Il destino di Icaro

Unione europea: ognuno per sé Dio per tutti

«Tedeschi e francesi sono dunque i primi a predicar bene e a razzolare male: chiedono ai periferici di subire il salasso in nome della salvezza dell’Unione ma sono proprio Germania e Francia che per primi respingono ulteriori cessioni di sovranità. A dimostrazione che gli Stati nazionali, se sono tali, non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. Solo ai “debitori” vien chiesto di immolarsi sull’altare della moneta unica».

Divergenze tra banchieri centrali

Dopo la Fed americana e la Banca centrale canadese, anche la Banca d’Inghilterra si avvia ad abbandonare il dogma dell’inflation targeting.
Allo scopo di stimolare la ripresa dell’economia, la politica monetaria continuerà ad essere espansiva (tassi a zero costanti) anche a costo di veder salire i prezzi oltre la soglia prefissata. Si ammette, scoperta dell’acqua calda, che l’inflazione è un fenomeno che non dipende in prima istanza dalla quantità di moneta messa in circolazione. Ben Bernanke è stato esplicito, la Fed prenderà come indicatore principale il tasso di disoccupazione, che dovrà essere portato al 6,5%. [1]

Se avesse fatto questo annuncio prima delle elezioni, si sarebbe detto che si trattava di una  mossa per facilitare la rielezione di Obama. Invece l’ha detto a rielezione compiuta, a dimostrazione che questa grande crisi sta conducendo le banche centrali anglosassoni ad abbandonare la dottrina monetarista per rispolverare quello che potremmo definire un keynesismo temperato.

Non è dello stesso avviso la Bce di Draghi. Vero è che Francoforte, dall’inizio della crisi finanziaria ha portato il suo bilancio a oltre i tremila miliardi di euro, ma solo allo scopo di salvare le banche dalla bancarotta e non nell’ottica anticiclica di stimolare la ripresa. Pochi giorni prima che i banchieri anglosassoni annunciassero la loro svolta, Draghi, in quel di Budapest, dopo aver definito “irresponsabile” la politica del governo ungherese  — “è inaccettabile far leva sull’inflazione per abbassare il debito pubblico” — ribadiva i due dogmi intangibili su cui è stata costruita l’Unione economica europea e che tanti danni hanno procurato, anzitutto ai paesi “periferici”:  «Un requisito chiave della credibilità della politica monetaria è l’indipendenza della banca centrale. Alla fine il successo nel mantenere la stabilità dei prezzi dipende dalla credibilità» e quindi difesa intransigente dei Tratti europei e dello statuto della Bce. [2]

Soluzione greca

Di terapie keynesiane, per quanto temperate, Draghi, per nome e per conto del dominus dell’Unione, ovvero della Germania e della Francia di Sarkhollande che gli funge da spalla, non ne vuole sentir parlare. Quale sia il loro paradigma è evidente e lo stanno sperimentando sulla carne viva del popolo greco. È il modello export oriented, ovvero tutto il contrario del fare leva sulla crescita della domanda aggregata keynesiana (aumento del potere d’acquisto dei salari e intervento massiccio della spesa pubblica).

I mercati, leggi la grande finanza predatoria che lucra sui debiti sovrani, hanno festeggiato il successo del buyback — il riacquisto da parte del governo di Atene a prezzi scontati di circa 30 miliardi di titoli in mano ai creditori ad un prezzo di poco più di un terzo del valore nominale. Adesso la Grecia potrà ricevere gli “aiuti” internazionali promessi (43,7 miliardi), ovvero indebitarsi ancora di più. Sembra una logica folle, ma non lo è. Impiccato ai debiti, il governo ellenico sta ficcando il suo popolo sul Letto di Procuste, allo scopo dichiarato di portarlo alla fame e così obbligarlo a lavorare per salari da terzo mondo (la chiamano “competitività). Lo scopo non è solo raggiungere il pareggio di bilancio, ma passare dal disavanzo delle partite correnti ad un avanzo. In parole povere: crollo dei consumi interni attraverso un forte calo delle importazioni, per ottenere un aumento del surplus commerciale con l’estero.

Si tratta della medesima terapia-salasso imposta a tutti i Piigs, tra cui l’Italia. Draghi si è così felicitato per il “successo” delle draconiane misure d’austerità imposte ai “periferici”. Nel corso del suo intervento al Parlamento europeo Draghi ha testualmente dichiarato:
«È incoraggiante constatare che ora la correzione degli squilibri è chiaramente in corso. Per esempio le esportazioni di beni e servizi in Spagna sono aumentate del 27% dal 2009, del 14% in Irlanda, del 22% in Portogallo e del 21% in Italia. Questi quattro Paesi stanno anche assistendo a miglioramenti dei costi unitari del lavoro». [3]

Tutto va bene madama la marchesa. Ci vuole la faccia tosta di Draghi per considerare questo indicatore come determinante, dimenticando il crollo della produzione industriale che ha spazzato via milioni di posti di lavoro, portato alla chiusura di centinaia di migliaia di aziende, abbassato drasticamente i consumi e portato in Italia il rischio di povertà al 30%. [4]

Ma questo è esattamente quello che vogliono Draghi e la setta dei neoliberisti: ottenere la “crescita” attraverso la “competitività” facendo deliberatamente leva sull’aumento della miseria sociale. Si salveranno così l’Italia e gli altri Piigs? Certo che no, ma si salveranno le grandi banche d’affari e con loro la bisca globale dove il capitale finanziario gioca d’azzardo la sua liquidità e le sue rendite.


La camicia di forza dell’euro

Così si vogliono salvare l’Unione europea e la moneta unica, che ne costituisce la spina dorsale. Ci riusciranno? No che non ci riusciranno. Le terapie adottate non conducono al superamento dei profondi squilibri regionali interni all’Unione e che l’euro ha fortemente accentuato. Le terapie neoliberiste, in barba ai proclami, stanno consolidando questi squilibri, li stanno pietrificando, creando un’Europa di serie A e una di serie B, dove i paesi periferici diventeranno una specie di colonia interna, fornitori di forza lavoro a basso costo e di semilavorati per l’industria tedesca e dei suoi satelliti e, attraverso il ricatto dei debiti sovrani, erogatori di risorse finanziarie per tenere in piedi i traballanti sistemi bancari dei paesi di serie A e con essi tutta la famelica finanza speculativa globale.

Questo è l’esito delle politiche liberiste, dell’accanimento terapeutico a tenere in vita l’euro zombi. Si sapeva che il cambio fisso tra valute di paesi strutturalmente diversi non può che portare a squilibri crescenti delle partite correnti, e che per mantenersi a galla i paesi più deboli avrebbero dovuto gioco forza, fare leva su drastiche e antipopolari politiche deflazionistiche. L’euro è stato come una camicia di forza per l’economia italiana. Alienata la sovranità monetaria il paese è stato privato di un mezzo decisivo (tra cui la svalutazione competitiva) per difendere se stesso dall’assalto dei competitori internazionali e quelli che si rivelano i più devastanti non sono fuori dalla Ue ma dentro. Come sostiene Alberto Bagnai, l’euro non è solo una moneta, è un regime politico. [5]


Disunione europea

Per quanti sforzi facciano in senso contrario, gli apprendisti stregoni dell’euro falliranno. Gli spirti che hanno suscitato non spingono verso una maggiore integrazione ma, al contrario, verso la disintegrazione dell’Unione e quindi la fine della moneta unica. Tra le due tendenze, quella alla definitiva unificazione politica dell’Unione (la quale implica tra le altre cose un’unica politica di bilancio, una unica politica fiscale e quindi la mutualizzazione dei debiti sovrani) e quella opposta, alla risovranizzazione nazionale, è quest’ultima che, sul medio periodo, si affermerà.

I seguaci del partito unico eurista percepiscono questo fallimento del loro disegno e se la vanno prendendo coi “populismi nascenti”. La lotta contro questi presunti populismi sta anzi diventando il loro cavallo di battaglia, il loro spaventapasseri.  A ben guardare le cose stanno diversamente, stanno che gli euristi sono impigliati nelle loro stesse insolubili contraddizioni e la minaccia del populismo è solo un parafulmine, uno schermo dietro al quale nascondere le loro stesse divisioni.

E’ bastato che la finanza speculativa, rassicurata dalla promessa di Draghi dell’estate scorsa, cessasse di stare col fiato sul collo dell’euro, che le divisioni sono tornate a galla più acute di prima.

Due casi, a questo riguardo, sono davvero istruttivi. Il mancato accordo sul bilancio dell’Unione e il pasticcio sulla vigilanza bancaria. Sul bilancio, apparentemente, il disaccordo verteva sulla consistenza dei tagli da apportare. 80 o 100 come chiedono gli inglesi?  Se si tiene conto che il bilancio annuale dell’Unione europea ammonta a circa 142 miliardi di euro (dati del 2011), ci si rende conto dell’assurdo. Un’Unione che pretende di procedere verso una progressiva unificazione politica e che ha un bilancio che corrisponde al misero l’1% della ricchezza prodotta ogni anno, discute non di aumentarlo ma di tagliarlo. Tanto più assurdo se si pensa che quest’Unione, almeno nei desiderata recentemente confermati dal presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, prevede in due anni l’unificazione delle politiche di bilancio e la definitiva cessione di sovranità politica degli stati membri. [6] Se si accapigliano sull’entità dei tagli al già castigato bilancio come potranno passare ad un bilancio unico?

Ed infatti il summit dei capi di governo della Ue del 13 e del 14 dicembre il piano di van Rompuy non l’ha minimamente preso in considerazione. Se ne parlerà più avanti, alle calende greche.

I tecno-oligarchi europei, seguiti dai primi ministri e dai presidenti dei vari paesi hanno pensato bene di camuffare le loro irriducibili divisioni spacciando l’accordo sulla vigilanza bancaria come un “grande successo”. Ma anche qui non è tutt’oro quel che riluce. E’ vero, la Bce avocherà a se, entro il 2014, la vigilanza sulle circa 200 banche considerate sistemiche, to big to fail, togliendola dalle mani delle diverse banche centrali. Ma da qui a dire che è stato fatto un passo decisivo verso l’unione bancaria ce ne vuole.

Anzitutto non è un cambiamento di sostanza, visto che le attuali banche centrali sono già mere filiali della Bce ed a Francoforte ubbidiscono e per conto della Bce vigilano già de facto. In secondo luogo non è stato trovato un dispositivo per risolvere le crisi bancarie, ciò implicherebbe che i vari paesi accettino di mettere in un fondo comune le risorse per farvi fronte. Questo a conferma, usiamo una metafora, che gli “egoismi nazionali” continuano a prevalere sui cosiddetti interessi comuni. «Ammette un responsabile europeo: “In molti paesi, non c’è in questo momento appetito per una condivisione dei rischi”». [7]  In terzo luogo la vigilanza non si estende alle circa 4mila banche dell’Unione, mentre la crisi dei muti sub-prime del 2007-2008 negli Usa fu innescata dal fallimento di banche medie e piccole (e solo dopo raggiunse colossi come la Lehman Brothers). Last but not least lo stratagemma di sottoporre a vigilanza solo le banche cosiddette sistemiche è stata una clausola fortemente voluta dalla Merkel proprio per proteggere la fitta rete di scassate sparkasse tedesche, che il governo di Berlino da anni sostiene lautamente aggirando i Trattati.

Tedeschi e francesi sono dunque i primi a predicar bene e a razzolare male: chiedono ai periferici di subire il salasso in nome della salvezza dell’Unione ma sono proprio Germania e Francia che per primi respingono ulteriori cessioni di sovranità. A dimostrazione che gli Stati nazionali, se sono tali, non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. Solo ai “debitori” vien chiesto di immolarsi sull’altare della moneta unica.

Per tornare al recente vertice europeo: si istituirà una vigilanza monca, ma siamo ben lontani dall’istituzione di un meccanismo comune per disinnescare la bomba prossima ventura, quella di default bancari a catena, né il recente vertice europeo ha minimamente tentato, dato che sul tavolo c’era la questione bancaria, di porre rimedio al credit crunch, ovvero al paradosso che le banche, pur essendo satolle grazie alla liquidità fornitagli dalla Bce, la usano non per farla circolare nell’economia che produce ricchezza reale, ma la fanno volteggiare nell’iper-spazio della finanza speculativa. Ognuno per sé, Dio per tutti. Tutto come prima quindi, ma sempre peggio.

E siccome l’economia materiale, quella che crea beni e servizi, è in profonda depressione, tenendo conto che le terapie d’austerità ce la inchiodano, è facile prevedere come ineluttabile lo scoppio di una bolla finanziaria europea di enormi proporzioni. La finanza farà la fine di Icaro che, deciso a volare e costruite le ali con la cera, una volta preso il volo, avvicinatosi troppo al sole, questo ne sciolse la cera e finì per schiantarsi in mare. Il piccolo dettaglio è che con questa bolla si schianterà anche l’euro, rendendo vani tutti gli immensi sacrifici che i popoli, tra cui il nostro, sono stati condannati a sopportare.

Ci dicono: non è la prima volta che fate questa previsione ma la papera ancora galleggia. Signori, non siamo una Sibilla Cumana, non sappiamo il quando, noi vi indichiamo qual è la tendenza, che il destino dell’euro è segnato e che chiunque abbia a cuore quello dei popoli dovrebbe, invece di aggrapparsi ad uno zombi, agire per riconquistare la sovranità ed evitare la catastrofe.

NOTE

[1] Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore del 16 dicembre
[2] Il Sole 24 Ore del 8 dicembre
[3] Il Sole 24 Ore del 17 dicembre
[4] Rapporto Istata sulla coesione sociale, LA STAMPA del 18 dicembre
[5] Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro
[6] Corriere della Sera del 5 dicembre
[7] Beda Romano, Il Sole 24 ore del 13 dicembre

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