L’arma assassina preferita da Obama

Il drone è l’arma assassina preferita da Obama. Viene sistematicamente usato ormai in un numero impressionante di paesi, che subiscono così un’aggressione quotidiana ben oscurata dai media. Un modo meno appariscente, usato dalla Casa Bianca, per proseguire la guerra globale scatenata da Bush. Ecco un tema che «democratici» e pacifinti nostrani generalmente rimuovono. Ed è anche grazie a questa rimozione che il killeraggio dei droni è in gran parte sconosciuto agli stessi aderenti alla sinistra occidentale.

Ma quali sono i dispositivi, i centri decisionali, gli organismi che presiedono all’uso di questo moderno killer imperiale? Su questo tema pubblichiamo un lungo ma interessante articolo di Michael Hastings

L’avvento dei droni assassini: la guerra segreta dell’America

Uno sguardo ravvicinato a come le uccisioni telecomandate hanno cambiato il nostro modo di combattere
di Michael Hastings (da Rolling Stone)

Un giorno alla fine di novembre [2011] un velivolo senza pilota è decollato dalla base aerea di Shindand, in Afghanistan, a circa 120 chilometri dal confine con l’Iran. La missione del drone: spiare il programma nucleare iraniano, insieme a qualsiasi attività insurrezionale gli iraniani potessero appoggiare in Afghanistan. Con un costo alla consegna stimato sui 6 milioni di dollari, quel drone era il risultato di più di 15 anni di ricerca e sviluppo, a cominciare dall’enigmatico progetto di nome DarkStar supervisionato dalla Lockheed Martin. La prima prova di volo di DarkStar ebbe luogo nel 1996, ma in seguito a uno schianto e ad altri incidenti la Lockheeed aveva annunciato la cancellazione del programma. Secondo gli esperti militari, quella fu solo una comoda scusante per “sparire dal radar” [going dark], nel senso che ulteriori sviluppi del progetto DarkStar si sarebbero svolti sotto un velo di segretezza.

Il drone che si stava dirigendo verso l’Iran, l’RQ-170 Sentinel, sembra una versione in miniatura del famoso caccia invisibile, l’F-117 Nighthawk: slanciato, color sabbia e vagamente inquietante, con un occhio tondeggiante al posto della carlinga. Con un’apertura alare di 20 metri, ha la capacità di volare invisibile ai radar. Invece di gridare ai quattro venti la sua posizione con un segnale costante di segnali radio – l’equivalente elettronico di una scia di fumo – comunica con la base in modo intermittente, rendendosi virtualmente impossibile da individuare. Una volta raggiunta la sua destinazione, 225 chilometri dentro lo spazio aereo iraniano, si è potuto librare silenziosamente e ad ampio raggio per ore, fino a un’altitudine di 15.000 metri, fornendo un flusso ininterrotto di immagini di ricognizione – un’impresa al di là delle capacità di qualsiasi pilota umano.

Poco dopo il decollo – una manovra gestita da operatori a terra in Afghanistan – l’RQ-170 passava a una funzione semiautomatica, seguendo una rotta preprogrammata sotto la guida di piloti seduti davanti a schermi di computer situati a circa 12.000 chilometri di distanza, nella base aerea di Creech nel Nevada. Ma prima che la missione fosse completata, qualcosa è andata storta. Uno dei tre flussi di dati del drone si è corrotto, e ha cominciato a inviare alla base informazioni imprecise. Poi il segnale si è interrotto, e la base di Creech ha perso ogni contatto con il drone.

A tutt’oggi, perfino dopo un’investigazione di 10 settimane da parte di funzionari statunitensi, non è chiaro cosa sia avvenuto esattamente. Gli iraniani sono davvero riusciti, come avrebbero dichiarato in seguito, ad hackerare il drone e ad abbatterlo? In questo caso, hanno condotto un attacco di tipo sofisticato – penetrando il cervello criptato del drone e facendolo atterrare – o un assalto più grossolano, bloccandone il segnale e facendolo schiantare? O erano stati gli operatori di Creech a fare un errore, causando un’anomalia che aveva condotto il velivolo a terra? “Quando succede un casino tecnico, la gente va nel panico e cerca di rimediare, facendo cose che non avrebbe dovuto fare,” dice Ty Rogoway, un esperto di droni che dirige un sito tecnico di nome Aviation Intel. “La cosa mi puzzava fin dal primo giorno.”

Quello che sappiamo è che il governo ha mentito su chi fosse responsabile del drone. Poco dopo lo schianto del 29 novembre il comando militare (a guida USA) di Kabul rilasciò un comunicato stampa che parlava della perdita di “un velivolo di ricognizione senza pilota in missione di volo sopra l’Afghanistan occidentale.” Ma il drone non era sotto comando militare – era controllato dalla CIA, come in seguito l’agenzia è stata costretta ad ammettere.

Dieci giorni dopo lo schianto, il drone scomparso riapparve all’interno di un grande ginnasio di Teheran. L’esercito iraniano esibiva il velivolo come un trofeo di caccia; sotto il drone pendeva una bandiera americana con teschi al posto delle stelle. Il drone sembrava pressoché intatto, come se fosse atterrato su una pista. Gli iraniani dichiararono che simili voli di sorveglianza rappresentavano un “atto di guerra”, e minacciarono di compiere rappresaglie attaccando le basi militari USA. Il Presidente Obama intimò agli iraniani di restituire il drone, ma ormai il danno era fatto. “Era come se qualcuno della Apple avesse dimenticato in un bar il prototipo del prossimo iPhone,” dice Peter Singer specialista della difesa al Brookings Institute e autore di Wired for War: The Robotics Revolution and Conflict in the 21st Century. “Per l’Iran è stata una vittoria propagandistica.”

L’incidente evidenzia anche il ruolo, sempre più centrale, che i droni rivestono nella politica estera americana. Durante l’invasione dell’Iraq del 2003, l’esercito condusse soltanto una manciata di missioni senza pilota. Oggi il Pentagono può schierare una flotta di 19.000 droni, e affida loro missioni segrete che un tempo erano esclusiva delle Forze Speciali o di operativi sotto copertura. Droni americani sono stati inviati a spiare o uccidere bersagli in Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Siria, Somalia e Libia. Ci sono droni che pattugliano abitualmente il confine col Messico, e droni che hanno fornito sorveglianza aerea sulla residenza di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan. Nei suoi primi tre anni, Obama ha autorizzato 268 missioni riservate senza pilota, il quintuplo di quelle ordinate da George W. Bush in otto anni di mandato. In tutto, i droni sono stati utilizzati per uccidere più di 3000 individui (indicati come terroristi), inclusi almeno quattro cittadini statunitensi. Nel far ciò, secondo le organizzazioni per i diritti umani, hanno anche causato la morte di più di 800 civili. Il programma droni di Obama, infatti, comporta la più grande offensiva aerea (senza piloti) mai condotta nella storia militare; mai così pochi hanno ucciso così tanti con un sistema teleguidato.

L’utilizzo dei droni sta rapidamente trasformando il nostro modo di condurre la guerra. Sul campo di battaglia un capo plotone può ricevere dati in tempo reale da un drone che gli permettono di avere una visione della zona per miglia in tutte le direzioni, aumentando le capacità d’azione di quella che normalmente sarebbe stata un’unità piccola e isolata. “È un’informazione sul campo resa democratica,” dice Daniel Goure, un esperto di sicurezza nazionale che ha lavorato al Ministero della Difesa durante entrambe le amministrazioni Bush. “È l’equivalente di Twitter nel campo della ricognizione.” I droni hanno anche cambiato il volto della CIA, trasformando un’agenzia civile di raccolta di informazioni in un’organizzazione paramilitare a tutti gli effetti – un’organizzazione che colleziona lo stesso numero di scalpi di qualsiasi altro corpo dell’esercito.

Ma quello che i droni implicano va al di là di una singola unità da combattimento o agenzia civile. In un quadro più ampio, la natura telecomandata delle missioni senza pilota permette ai politici di compiere atti di guerra e allo stesso tempo sostenere che non siamo in guerra – come stanno facendo attualmente gli Stati Uniti in Pakistan. In aggiunta, il Pentagono e la CIA ora possono lanciare attacchi militari o ordinare assassinî politici senza nemmeno un solo uomo sul campo – e senza doversi preoccupare di reazioni avverse del pubblico riguardo ai soldati che tornano nelle buste di plastica. L’uso immediato e la segretezza dei droni rende più facile che mai per i leader politici scatenare la potenza militare dell’America – e più arduo che mai valutare le conseguenze di questi attacchi clandestini.

“I droni sono diventati l’arma antiterrorismo di elezione per l’amministrazione Obama,” dice Rosa Brooks, una docente di Legge di Georgetown che ha collaborato all’istituzione di un nuovo ufficio del Pentagono dedicato alle politiche legali e umanitarie. “Quello che credo non si sia fatto abbastanza è fare un bel passo indietro e domandarsi: ‘Non staremo creando più terroristi di quanti ne uccidiamo? Non staremo promuovendo militarismo ed estremismo, proprio nei luoghi dove li stiamo attaccando?’ Molto di quel che riguarda le azioni coi droni è avvolto nella segretezza. È molto difficile valutare dall’esterno quanto siano davvero pericolose le persone prese di mira.”

L’idea di una ricognizione militare con mezzi aerei risale alla Guerra Civile, quando sia l’Unione sia la Confederazione usavano palloni ad aria calda per spiare gli avversari, rilevare movimenti di truppe e dirigere il tiro dell’artiglieria. Nel 1898, durante la Guerra Ispano-Americana, l’esercito statunitense attrezzò un aquilone con una macchina fotografica, realizzando le prime foto di ricognizione aerea. Quando, con la I Guerra Mondiale, gli aeroplani si unirono all’arsenale bellico, seguirono un percorso analogo a quello dei droni – una tecnologia viene prima impiegata per scopi di sorveglianza, poi come mezzo per uccidere il nemico.

Durante la II Guerra Mondiale gli scienziati nazisti condussero esperimenti coi missili radiocomandati per i bombardamenti sull’Inghilterra – creando, essenzialmente, i primi droni kamikaze. Ma fu soltanto alla fine degli anni 50, quando l’America e la Russia erano in corsa per la conquista dello spazio, che gli scienziati si fecero un’idea di come far volare qualcosa senza nessuno a bordo: lanciare satelliti, ad esempio, o telecomandando le traiettorie di missili e razzi. Ci furono anche significativi progressi tecnologici che resero fattibile la fabbricazione di droni. “Costruivamo motori e sistemi di guida sempre più piccoli, e miglioravamo la nostra capacità di comunicazione ed elaborazione dati,” riferisce Goure.

Il primo uso di un moderno drone venne con la Guerra del Vietnam, quando il Pentagono sperimentò velivoli senza equipaggio per quella che l’esercito chiamò ISR: intelligence, sorveglianza e ricognizione. “Il Vietnam fu decisivo per lo sviluppo dei droni come strumento ideale per lo svolgimento di missioni pericolose senza il rischio di perdere il pilota,” dice lo storico dell’aviazione David Cenciotti. Entro la fine della guerra, le missioni di ricognizione dei droni erano arrivate a 3.500. L’aviazione aveva anche sviluppato due droni da attacco – il BGM-34A e il BGM-34B – ma non li utilizzò mai sul campo: i sensori non avevano ancora la capacità di identificare e colpire gli obbiettivi mimetizzati con la precisione necessaria.

Negli anni successivi al Vietnam, molti dei progressi tecnologici relativi ai droni vennero compiuti da Israele, che li ha utilizzati per sorvegliare la Striscia di Gaza e per compiere uccisioni mirate. Durante gli anni 80 l’aviazione israeliana vendette al Pentagono molti dei suoi modelli, incluso un drone chiamato Pioneer. Il Pioneer, che poteva essere lanciato sia da una nave sia da una base militare, aveva un’autonomia di volo di 185 chilometri. Gli americani lo misero prontamente all’opera durante la I Guerra del Golfo: in uno dei momenti più assurdi del conflitto, un gruppo di soldati iracheni si arrese a un Pioneer, agitando lenzuola e magliette bianche verso il drone che gli volava sopra in circolo. Alla fine le missioni del Pioneeer nel Golfo Persico furono più di 300, e sarebbe stato impiegato più tardi nel tentativo di stabilizzazione di Haiti e nei Balcani degli anni 90.

 

Arrivati al 2000, il Pentagono ormai premeva per una massiccia espansione del programma droni, nella speranza che entro il 2012 almeno un terzo dell’aviazione USA sarebbe stata senza pilota. Ma è stata la Guerra al Terrorismo che ha infine permesso all’esercito di utilizzare i droni come vere e proprie armi, rendendoli capaci di colpire bersagli selezionati. Il primo grande successo dei droni killer fu la missione di un Predator contro un convoglio nel 2002, in cui fu ucciso il leader di Al Qaeda nello Yemen. Arrivati al 2006, il Pentagono ha elevato i propri obbiettivi, puntando alla trasformazione in droni del 45% dei suoi velivoli da incursione. “Prima dei droni se volevi inseguire i terroristi dovevi mandare i soldati,” dice Goure. “Mandavi la Marina, mandavi i Marine, come fece Reagan contro Gheddafi negli anni 80. Bombardavi i loro accampamenti. Adesso abbiamo i droni, che possono essere telecomandati dall’esercito o dalla CIA da una distanza di migliaia di chilometri.”

Il basso costo e l’efficacia letale dei droni – la morte per telecomando – ne hanno fatto uno strumento imprescindibile per le maggiori potenze militari, così come per qualunque dittatore da operetta. Il mercato globale per i velivoli senza pilota è oggi di 6 miliardi di dollari all’anno, con più di 50 paesi a fare da acquirenti. Nell’ultimo decennio i militari hanno sperimentato una vasta serie di velivoli senza pilota – dai micro-droni che funzionano con minuscole batterie a quelli con un’apertura alare di 30 metri [1], a carburante o energia solare. I droni utilizzati in Iraq e in Afghanistan – il Predator e il Reaper – sembrano modellini insolitamente grossi, e costano 13 milioni di dollari cadauno. Un drone delle dimensioni di un 727, il Global Hawk, è stato usato dopo lo tsunami in Giappone e il terremoto ad Haiti, per fornire alle operazioni di soccorso uno sguardo dal cielo delle zone colpite. Uno dei droni più grandi attualmente in fase di sviluppo è il SolarEagle, progettato dalla Boeing e dal DARPA, la sezione di ricerca sperimentale del Ministero della Difesa. Con un’apertura alare di più di 120 metri, il SolarEagle sarà in grado di restare in volo per cinque anni di seguito, avviandosi a rimpiazzare i satelliti spia, molto costosi da mettere in orbita.

All’inizio molti piloti erano contrari all’incremento nell’uso dei droni, considerandoli niente di più di surrogati robotici dei piloti da caccia altamente addestrati. “È in corso un violento conflitto culturale,” dice Doug Davis, direttore del programma Global Unmanned Aircraft Systems Strategic Initiative [Iniziativa Strategica per i Sistemi Globali di Aviazione senza Equipaggio] presso la New Mexico State University, l’unico sito civile della nazione per il collaudo dei droni. “A nessuno fa piacere il pensiero di essere gradualmente sostituito nel proprio lavoro.” Le tensioni si erano solo acuite quando l’aviazione aveva selezionato gli operatori ai droni su base “non volontaria”, strappandoli da una carlinga e sbattendoli in una sala controllo contro la loro volontà. Oggi, dato l’alto profilo e le prospettive future dell’uso dei droni, i piloti fanno la fila per diventarne operatori, offrendosi volontari per un addestramento intensivo, che include missioni simulate, della durata di un anno. “C’è un maggior entusiasmo per questo lavoro,” dice il Tenente Generale David Deptula, un pilota da caccia che ha diretto il programma droni dell’aeronautica militare fino al 2010. “Molti piloti sono entusiasti di guidare questi affari.”

Per una nuova generazione di giovani pistoleri l’esperienza di pilotare un drone non è molto diversa dai videogame con cui sono cresciuti. A differenza dei piloti tradizionali, che lanciano fisicamente il loro carico di bombe sull’obbiettivo, l’operatore di un drone uccide col tocco di un pulsante, senza nemmeno lasciare la sua base – una differenza che serve solo a desensibilizzare ulteriormente riguardo l’uccisione di esseri umani. (Il gergo militare definisce un uomo ucciso da un drone come “bug splat” [spiaccicamento di insetto], dato che guardarne il corpo tramite le immagini verdi e sgranate di un video dà proprio l’impressione di un insetto schiacciato.) Come racconta il pilota Tenente Colonnello Matt Martin nel suo libro Predator, guidare un drone è “quasi come giocare con il computer game Civilization” – qualcosa che viene direttamente da “un romanzo di fantascienza.” Dopo una missione, nel corso della quale aveva guidato un drone contro una scuola professionale occupata da ribelli iracheni, Martin si era sentito “elettrizzato” e “pieno di adrenalina”, esultando perché “avevamo riempito il college di buchi, distruggendone una gran parte e uccidendo Dio solo sa quanta gente.”

Solo più tardi la realtà di ciò che aveva fatto si era fatta strada dentro di lui. “Dovevo ancora rendermi conto di quell’orrore,” rievoca Martin.

Sia il Pentagono sia la CIA amano vantarsi delle azioni teleguidate che hanno eliminato nemici combattenti nel corso della Guerra al Terrorismo. L’RQ-170 Sentinel è stato impiegato nel raid che ha eliminato bin Laden, e i funzionari statunitensi sono fieri di aver eliminato, non molti mesi fa, altri due operativi di Al Qaeda in Pakistan. Il Presidente Obama ha di recente respinto le preoccupazioni circa le vittime civili, e ha insistito di non stare ordinando “un mucchio di azioni a casaccio.”

Ma per ogni obbiettivo di “alto valore” ucciso dai droni, c’è un civile o un’altra vittima innocente che ne paga il prezzo. Il primo grande successo ottenuto dai droni – l’attacco del 2002 che eliminò il leader di Al Qaeda nello Yemen – comportò anche la morte di cittadini statunitensi. Più di recente, nel 2010, un drone delle forze armate statunitensi in Afghanistan ha colpito l’individuo sbagliato – uccidendo un rinomato attivista per i diritti umani di nome Zabet Amanullah, che in realtà era a favore del governo sostenuto dagli USA. È venuto fuori che l’esercito aveva tenuto sotto controllo per mesi il cellulare sbagliato, confondendo Amanullah con un leader Talebano. L’anno prima un drone uccise Baitullah Mehsud, il capo dei Talebani pachistani, mentre era in visita presso il suocero; con lui venne vaporizzata anche la moglie. Ma gli USA avevano già cercato per quattro volte di uccidere Mehsud per mezzo dei droni, uccidendo nei tentativi falliti dozzine di civili. Uno degli attacchi falliti, secondo un’organizzazione dei diritti umani, uccise 35 persone, inclusi nove civili, e si parla anche di un bambino di otto anni ucciso nel sonno da schegge vaganti. Un altro di questi attacchi andati a vuoto, nel giugno del 2009, fece fuori 45 civili, secondo affidabili fonti giornalistiche.

In effetti, entrando in carica Obama ha ereditato due distinti programmi per l’uso dei droni – e dopo le insistenze del Vice Presidente Joe Biden, che ha premuto parecchio per una maggior attenzione alle tattiche antiterroristiche, li ha ampliati entrambi radicalmente. Il primo programma, che rientra nel campo d’azione del Pentagono, si concentra soprattutto sulla ricognizione e sugli attacchi aerei che proteggono le truppe sul terreno. “Il successo più grande dei droni è quello di mantenere vivi i soldati americani,” dice Goure. Il programma del Pentagono, che si sviluppa più o meno in maniera non riservata, è localizzato in più di una dozzina di centri in tutto il mondo, dal Nevada all’Iraq. In un ampio hangar della base aerea di Al Udeid (nel Qatar), tre avvocati militari coprono a turno le ventiquattr’ore, pronti a sottoscrivere le autorizzazioni alle missioni dei droni. Questi avvocati, che sono obbligati a seguire un corso sul rispetto della Convenzione di Ginevra, seguono procedure operative standard simili a quelle utilizzate nel decidere un attacco aereo tradizionale. “C’è una serie di controlli legali incrociati che l’aviazione fa ogni volta,” dice Pratap Chatterje, un giornalista investigativo che fa parte del consiglio direttivo di Amnesty International [USA]. “È un segreto di Pulcinella – il manuale è online.”

Una video-presentazione del processo di acquisizione dei bersagli illustrati da Chatterje ci offre la possibilità di osservare l’apparato decisionale dell’esercito. Il materiale filmato, proveniente da un attacco senza pilota svoltosi in Afghanistan e utilizzato per un’analisi tattica a posteriori, mostra due uomini che istallano e fanno fuoco con un mortaio contro una base militare statunitense. Un “pacchetto bersaglio” – informazioni raccolte in fretta e furia dai soldati statunitensi – identifica gli uomini come insorti, e fornisce particolari sulla posizione dell’obbiettivo e sulla vicinanza di aree abitate da civili. Quando gli insorti si allontanano dalla base, il drone li segue finché il comando militare che osserva le immagini in tempo reale decide che hanno raggiunto una zona in cui i danni collaterali saranno limitati. Quindi il drone lancia un missile a guida laser Hellfire AGM-114, di circa 45 chili di peso. “Così si distrugge il veicolo senza creare un cratere,” si sente spiegare nel video il Colonnello James Bitzes. “È molto, molto preciso.” L’intera operazione, dall’identificazione degli insorti al lancio del missile, è questione di minuti.

Il programma droni della CIA, al contrario, è stato sviluppato in segreto. Gli avvocati dell’agenzia devono controfirmare gli attacchi, ma la procedura rimane classificata, e la supervisione è assai meno restrittiva di quella attuata in campo militare. A rendere le cose ancora più torbide, la CIA effettua i suoi attacchi coi droni in zone dove ufficialmente gli USA non sono in guerra, inclusi Yemen, Somalia e Pakistan. “Se ci si trova in Afghanistan sarà l’aviazione a decidere l’attacco,” dice un ex funzionario della CIA addentro al programma droni. “Se invece ci si trova in pieno territorio pachistano, la faccenda viene affidata alla CIA.”

Secondo John Rizzo, che ha lavorato per la CIA come capo consulente per sei anni, la procedura di approvazione degli attacchi di droni richiedeva che lui e altri 10 altri avvocati dell’agenzia “assassinassero” delle persone dal centro antiterrorismo della CIA a Langley, in Virginia. La maggior parte di questi avvocati sta alla porta accanto del direttore della CIA, al settimo piano – il “piano del potere”, come lo chiamano nell’agenzia – oppure è incorporata in altri servizi, inclusi quelli designati come “clandestini” e “in zone sensibili” [2]. Quando l’agenzia vuole lanciare un attacco di droni, spiega Rizzo in un’intervista su Newsweek, chiede a un avvocato di fornire copertura legale per l’uccisione, sottoscrivendo un dossier di cinque pagine che espone le motivazioni dell’attacco. Il documento di solito contiene una lista di 30 persone da uccidere. Di tanto in tanto le richieste vengono respinte per un’insufficienza di informazioni. Il più delle volte Rizzo approvava l’uccisione, aggiungendo l’espressione “si concorda” dopo la frase “Si richiede dunque l’approvazione di acquisizione bersagli per un’operazione di carattere letale.” Nei suoi sei anni come capo consulente, riferisce Rizzo, ha sottoscritto all’incirca una lista di uccisioni al mese.

Gli attacchi senza equipaggio contro obbiettivi di alto profilo – chiamati “personality strike” – di solito necessitano dell’approvazione di un avvocato come Rizzo, del capo della CIA e qualche volta del Presidente in persona. Ma l’uso più comune che la CIA fa dei droni – in quelli che chiama “signature strike” [3] – riguardano attacchi a gruppi di supposti militanti che si comportano in un modo che appare sospetto. Questo tipo di attacchi si afferma siano l’idea di un veterano della CIA che ha guidato il suo programma droni negli ultimi sei anni, un convertito all’Islam che fuma come un turco e porta il nome in codice di “Roger”. In un suo recente profilo, il Washington Post ha chiamato Roger “il principale ideatore della campagna droni della CIA.” Quando si tratta di signature strike, dicono gli addetti ai lavori, la decisione di lanciare un attacco coi droni è essenzialmente una questione di probabilità: se l’agenzia ritiene verosimile che un certo gruppo o un individuo siano degli insorti, deciderà di colpire. “La CIA conduce sempre più operazioni basandosi sulle percentuali probabilistiche,” dice un ex funzionario addentro al programma droni dell’agenzia.
Ma per paesi come il Pakistan ciò che l’America considera un attacco legittimo contro dei terroristi è da considerarsi poco meno che la versione militarizzata di un omicidio. “Dal punto di vista della legge pachistana quelli commessi da noi sono probabilmente omicidi,” dice l’ex funzionario della CIA. “Le nostre operazioni di spionaggio sono quotidiane, e violiamo le leggi di altri paesi.” Per difendere se stessa nel caso delle operazioni più controverse, la CIA è diventata molto abile nell’uso degli avvocati per coprire le proprie tracce. “Se può aiutarli, usano la carta,” dice l’ex funzionario. “Oppure fanno una chiamata su un telefono sicuro. O capitano per caso in un ascensore con un avvocato e gli chiedono un consiglio, del tipo ‘non c’è nulla che mi impedisca di distruggere certi nastri, vero?’”

Dal momento in cui Obama è entrato in carica, a parere degli addetti ai lavori, il nuovo comandante in capo ha dimostrato un vero e proprio “amore” per i droni. “Il programma dei droni è un soggetto a cui l’esecutivo riserva una grande attenzione,” dice Ken Gude, vice presidente del Center for American Progress. “Questi sistemi d’arma sono diventati essenziali per Obama.” Nei primi giorni della nuova amministrazione l’allora capo dello staff Rahm Emanuel arrivava alla Casa Bianca con una domanda di routine: “Chi abbiamo beccato oggi?”

Per Obama – un uomo noto per meticolosità e moderazione – i droni rappresentano un sistema maggiormente mirato di condurre operazioni belliche; un sistema con la potenzialità di eliminare i colpevoli di terrorismo e di limitare le vittime statunitensi. “Il numero di personale USA a rischio è minore,” dice Brooks, il docente di legge che ha consigliato il Pentagono. “La tecnologia rende logiche le scelte che riducano i costi dell’uso di forza letale.” Un alto funzionario che conosce da vicino il programma dei droni riferisce che gli attacchi teleguidati sono particolarmente fruttuosi in Pakistan, dove la presenza di truppe statunitensi incontra una feroce opposizione. “Possiamo lanciare attacchi coi droni senza nessun aiuto da parte pachistana,” dice il funzionario, sottolineando che tali missioni non comportano alcun “costo politico” all’interno degli Stati Uniti.

Nel corso dell’anno passato, tuttavia, il crescente affidamento prestato dal presidente ai droni ha provocato sempre più dissidi all’interno dell’amministrazione. Secondo fonti dell’ambasciata statunitense in Pakistan, l’ambasciatore Cameron Munter si è infuriato per le missioni condotte dalla CIA senza consultarlo riguardo le potenziali ricadute diplomatiche. Gli attacchi hanno conosciuto una breve sosta nel gennaio del 2011, dopo che Raymond Davis, un contractor della CIA, è stato arrestato per aver ucciso due pachistani in pieno giorno; il giorno successivo Davis è stato rilasciato, e gli attacchi della CIA sono ricominciati. Munter, secondo alcuni funzionari statunitensi, si è lamentato del programma droni col Segretario di Stato Hillary Clinton e altri alti funzionari dell’esercito, e le sue preoccupazioni sono giunte fino alla Casa Bianca. La pietra dello scandalo è stata un attacco teleguidato particolarmente cruento avvenuto nel marzo del 2011, che secondo gli americani ha ucciso 21 insorti, secondo i pachistani 42 civili.

Alla Casa Bianca questa crisi ha scatenato una piccola baruffa tra gli addetti alla sicurezza nazionale del presidente e la CIA. La scorsa primavera, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Tom Donilon ordinò un riesame del programma droni – non per bloccarlo, ma per concepire un modo di utilizzare i droni che acquietasse le preoccupazioni di Munter e di altri diplomatici. La prospettiva di qualsiasi ulteriore supervisione, per quanto modesta, mise in allarme la CIA. Secondo funzionari dell’amministrazione, alla prima notizia di un possibile riesame l’agenzia ha letteralmente dato i numeri. “Un uomo della CIA ha fatto a Donilon il discorso ‘voi mi volete su quel muro’,” riferisce un alto funzionario a conoscenza della conversazione, che richiama la scena di un film, Codice d’Onore, in cui un comandante dei Marine, interpretato da Jack Nicholson, sostiene di essere al di sopra della legge. Donilon cercò di sopire le paure della CIA. “No – sapete bene che non è così,” disse, secondo una fonte della Casa Bianca testimone dello scambio di battute. “Siamo tutti dalla stessa parte, qui, cerchiamo di rendere sicuro il paese.”

Al centro della discussione si trovò il nuovo capo della CIA designato da Obama, il Generale David Petraeus. Petraeus si schierò con la Casa Bianca, riconoscendo il bisogno di trovare un equilibrio tra il mantenimento di un legame forte con il Pakistan e una strategia militare aggressiva che includesse gli attacchi coi droni. “Petraeus vuol essere più cauto,” dice un funzionario coinvolto nel programma droni. I veterani dell’Agenzia contrattaccarono, lamentandosi col New York Times che con Petraeus il programma droni si era praticamente bloccato. Molto di quel rallentamento, difatti, era dovuto a necessità politiche: un attacco NATO che aveva ucciso 24 soldati pachistani nel novembre del 2011 aveva costretto la CIA a sospendere momentaneamente gli attacchi coi droni. Ma la campagna mediatica sembrò andare in porto: due giorni dopo l’articolo sul Times, gli attacchi di droni in Pakistan ricominciarono.

In un quadro più ampio, tuttavia, alla fine la CIA ha perso la sua battaglia sui droni. Dopo che Donilon ha completato il riesame da parte della Casa Bianca, all’ambasciatore Munter e al Dipartimento di Stato è stata garantita più voce in capitolo per quel che riguarda tempi e obbiettivi degli attacchi di droni.

Malgrado l’iniziativa intendesse promuovere una maggiore supervisione civile sugli attacchi clandestini, essa ha contrariato fortemente i difensori dei diritti umani, che hanno stigmatizzato la Casa Bianca per aver messo un ambasciatore nella posizione di autorizzare sentenze di morte extra-legali in paesi stranieri. “È incredibile che si sia dato potere decisionale su una campagna di uccisioni a un civile del corpo diplomatico,” ha detto Clifford Stafford Smith, direttore esecutivo di Reprieve, un’organizzazione per i diritti umani che sta conducendo un’azione legale contro l’uso dei droni [4]. “Ve le immaginate le reazioni se fosse l’ambasciatore pakistano a Washington a supervisionare l’uccisione mirata di cittadini americani?”

Resta incerto quale sia il ruolo svolto dalla Casa Bianca nella scelta dei nomi che finiscono sulla lista dei bersagli. Alcuni funzionari hanno parlato di una commissione segreta all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale [NSC] che terrebbe una lista dei bersagli da eliminare o catturare. La commissione, di cui nessun documento ufficiale autorizza l’esistenza, si dice coinvolga uno dei massimi consulenti antiterrorismo, John Brennan, che è stato uno dei più accaniti difensori della decisione dell’amministrazione Bush di torturare i prigionieri di Guantanamo. Altri funzionari che hanno familiarità con la procedura di selezione dei bersagli affermano che l’idea di una commissione segreta sia una vera esagerazione. L’NSC, insistono, nella maggior parte degli attacchi di droni non è affatto coinvolto, certo non su base quotidiana – specialmente riguardo i “signature strike” effettuati dalla CIA. Questo vuol dire che la CIA possiede ancora una notevole autonomia nel programmare la propria lista di uccisioni, con una supervisione limitata da parte della Casa Bianca. Così la mette un ex funzionario della CIA: “L’NSC decide quando il presidente debba essere coinvolto – e quali impronte digitali lasciare, sempre che se ne lascino.”

Quest’uomo di 72 anni, che ha trascorso da borsista straniero 11 anni tra New Mexico e Minnesota, stava aspettando la notizia della morte di suo figlio. Dopotutto, nei due anni precedenti gli era già stata comunicata erroneamente varie volte. Perciò Nasser al-Awlaki non poté dichiararsi sorpreso, quel venerdì pomeriggio, quando una nota d’agenzia confermò che le sue peggiori paure si erano concretizzate: suo figlio Anwar al-Awlaki, cittadino statunitense e sospetto membro di Al Qaeda, era stato ucciso il 30 settembre del 2011 – il primo americano a essere bersaglio di un attacco di droni.

Nei giorni successivi all’uccisione, Nasser e sua moglie ricevettero numerose chiamate dal figlio sedicenne di Anwar, Abdulrahman al-Awlaki, che era fuggito di casa qualche settimana prima per andare a trovare il suo ormai defunto padre in Yemen. “Ci ha chiamati e ci ha fatto le sue condoglianze,” ricorda Nasser. “Gli dicemmo di tornare a casa, e lui promise che l’avrebbe fatto. Io e sua nonna insistemmo parecchio.”

Ma quell’adolescente non è più tornato. Due settimane dopo quell’ultima conversazione i suoi nonni ricevettero un’altra telefonata, questa volta da un altro parente. Abdulrahman era stato ucciso durante l’attacco di un drone nel sud dello Yemen, patria tribale della sua famiglia. Il ragazzo, di cui non si conoscono affiliazioni né ad Al Qaueda né ad altre organizzazioni terroristiche, sembrerebbe essere un’altra vittima della guerra dei droni di Obama: Abdulrahman era insieme a un cugino quando un drone ha annientato lui e altre sette persone. Il sospetto obbiettivo dell’azione – un membro di Al Qaeda nella Penisola Arabica – sembra sia ancora vivo; non è chiaro nemmeno se fosse sul posto al momento dell’attacco.

La notizia ha lasciato la famiglia devastata. “Mia moglie piange ogni giorno, piange continuamente per il nipote,” dice Nasser, un ex membro di primo livello del governo yemenita. “Era un ragazzo dolce e gentile, che amava tanto nuotare. È un ragazzo che non ha mai fatto nulla contro l’America o chiunque altro. Un ragazzo. Un cittadino degli Stati Uniti. E non ci può essere nessuna ragione di ucciderlo, se non perché era figlio di Anwar.”

Anwar al-Awlaki era nato nel 1971 a Las Cruces, nel New Mexico, dove Nasser stava studiando per una laurea in economia agraria presso la New Mexico State University. Da adulto aveva vissuto in Colorado e in Virginia, diventando imam del centro islamico di Falls Church. Dopo l’11 settembre cominciò a diffondere il peggior tipo di retorica jihadista, arrivando molto vicino a invocare un attacco armato contro l’occidente. Si diceva che almeno uno degli attentatori dell’11 settembre avesse visitato la sua moschea. Aveva lasciato definitivamente gli USA, racconta il padre, perché era stato “interrogato parecchie volte” dall’FBI circa i suoi rapporti con gruppi terroristici.

Una volta nello Yemen, Anwar realizzò una serie di video propagandistici per Al Qaeda, ampiamente diffusi su YouTube. Secondo le autorità statunitensi era anche in contatto diretto con due individui responsabili di atti di terrorismo, cioè Nidal Hasan, l’ufficiale USA accusato di aver ucciso 13 persone e ferito altre 32 a Fort Hood nel 2009, e Umar Farouk Abdulmuttallab, il cosiddetto Mutanda-Bomber [5]. Dopo due anni di caccia all’uomo, la CIA rintracciò Anwar è lanciò un attacco di droni che uccise lui e un altro cittadino americano, Samir Khan, insieme ad altre due persone. Il giorno in cui al-Awlaki venne ucciso, il Presidente Obama salutò la sua morte come un’altra vittoria nella lotta contro il terrorismo, definendolo un “grosso colpo” e un “traguardo significativo.”

Il figlio di Anwar, nato a Denver, era anche lui cresciuto in America. (Dopo la sua morte, funzionari USA ne descrissero l’età tra i 20 e i 21, finché la famiglia non ottenne il certificato di nascita da un ospedale del Colorado.) Aveva lasciato gli Stati Uniti insieme al padre all’età di sette anni, e vissuto coi nonni a Sana’a, capitale dello Yemen. Come altri nella parte meridionale del paese, viveva nel terrore provocato dal costante rumoroso sorvolo dei droni. “Tutte le notti, senza sosta,” riferisce il nonno di Anwar. “Fanno un rumore incredibile, e la gente ne soffre.”

Secondo resoconti giornalistici, Nasser aveva sospettato per più di un anno che suo figlio fosse stato incluso in una lista di obbiettivi da eliminare da parte dell’amministrazione Obama. Quello che rendeva il caso di Anwar al-Awlaki unico era il fatto che fosse ancora un cittadino americano – una condizione che creava un dilemma sia etico sia legale agli avvocati della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. I legali dell’amministrazione – molti dei quali erano stati critici accesi della politica antiterrorismo di George W. Bush – impiegarono mesi per tirar fuori una giustificazione per l’uccisione di un cittadino statunitense. Nell’estate del 2010 due avvocati del Dipartimento di Giustizia – Marty Lederman e David Barron – avevano redatto un memoriale riservato, del quale alcune parti selezionate furono passate al Times. Un americano, argomentavano, poteva divenire oggetto di uccisione mirata se rientrava in certi parametri che l’amministrazione si rifiutava di rivelare. Il maggior consigliere legale del Dipartimento di Stato, Harold Koh, difese anch’egli la politica delle uccisioni mirate. “È ponderata opinione dell’amministrazione,” dichiarò in un discorso del 2010, “che l’acquisizione di obbiettivi, incluse le operazioni letali condotte da veicoli senza pilota, si conformi alle leggi vigenti, incluse quelle applicabili al tempo di guerra.”

L’ironia del fatto che Koh – un ex preside della Yale Law School che aveva trascorso anni a criticare aspramente George W. Bush perché violava il diritto internazionale con la sua politica di torture e di “catture speciali” [extraordinary rendition] [6] – adesso rivendicasse il diritto della sua amministrazione di assassinare un cittadino americano, non sfuggì né ai suoi amici né ai suoi avversari. “Molti di quelli che come Harold Koh e Marty Lederman criticavano Bush, e che adesso dovrebbero criticare le uccisioni mirate, sono entrati nell’amministrazione Obama,” dice Mary Ellen O’Connell, docente di legge alla Notre Dame, che conosce Koh da più di 25 anni. “Sono amici intimi dei membri dell’amministrazione – ed è difficile criticare gli amici.” Dice un altro avvocato che conosce bene Koh: “Koh si è rivelato come uno che mette la sua amicizia con Clinton e Obama al di sopra della legge. Per noi è stata una sorpresa.”

Rizzo, l’avvocato della CIA che sottoscrisse le tecniche di “interrogatorio rinforzato” di Bush, è ancora più brutale nello sfottere l’amministrazione Obama per la sua disonestà intellettuale sulla questione dei droni killer. “Tallonare e uccidere un terrorista di primo piano evidentemente pone meno problemi legali che catturarlo e interrogarlo aggressivamente,” ha scritto Rizzo in una pubblicazione della destrorsa Hoover Institution.

Per Nasser al-Awlaki, la notizia che il figlio fosse su una lista di uccisioni mirate era una questione di vita o di morte. Nell’agosto del 2010 l’American Civil Liberties Union intentò una causa a nome di Nasser per prevenire l’uccisione di suo figlio da parte del governo statunitense – la prima iniziativa legale mai intrapresa negli Stati Uniti contro il programma droni. La ACLU sosteneva che “una politica di uccisioni mirate sotto la cui gestione individui vengono aggiunti alle liste di obbiettivi dopo una procedura burocratica e restano in tali liste per svariati mesi, va platealmente contro il concetto dell’uso letale della forza come ultima risorsa contro minacce imminenti”. Questa politica va inoltre “al di là di ciò che permettono la Costituzione e il diritto internazionale,” sosteneva la ACLU.

Il caso Nasser al-Awlaki v. Barack Obama è stato dibattuto davanti al giudice distrettuale John Bates nel novembre del 2010. Le trascrizioni delle udienze sembrano la parodia kafkiana di un processo. Il rappresentante legale del governo, Douglas Letter, ha invocato ripetutamente il segreto di stato, affermando che “per quel che riguarda le affermazioni che esista una lista di eliminazioni eccetera, né confermiamo né neghiamo”. Egli osservava inoltre che Anwar non sarebbe più stato sotto minaccia di un “uso letale della forza” se si fosse costituito – un implicito non-riconoscimento che al-Awlaki fosse su una lista segreta di obbiettivi da eliminare. Jameel Jaffer, avvocato della ACLU, si oppose all’argomentazione dello stato, manifestando la preoccupazione che al presidente degli Stati Uniti venisse garantito il potere esclusivo e senza restrizioni di decidere “la questione se un americano possa o meno rientrare nella categoria delle persone passibili di assassinio mirato”. Nei momenti più surreali delle udienze, il giudice archiviò il caso, sentenziando che Nasser non aveva le basi legali per presentare un’istanza a nome del figlio fino a quando Anwar non venisse effettivamente ucciso.

L’amministrazione Obama ha ripetutamente rifiutato di rilasciare il memorandum segreto del Dipartimento di Giustizia che delinea la giustificazione legale per l’attacco contro al-Awlaki. Ma il 5 marzo, durante un discorso tenuto alla Northwestern University, il Procuratore Generale Eric Holder ruppe finalmente il silenzio ufficiale. L’uccisione mirata di un cittadino statunitense è legale, affermò, solo se quel cittadino non può essere catturato, costituisce un pericolo immediato di attacco contro gli USA, e ha le caratteristiche dell’obbiettivo legittimo secondo le leggi di guerra. “Quando tali individui prendono le armi contro questo paese e si uniscono ad Al Qaeda per cospirare allo scopo di uccidere i loro concittadini americani,” dichiarò Holden, “la risposta realistica e appropriata può essere solo una”.

Rigettando le critiche dei difensori delle libertà civili, Holder respinse l’idea che le clausole della Costituzione riguardanti il giusto processo richiedano al presidente l’autorizzazione di una corte federale per eliminare un cittadino statunitense. E usando sfacciatamente due pesi e due misure, insisteva che il Congresso aveva dato al presidente il via libera all’uso letale della forza con una risoluzione approvata una settimana dopo l’11 settembre che autorizzava l’uso di ogni mezzo necessario per prevenire futuri atti di terrorismo contro gli Stati Uniti – la medesima risoluzione che l’amministrazione Bush aveva utilizzato per giustificare la sua politica illegale di tortura ed extraordinary rendition.

Alla fin fine, sembrerebbe che l’amministrazione abbia ben poco da preoccuparsi di una reazione negativa all’uccisione di un cittadino americano – uno che non è nemmeno stato accusato di qualche crimine. Un recente sondaggio mostra che i Democratici sostengono quasi tutti il programma droni, e in febbraio il Congresso ha approvato una legge che richiede alla Federal Aviation Administration di “accelerare l’integrazione dei sistemi di guida senza pilota” nei cieli sopra l’America. I droni, che vengono già utilizzati per combattere gli incendi negli stati dell’Ovest e sorvegliano il confine col Messico, potrebbero essere presto usati per spiare in patria i cittadini statunitensi: le polizie di Miami e Houston li avrebbero già sperimentati per l’utilizzo sul territorio, e le loro controparti a New York sono anch’esse ansiose di dispiegarli. Date le recenti violazioni dei diritti civili da parte della polizia di New York, non è difficile immaginare i droni che ronzano sopra lo Zuccotti Park per sorvegliare la gente di Occupy Wall Street, o vengono utilizzati per sorvegliare non visti gli studenti musulmano-americani.

Molti di coloro che supervisionano il programma droni, infatti, sembrano non provare altro se non disprezzo nei confronti di chi si preoccupa dei potenziali pericoli che i droni rappresentano. A un seminario sui diritti umani tenutosi la scorsa estate alla Columbia University, John Radsan, ex avvocato della CIA, ha ammesso che l’agenzia non ha alcun interesse a discutere delle sottigliezze legali riguardo gli attacchi di droni. “La CIA ride di voi,” ha detto agli avvocati dei diritti umani lì riuniti. “Voi vi preoccupate del diritto internazionale, e la CIA se ne ride”. Un funzionario della Casa Bianca con cui ho parlato è perfino più sprezzante. “Se Anwar al-Awlaki è il portabandiera della vostra lotta contro i droni,” mi ha detto, “allora siete fregati”.

Se l’uccisione mirata di al-Awlaki non ispira compassione, dati i suoi presunti legami con Al Qaeda, allora possiamo considerare il caso di Tariq Aziz, un ragazzo pakistano di sedici anni. Nell’aprile del 2010 uno dei cugini di Tariq è stato ucciso in un attacco di droni. Convinto che suo cugino fosse innocente ed estraneo a qualsiasi attività di guerriglia, Tariq partecipò, insieme a un gruppo di anziani dei villaggi, ad un incontro tenutosi lo scorso ottobre a Islamabad organizzato da Reprieve, l’associazione per i diritti umani. Neil Williams, un volontario di Reprieve, ha trascorso un’ora parlando con Tariq durante l’incontro.

“Cominciammo parlando di calcio,” ricorda Williams. “Mi disse di aver giocato per il Nuova Zelanda. Le squadre con cui giocavano erano formazioni di villaggio con nomi ispirati a club famosi, tipo Brasile o Manchester United.”

Tariq e altri adolescenti presenti all’incontro hanno raccontato a Williams di come vivessero nel terrore dei droni. Li potevano sentire sorvolare le loro case nel Waziristan, ronzando per ore come tosaerba volanti. Un’esplosione può colpire in ogni istante, ovunque, senza preavviso. “Tariq non voleva proprio tornare a casa,” dice Williams “Lì avrebbe sentito i droni tre o quattro volte al giorno”.

Tre giorni dopo la conferenza, Williams ha ricevuto un’e-mail. Tariq era stato ucciso in un attacco di droni mentre stava andando da sua zia. Sembrerebbe che il ragazzo non fosse l’obbiettivo dell’attacco. Chi lo conosceva sospetta che si trovasse semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato, soprattutto perché un suo altro cugino di dodici anni è rimasto anche lui ucciso nell’attacco.

L’amministrazione Obama non ha commenti da fare sull’uccisione di Tariq Aziz, anche se la sua morte solleva la domanda più importante di tutte. I droni offrono al governo un’arma precisa e avanzata per la sua guerra al terrorismo – eppure molti di coloro che vengono uccisi dai droni sembra che terroristi non lo siano affatto. Infatti, secondo uno studio dettagliato sulle vittime dei droni redatto dal Bureau for Investigative Journalism, almeno 174 tra coloro che sono stati eliminati da droni avevano un’età inferiore ai 18 anni – in altre parole, erano bambini. Altre stime di gruppi per i diritti civili, che includono gli adulti che verosimilmente erano semplici civili, alzano la cifra delle vittime innocenti a più di 800. I funzionari statunitensi rigettano simili cifre – “cazzate” mi ha detto un funzionario dell’amministrazione. Brennan, uno dei principali consiglieri di Obama sul terrorismo, lo scorso giugno insisteva assurdamente che non c’è stato “un solo civile” ucciso dai droni durante l’anno precedente.

Per Nasser al-Awlaki, che ha perso il nipote adolescente a causa di un drone, simili dinieghi sono quasi altrettanto sconvolgenti della deliberata decisione da parte dell’amministrazione di lanciare una guerra telecomandata che avrebbe inevitabilmente comportato la morte di civili innocenti. “Non potevo credere che l’America potesse farlo – specialmente il presidente Obama, che mi piaceva tanto,” dice. “Quando venne eletto, ho pensato che avrebbe risolto tutti i problemi del mondo.”

da http://doppiocieco.blogspot
[questo articolo è stato pubblicato sul Rolling Stone del 16 aprile del 2012]

Michael Hastings è redattore di Rolling Stone e autore di The Operators: The Wild and Terrifyng Story of America’s War in Afghanistan.

traduzione di Domenico D’Amico

Note del traduttore

[1] Per un’evidente svista, l’autore parla di droni con un’apertura alare di 200 piedi (70 metri circa), cioè quasi quella di un Airbus. Dato che il drone più grosso, o almeno uno dei più grossi, è l’RQ-4 Global Hawk (l’autore lo cita nelle righe successive), che ha un’apertura alare di 116 piedi (circa 35 metri), ritengo che la cifra da intendersi sia 100 piedi, cioè circa 30 metri.
[2] Nell’originale “forward deployed”, cioè, alla lettera, “stanziati in prossimità di zone di guerra, ma non coinvolti nelle operazioni belliche”.
[3] “Signature strike”: cioè un attacco che avviene in base alla valutazione di una serie di elementi comportamentali (costituenti una “firma”) che indicherebbero una “tendenza” all’azione insurrettiva.
[4] Si tratta di petizioni presentate davanti all’Alta Corte di Peshawar a nome delle vittime degli attacchi di droni, che chiamano in causa la Federazione Pakistana, il ministero degli Affari Esteri e il ministero della Difesa pakistani. [Tribune-Pakistan]
[5] L’esplosivo era costituito da un involto con dentro 80 grammi di pentrite, che il nigeriano avrebbe dovuto innescare su un volo in atterraggio a Detroit. È stato condannato all’ergastolo.
[6] Extraordinary rendition: “è la locuzione inglese con cui si designa un’azione (sostanzialmente illegale, o per lo meno “extralegale”) di cattura/deportazione/detenzione, clandestinamente eseguita nei confronti di un “elemento ostile”, sospettato di essere un terrorista.” [Wikipedia]