«L’Europa è tutto e voi siete niente»: é questo il succo della famosa Agenda del golpista, che ci propone la solita tiritera liberista venduta da un trentennio come oro colato, ma sempre smentita dai fatti. Non contento, poi, mente sapendo di mentire…
Pesce lesso Monti ha compilato un’agenda. O forse l’ha solo firmata, mentre gliel’ha confezionata Ichino. Sta di fatto che gli italiani hanno iniziato il 2013 con la certezza che c’è qualcuno che si occupa di loro. Fin troppo… penseranno i più.
Abbiamo così un presidente del consiglio dimissionario che ha la pretesa di dettare le future scelte politiche. Non ha più la fiducia del parlamento, non ha mai avuto un solo voto dagli elettori, ma pensa di essere un padreterno indispensabile ed insostituibile. Il voto del 24 febbraio ci dirà qualcosa in proposito. Ma intanto abbiamo l’Agenda, e dobbiamo occuparcene.
Diciamo subito che si tratta di un documento assai scontato e prevedibile. Una piccola summa dell’ideologia liberista. La riproposizione aggiornata di quanto vanno facendo le classi dirigenti occidentali da un trentennio. Più liberalizzazioni, più mercato, più flessibilità e precarizzazione del lavoro, più tagli alla spesa pubblica, meno stato sociale. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti.
Ma a loro non basta mai. E se gli dici che le liberalizzazioni hanno prodotto solo danni, ti risponderanno che è solo perché non si sono fatte fino in fondo. Dunque, mantenere la stessa direzione di marcia inaugurata da Thatcher e Reagan ed andare avanti a testa bassa. Da qui la sequela dei più questo, più quello, ora condita dal più più grande di tutti: più Europa, ci mancherebbe!
Qualcuno ha già notato come l’incipit dell’Agenda sia un po’ il succo del tutto. Leggiamo: «La crisi ha impresso al processo di integrazione europea una accelerazione che sarebbe stato difficile immaginare solo pochi anni fa. Nei prossimi anni saranno scritte pagine decisive per il futuro dell’Europa e per il destino degli Stati che ne fanno parte. La scelta a favore o contro l’Europa e su quale Europa diventerà una linea di frattura fondamentale tra gli Stati e le forze politiche».
Avete capito bene? Costui (o costoro) inneggia alla crisi, grazie alla quale il mostro oligarchico al quale hanno a lungo lavorato potrebbe infine prendere una forma più definita. Una confessione esplicita, che dovrebbe fra l’altro aprire gli occhi alla sinistra mafio-centrica di Ingroia, anzi INGROIA. Ma siamo certi che non avverrà. Non per ora, almeno. Ma lasciamo perdere, e chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Torniamo invece a Monti. Al piccolo golpista dai tanti sponsor un merito va insomma riconosciuto: quello di aver definito il discrimine decisivo, la faglia da cui dipende l’evento sismico ed il successivo assestamento, la «linea di frattura fondamentale» chiamata Europa.
Se si compie il piccolo sforzo di imprimersi nelle meningi questo concetto, in verità assai semplice, la lettura del resto dell’Agenda è quasi tempo sprecato. Abbiamo tagliato le pensioni, guai a rimetterci mano; abbiamo tagliato la sanità – che bello! – diamoci dentro con la spending review; bisogna «continuare la stagione delle liberalizzazioni» (sai che novità!); occorre «superare il dualismo tra lavoratori protetti e non protetti», e voi sapete già cosa significa; poi quel welfare che non va mai bene, ed un fisco da riformare (intanto aumentando l’IVA).
Insomma, l’Agenda di Monti è solo il promemoria di un macellaio, che deve continuare a spacciare la sua merce affettando cadaveri. Che piaccia assai al Pd è un fatto che può stupire solo alleati sinistri con l’orecchino, o «comunisti» respinti (ma prontamente riciclatisi) come Diliberto.
Tutto prevedibile, dunque? Non esattamente. L’Agenda, infatti, avrebbe potuto mentire senza bisogno di falsificare i dati macroeconomici. Magari anche solo omettendoli. Ma il «tecnico» non ha resistito alla tentazione di imbrogliare un po’ di numeri. Fosse stato un po’ più furbo avrebbe potuto rifilarci le sue false certezze – «certe» da un trentennio, ma sempre smentite dall’esperienza – senza sparare cifre e sragionamenti a casaccio.
Ma la presunzione è tanta e i risultati si vedono. A pagina 3 del documento del sapientone si leggono tre dogmi e tre svarioni. Passi per i dogmi (crescita, pareggio di bilancio, Fiscal compact), che ben conosciamo; ma gli svarioni richiedono davvero qualche riga di commento.
Il bello è che per introdurre l’argomento, il professorone vorrebbe impressionarci con la «realtà scomoda dei numeri». Non si preoccupi, piccolo Quisling, che siamo in grado di sopportare certe scomodità. Lei, piuttosto, come fa a scrivere questa serie impressionante di fesserie? O gliele ha scritte Ichino e lei non ha ricontrollato, come altre imperfezioni del testo potrebbero far supporre?
Lo svarione numero 1 è semplicemente inspiegabile. L’Agenda afferma che il costo degli interessi sul debito pubblico ammonta nel 2012 a 75 miliardi di euro. Una bella cifra, peccato sia inferiore di 11 miliardi e 119 milioni a quanto sta scritto nella “Nota di aggiornamento” del Def (Documento di Economia e Finanza), datata settembre 2012, a firma Monti e Grilli. E nello stesso documento si precisa l’aumento previsto per i prossimi anni, fino agli impressionanti 105 miliardi e 394 milioni indicati per il 2015 (chi volesse saperne di più legga questo articolo). Qual è allora la cifra giusta, quella del Monti di settembre o quella che lo stesso ha indicato a dicembre? Noi sappiamo che è la prima, mentre sul perché abbia sparato la seconda bisognerebbe chiedere all’interessato.
Lo svarione numero 2 è invece spiegabilissimo, dato che si tratta di un’autentica truffa. Il furfante ha il coraggio di scrivere che: «Ridurre di 100 punti base il tasso di interesse che paghiamo sul debito, vale 20 miliardi di euro a regime. E da novembre 2011 il tasso di interesse è calato di oltre 250 punti». Ora, se tutto ciò fosse vero, e considerato che 20 x 2,5 = 50, Monti potrebbe davvero presentarsi come il salvatore tanto propagandato dalla stampa leccapiedi che lo sostiene. Cinquanta miliardi annui sarebbero davvero un bel gruzzolo. Ed una bella smentita alle cifre di cui sopra del duo… Monti-Grilli.
Che invece, statene certi, verranno smentite sì, ma perché sottostimate, non il contrario. Nel ragionamento del professorone ci sono infatti due trucchi. Il primo è che parlare di quanto le variazioni dei tassi (e dunque dello spread) si riflettano sul costo degli interessi è in realtà assai complesso. Valutare l’incidenza a “regime” di una variazione di 100 punti base nel breve, proiettandola sull’insieme dello stock di titoli che hanno spesso una scadenza ultra-decennale (e comunque una vita media di oltre 7 anni) non ha molto senso.
Ancora meno senso ha – e qui l’intento truffaldino è macroscopico – riferirsi alla variazione dei tassi rispetto al solo picco del novembre 2011. Quel che conta infatti, ai fini della proiezione di lungo periodo, è il tasso medio di un determinato periodo (ad esempio di un anno). E’ evidente che il picco x della durata di un giorno, incide davvero sul costo degli interessi solo se quel giorno il Tesoro emette nuovi titoli. Solo in quel caso, un aumento di 100 punti base (pari all’1%) sul mercato secondario si rifletterà all’ingrosso su un incremento simile dei tassi applicati ai titoli emessi quella giornata.
Ora si da il caso che lo spread medio del periodo gennaio 2008 – giugno 2011 è stato pari a 113. E che solo successivamente lo spread ha preso a galoppare, per arrivare a quota 574 il famoso 9 novembre 2011, per ridiscendere a 447 il 1° dicembre (a Monti appena insediato), risalire a 515 il 23 dicembre, scendere sotto i 300 punti l’8 marzo 2012, riprendere quota 490 il 12 giugno, arrivare a 537 il 24 luglio (dopo 8 mesi di governo Monti), ridiscendere sotto i 400 settembre, scendere ancora a 300 a dicembre, per poi risalire all’attuale 320. Insomma, un’altalena piuttosto complessa, ma che ci dice comunque una cosa: i tassi medi (e dunque gli spread medi) del governo Monti sono stati certamente assai più alti di quelli del precedente gabinetto Berlusconi.
La vanteria del candidato del minestrone Casini-Fini-Frattini-Ichino-Montezemolo è dunque del tutto fuori luogo. Tant’è che lo stesso Def prevede per i prossimi anni una crescita piuttosto forte del costo del debito, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil. Ma questo falso serve al golpista in loden per introdurne un altro non meno importante. Leggiamo allora lo svarione n° 3: «Ridurre lo stock del debito» – iniziando la pazzesca manovra di rientro prevista dal Fiscal compact – «tenuto conto del fatto che realizzato il pareggio di bilancio e in presenza di un tasso anche modesto di crescita, l’obiettivo di riduzione di stock del debito sarebbe già automaticamente rispettato».
Una cosa da ragazzi, dunque. Peccato si tratti di una balla colossale. Intanto il pareggio di bilancio è di là da venire. Per il 2013 lo stesso governo Monti prevede un deficit pari all’1,6% del Pil, ma siccome si valuta che esso contenga un -1,9% dovuto al ciclo economico negativo, si dirà di aver ottenuto un avanzo pari allo 0,3% «al netto del ciclo». Qui siamo davvero vicini alla stregoneria dei numeri. Del resto le cronache ci parlano di quanto sia bravo il ministro Grilli ad imbrogliar le carte dei suoi affari immobiliari privati…
Il giochino architettato per far tornare i conti potrà anche funzionare, ma il deficit rimarrà un deficit e circa 25 miliardi di euro veri (ciclo o non ciclo) andranno ad aggiungersi alla massa del debito. Ma fingiamo pure di arrivare al pareggio di bilancio. Bene, sarà chiaro a tutti che (sempre in rapporto al Pil) pareggio di bilancio significa debito invariato a crescita zero, debito in riduzione di un punto con una crescita del Pil dell’1%, debito in aumento di un punto con una crescita negativa del Pil del -1%, e così via.
Ora il Fiscal Compact prevede una riduzione annua dello stock del debito pari al 3% del Pil (qualcosa come 47 miliardi di euro). In realtà un po’ di più, dato che il rapporto debito/Pil non è più al 120% ma già oltre il 126%. Ne consegue che solo una crescita costante attorno al 3% garantirebbe la riuscita dell’operazione «rientro». Per l’esattezza, considerando l’incremento delle entrate fiscali, basterebbe anche un po’ meno. Secondo un eurista convinto come Giuliano Amato ci vorrebbe comunque una crescita del 2,5% annuo costante per 20 anni. Un tasso di crescita che l’Italia non conosce più da decenni, lontano anni luce dalla crescita zero arrivata – chissà perché! – in parallelo con l’euro, cioè da ben 11 anni.
Come si può allora affermare che basterebbe «un tasso anche modesto di crescita»? Si può, perché si deve. Perché altrimenti si dovrebbe dire la verità: che nuovi e più pesanti sacrifici saranno necessari, anno dopo anno, sull’altare dell’euro e di un’Unione europea che serve solo agli affari di lorsignori.
Questa è la verità: semplice, semplice. E’ una verità che l’austero estensore dell’Agenda non può dire. Come non può dirla Bersani, ma neppure Vendola. E, checché se ne pensi, neppure Ingroia, anzi INGROIA, il quale per la verità sembra proprio non volersene occupare. Come se fosse ritornato in Italia non dal Guatemala, ma da Urano, anzi da URANO.