Qual è la vera posta in gioco del voto febbraio? Ecco una domanda alla quale bisogna cercare di rispondere. Secondo alcuni essa sarebbe talmente alta da non avere precedenti nella storia nazionale. Secondo altri, invece, il voto avrebbe ben poco da dire visto che tutto sarebbe stato già deciso nelle segrete stanze del blocco dominante. Due esagerazioni, in realtà due errori opposti ma complementari nell’oscurare ciò che è veramente in gioco.

A dare forza ai primi, al di là del solito elettoralismo, c’è questa volta un argomento almeno apparentemente più consistente: quello secondo cui le elezioni decideranno quale via d’uscita dalla crisi verrà intrapresa od anche soltanto tentata. Trattandosi di una crisi violenta e profonda, che abbiamo definito non a caso storico-sistemica, questo argomento non può essere snobbato. Errore che invece compiono i sostenitori della tesi opposta, secondo i quali la posta in gioco è semplicemente pari a zero.

Questa convinzione è peraltro corroborata dalla concreta esperienza degli ultimi decenni, un lungo periodo di tempo in cui governi di segno formalmente opposto hanno fatto sostanzialmente le stesse politiche, compiuto le stesse scelte, alimentato lo stesso malcostume.

Insomma, tutte e due queste impostazioni hanno qualche ragione dalla loro parte. E tuttavia, a giudizio di scrive, esse hanno entrambe torto nella sostanza. Le prossime elezioni non saranno il momento del redde rationem decisivo per le sorti del paese, ma neppure saranno il regno del già scritto da una classe dirigente più divisa di quel che sembra, e comunque in affanno.

In realtà, a 50 giorni dalle elezioni, due cose sembrano effettivamente certe mentre altre due appaiono incerte. Ed è su queste ultime due che inciderà il voto di febbraio.

Ma vediamo intanto le cose che, a meno di clamorosi cataclismi politici, possiamo considerare certe. La prima, e di gran lunga più importante, è l’asse attorno al quale prenderà vita il prossimo governo. La seconda, decisamente meno importante, è il nome del futuro presidente del consiglio.

Il combinato disposto derivante dalla legge elettorale, dalla candidatura di Monti, dalla linea del centrosinistra, e soprattutto dalla spinta proveniente dalle oligarchie europee, nonché dalla Casa Bianca, dà il seguente risultato: il prossimo governo nascerà attorno all’asse Bersani-Monti, che definiremo asse degli eurosacrifici, con a Palazzo Chigi l’attuale segretario del Pd.

Stabilito l’asse ed il nome del guidatore, restano naturalmente diverse variabili, e due incertezze in particolare. Quella che appassiona il giornalistume amante del gossip concerne essenzialmente gli equilibri, i rapporti di forza che si stabiliranno tra il centrosinistra ed il piccolo blocco montista.

L’incertezza che a noi sembra invece ben più importante riguarda il livello dei consensi elettorali che l’asse degli eurosacrifici saprà davvero raccogliere. Posto che, grazie alla legge elettorale, i seggi per dare comunque vita ad un governo eurista ci saranno – e dunque non potrà essere questo il momento del redde rationem – sarà tutt’altro che secondario misurare i voti complessivi di quel blocco. Verrà raggiunta, oppure no, la soglia del 50%?

Prima di concentrarci su questa che, per noi, è di gran lunga la questione principale, soffermiamoci brevemente sul tema degli equilibri interni all’asse Bersani-Monti. Lo facciamo anche perché in questi giorni la polemica tra Pd e montisti sta prendendo quota. Era inevitabile che avvenisse, dato che la campagna elettorale ha le sue regole. Ma una cosa è la campagna elettorale, altra cosa il dopo-voto. E quel che è certo è che nessuna questione di fondo (l’Europa, l’euro, i sacrifici, il pareggio di bilancio, il Fiscal compact, la precarizzazione del lavoro, le liberalizzazioni) diventa davvero materia del contendere.

L’ipotesi più probabile, al di là delle inevitabili polemiche elettorali, rimane dunque quella di un asse eurista che a marzo si fa coalizione di governo a tutti gli effetti. C’è tuttavia una subordinata da prendere in considerazione. Qualora il centrosinistra dovesse avere una robusta maggioranza anche al Senato (ipotesi da non escludere affatto, specie se la Lega non farà l’accordo con il Pdl), e il piccolo blocco centrista non dovesse oltrepassare il 15%, potrebbero nascere degli intoppi. Non perché Bersani sceglierebbe l’autosufficienza, ma perché Casini e Fini (di Monti è difficile dire) avrebbero qualche difficoltà ad aggregarsi ai vincitori in posizione subalterna, senza disporre di alcun potere di veto.

Per quel che è possibile prevedere, anche in questa ipotesi il blocco europeista non si spezzerebbe affatto, ma verrebbe declinato in altro modo. Ad una diversa collocazione rispetto al governo, potrebbe infatti corrispondere una ricomposizione dell’asse eurista attraverso l’elezione di Monti (o magari di Draghi) al Quirinale, non come semplice presidente della repubblica, ma come vero commissario europeo messo a garanzia delle politiche liberiste e rigoriste che ben conosciamo.

Veniamo ora alla questione che davvero ci sta a cuore. Quella del consenso effettivo che l’asse di cui sopra saprà raggranellare. Ad oggi non pare che Monti stia sfondando, né crediamo ci riuscirà nelle prossime settimane. Diverso è il discorso sul Pd. Il partito di Bersani ha votato l’intero pacchetto del massacro sociale operato dal governo Monti, e non intende certo venir meno alla sua impostazione liberal-liberista, europea e rigorista. Può però giocare su un’immagine quantomeno pluralista, che dà qualche spazio ai Fassina, che mantiene un rapporto con la Cgil, che si allea con Vendola.

Quando il segretario del Pd cerca di tenere assieme tutto ciò, ne viene fuori l’immagine di un cuoco intento a cucinare gli stessi piatti di Monti, con la sola aggiunta di un pizzico di sale qua e là. E’ la formula del «rigore con un po’ più di sviluppo ed un po’ più di lavoro». Una roba da ridere (o da piangere), espressa per giunta con un linguaggio demenziale che si commenta da solo. E tuttavia, grazie alla debolezza degli altri, Bersani sembra adesso quasi un gigante. Nella determinazione dei rapporti di forza non conta solo la propria consistenza, a volte essendo più importante l’altrui debolezza.  Fu così per Berlusconi nel 2008, non potrà stupire se sarà così per Bersani nel 2013.

Tutto ciò per dire che non bisogna sopravvalutare i consensi attuali del Pd. Per Bersani sarà relativamente facile vincere le elezioni, più difficile governare, tanto più quando sarà chiara a tutti la piena adesione del suo governo alla cosiddetta Agenda Monti. Ma quanti voti saprà conquistare il Pd? A nostro modesto avviso i sondaggi attuali tendono a sopravvalutare questo partito, forse anche per la confusione che ancora regna sovrana negli altri schieramenti.

Tenere l’asse Bersani-Monti sotto il 50% è comunque un obiettivo possibile quanto importante. Che sia possibile lo dicono gli stessi sondaggi. L’importanza sta invece in quello che è il collante di questo asse degli euro-sacrifici: l’europeismo, inteso come completa adesione alla politica ed ai dogmi dell’Unione europea; l’eurismo, cioè l’identificazione dell’Europa in un moneta, con tutto ciò che ne consegue; il rigorismo liberista che trova nella Ue il terreno ideale per la propria applicazione. E mentre la gabbia europea viene usata come «vincolo esterno» per cancellare ogni diritto sociale, l’ideologia europeista senza se e senza ma è la nuova religione del blocco dominante, condivisa tanto nel blocco montista quanto nel centrosinistra bersaniano.

La questione centrale è dunque quella europea. Questa la vera posta in gioco. Non nel senso che dalle elezioni possa uscire una maggioranza parlamentare orientata in maniera opposta a quella appena disfattasi. Questo non è ancora possibile. E’ possibile invece indebolire lo schieramento asservito alle oligarchie europee, metterlo intanto in minoranza tra gli elettori, porre le premesse per una sua futura sconfitta politica.

Se questa non fosse la vera posta in gioco non si capirebbe neppure l’insistenza della propaganda contro il cosiddetto «populismo», laddove ogni posizione che non accetti i dogmi euristi viene appunto etichettata come «populista».

A ben guardare, le prossime elezioni saranno insomma un vero e proprio referendum sull’Europa, o quantomeno sugli eurosacrifici. Di sicuro è così che verranno vissute e commentate all’estero, specie negli altri paesi dell’Unione.

Se abbiamo chiaro tutto ciò, non sarà difficile comprendere quali possano essere le scelte elettorali più efficaci ed incisive. Ben sapendo che se il voto potrà essere utile per indebolire le oligarchie dominanti, solo con la sollevazione popolare sarà possibile batterle ed aprire un’altra storia.