze che si riconoscono in un’impostazione sovranista come quella sopra indicata, per porre con forza gli obiettivi dell’uscita dall’Unione Europea e dall’euro, e per la riconquista di una piena sovranità nazionale. Si tratta, in definitiva, di obiettivi imprescindibili, senza i quali non è neppure pensabile l’applicazione del programma di misure economiche che da tempo abbiamo elaborato, a partire dall’intervento di taglio drastico del debito pubblico.


8. La sollevazione

Ovviamente, tutto ciò sarebbe pia illusione senza un vera sollevazione popolare. Questo è chiaro. La domanda che molti ci pongono riguarda piuttosto la realizzabilità di questo passaggio rivoluzionario.

In proposito niente può essere dato per scontato. Compito nostro è quello di indicare un percorso logico, benché necessariamente tortuoso, per uscire dalla catastrofe in corso. Se avessimo creduto alle ricette riformiste o menopeggiste non avremmo dato vita al Mpl. Il nostro movimento, pur nella sua modestia, nasce su un’idea attuale e concreta di rivoluzione. Non crediamo infatti ad altre strade. Ed oggi ben più di ieri, vediamo come unica alternativa a questo progetto un progressivo imbarbarimento della società.

Ma quali potranno essere le forze della sollevazione? Noi pensiamo anzitutto ad ampi strati del popolo lavoratore, inclusa buona parte del lavoro autonomo e di quella che si definisce piccola borghesia. Lo stesso ceto medio – una definizione mai stata soddisfacente, come tutte quelle che vorrebbero descrivere ciò che sta in mezzo – è oggi solcato da fratture profonde e difficilmente componibili. Giusto per fare un esempio, basti pensare alle differenze che vi sono tra i membri di questo «ceto» che vivono ancora oggi di rendita, e quelli che si sono invece indebitati per salvare magari l’azienda a conduzione familiare.

Quel che può fare la differenza, nella prospettiva della sollevazione, è la frattura tra i pochi che si stanno ancora arricchendo e la maggioranza che si sta (sia pure a livelli diversissimi) impoverendo.

Non esiste uno strumento in grado di misurare la soglia massima di sopportazione di un declino economico, che per molte famiglie di disoccupati e di lavoratori impoveriti significa ormai un pesante tirare la cinghia. Esiste però l’esperienza storica. Ed essa ci dice che non si esce da crisi sistemiche di questa portata con piccoli ed indolori aggiustamenti. Se ne esce soltanto con giganteschi processi di riassestamento generale del sistema, attraverso sconquassi traumatici che ridefiniscono in genere non solo i rapporti tra le classi, ma anche quelli tra gli stati con il ricorso alle armi ed alla guerra. Ma è proprio in tali contesti che si aprono le possibili finestre rivoluzionarie. E’ ben noto che una tale condizione oggettiva è di per sé insufficiente in assenza di quella soggettiva. Ed è proprio per questo che occorre lavorare sul soggetto, ma partendo dalla consapevolezza della partita che possiamo giocare.

Sempre l’esperienza storica ci insegna che le finestre rivoluzionarie si aprono negli anelli deboli della catena. In quei paesi, quei luoghi, dove il presente è diventato maggiormente insopportabile. Non è forse oggi l’Italia un anello debole? Noi pensiamo che oggi – oggi non 30 o 40 anni fa – l’Italia abbia tutte le caratteristiche dell’anello debole. Un anello che ha ancora bisogno di logorarsi, ma che è pensabile di poter spezzare in un futuro non troppo lontano.

L’idea della sollevazione non è dunque astratta. Essa nasce piuttosto dall’analisi concreta della situazione concreta. Ed ogni scelta che qui andiamo a compiere – da quella elettorale, al rilancio del fronte, allo sviluppo di uno schieramento sovranista, fino all’approvazione della nostra Carta dei principi ed alla costruzione del Mpl – va ad inscriversi in questa prospettiva.

 

da SollevAzione