Perché un partito nato come «cuore dell’opposizione» vive la sua massima crisi proprio mentre il consenso al blocco dominante sta tracollando?

Le elezioni sono ormai alle porte. Lunedì sera conosceremo i dati fondamentali, e solo a quel punto sarà possibile analizzare la nuova situazione che ne sarà scaturita. Per noi sarà fondamentale misurare da un lato il grado di consenso dell’asse degli eurosacrifici Bersani-Monti (Vendola incluso), che ci auguriamo al di sotto del 50%; e dall’altro il risultato del M5S, sicuro catalizzatore del voto di opposizione all’intero sistema politico, che ci auguriamo sia il più alto possibile.

In questo quadro, il dato di Rivoluzione Civile, la confusa Arca di Noè guidata da Ingroia, sarà in ogni caso un elemento francamente secondario. Secondario, ma non trascurabile, altro non fosse che per i processi disgregativi che si aprirebbero, soprattutto nel Prc, nell’ipotesi – che riteniamo assai probabile – di un insuccesso elettorale.

Ma di questo ci sarà tempo di parlare. Già ora colpisce però la contraddizione tra l’emergere di una nuova opposizione, quella che riempie le piazze dei comizi di Grillo, e l’incredibile marginalità di un partito che nacque dichiarando di voler essere (slogan dei manifesti elettorali del 1992) il «cuore dell’opposizione».

Anche se Ingroia se la dovesse alla fine cavare per il rotto della cuffia – cosa alla quale chi scrive proprio non crede – cosa resterebbe in mano a Rifondazione? Resterebbero, parole di Ferrero, 2 (due) deputati, per giunta intruppati in un gruppo tenuto insieme solo dalla comune condizione di naufraghi della politica. Due deputati, in una situazione che vedrebbe l’arrivo a Roma di 100-150 parlamentari del M5S: sai che brillante successo per chi era nato come «cuore dell’opposizione»!

Il nichilismo dell’attuale direzione del Prc – che tutto subordina ad un così mesto (e peraltro improbabile) rientro in parlamento – appare come una bestialità senza giustificazioni, tanto più in un quadro di incipienti turbolenze sociali. Una bestialità che fa rabbia, pensando a quei militanti onesti che ancora tirano la carretta rifondarola, ma che è in fondo la degna conclusione di un suicidio che viene da lontano.

Agli inizi del mese Rifondazione ha festeggiato il suo 22° compleanno. In 22 anni il Prc ha inevitabilmente vissuto diverse fasi, perdendo ben presto per strada l’obiettivo di costruirsi come «cuore dell’opposizione». E ora, che c’è bisogno come il pane di un’opposizione pronta a battersi, è naturale che gli sguardi si rivolgano altrove. E’ naturale perché Rifondazione, al di là del soggettivo sentire di buona parte dei militanti, questa esigenza non la rappresenta più da troppo tempo.

Già, ma da quanto tempo? Ecco una domanda che merita davvero una risposta. Il mio parere sembrerà discutibile a qualcuno, ma è molto preciso. E’ preciso, perché non è tanto il frutto di una rielaborazione razionale a posteriori, quanto di una chiara percezione avuta allora in tempo reale. Una percezione che mi pare abbia semmai trovato abbondanti conferme nei successivi sviluppi.

Era l’anno 1995, il Prc non era certo un partito rivoluzionario, né procedeva a chissà quale innovazione teorica per tener fede all’impegno inscritto nel proprio nome, e tuttavia disponeva di un prezioso tesoro rappresentato da due elementi: una discreta radicalità sociale, tradottasi quell’anno in una forte opposizione alla legge Dini sulle pensioni; una discreta credibilità politica, grazie al chiamarsi fuori dalla logica bipolare che andava sempre più strutturando l’intero sistema politico.

Non che mancassero contraddizioni (come, ad esempio, il posizionamento in alcune giunte regionali), ma tuttavia il partito aveva deciso di pagare il prezzo di una scissione parlamentare non indifferente (quella dei cosiddetti «Comunisti Unitari»), pur di mantenere una netta opposizione al governo Dini, sostenuto dal centrosinistra.

Nella primavera di quell’anno si tennero le elezioni regionali, e Rifondazione ebbe degli ottimi risultati. Dunque, radicalità sociale e autonomia politica davano anche consenso elettorale. Tre carte che, se giocate nel migliore dei modi, avrebbero certamente scritto un diverso futuro. Ma le cose non andarono così.

In ottobre si tenne una votazione parlamentare riguardante il ministro della giustizia Mancuso, ma in realtà decisiva per le sorti del governo Dini. Il voto compatto dei senatori del Prc avrebbe affossato il governo. Ma, smentendo quanto aveva dichiarato fino ad allora, Bertinotti decise invece di salvare Dini. Una giravolta che farà da battistrada alla sottoscrizione del famoso «patto di desistenza», che porterà poi al disastroso appoggio al primo governo Prodi (1996 – 1998).

Questo episodio, apparentemente secondario, segnò – a modestissimo parere del sottoscritto – il vero spartiacque tra la prima Rifondazione, ancora potenzialmente capace di farsi «cuore dell’opposizione», e la seconda, strutturalmente incapace di svolgere questo ruolo anche a dispetto del soggettivo sentire di militanti e dirigenti.

Non che nella «prima Rifondazione» non vi fossero già gli elementi degenerativi che determineranno poi il passaggio alla «seconda». Se così non fosse certe trasformazioni non potrebbero avvenire. Questo è ovvio, ma tuttavia c’erano anche le potenzialità dell’altro segno, che vennero però soffocate con tutti i mezzi: il richiamo alla necessità di «battere la destra», quello all’unità della sinistra, lo stimolo degli appetiti del sottobosco politico, la lotta interna condotta con ogni metodo, anche il più sporco.

Ma lasciamo perdere. Evidentemente le cose dovevano andare così. Sta di fatto che tutto quel che è venuto dopo, sia pure nell’alternanza di periodi di governo con lunghi anni di opposizione movimentista, non ha mai più avuto quella credibilità senza la quale ogni progetto politico è lettera morta.

Ora non ci diffonderemo qui (lo abbiamo già fatto in altre sedi) nella descrizione dei singoli passaggi tra le varie fasi vissute dal Prc. Cercheremo invece di capire la cosa fondamentale: perché Rifondazione Comunista ha ormai perso l’appuntamento fondamentale della sua storia, quello con l’emersione di una nuova opposizione nel cuore della più grave crisi sistemica del capitalismo della nostra epoca.

Andando subito a bomba, il problema può essere così sintetizzato: a dispetto di ogni riferimento letterario alla «contraddizione capitale-lavoro», il Prc si è invece sempre mosso in base alla dicotomia «destra-sinistra», dove per sinistra si è intesa non più una precisa ed effettiva collocazione politica, ma semplicemente una banale derivazione genealogica, sempre meno corrispondente alla rappresentanza dei valori storici della sinistra, sempre meno riconoscibile come tale dalle nuove generazioni.

Col tempo la «sinistra» è diventata infatti «sinistra del capitale», in alcuni casi più di quanto lo sia stata la destra. Prima della classe in quanto a privatizzazioni e liberalizzazioni, la sinistra è diventata mercatista fino al midollo, fino a far finta di non vedere la follia della finanziarizzazione che avrebbe condotto al tracollo. Tutto ciò non senza conseguenze sul lato degli scandali, sul quale ha tanto rivendicato la sua alterità rispetto alla banda berlusconiana. La vicenda del Monte dei Paschi di Siena non è evidentemente frutto del caso, né è certamente l’unica.

L’integrazione della sinistra nel sistema è ormai tale per cui oggi nessuno si stupisce più che il grande capitale tifi Bersani e non certo Berlusconi; che tema Grillo e non certo Vendola od Ingroia. Tutto ciò, visibile anche ai ciechi, sembra oscuro solo a chi non vuol vedere.

Oggi il bipolarismo è veramente in crisi, ed i tentativi di rianimarlo, benché non privi di effetti sul terreno elettorale, appaiono assai sterili sul piano storico. Ma per circa vent’anni questa è stata la solfa: «bisogna battere la destra, tutto il resto è secondario». Ed infine, dopo peraltro non averla mai battuta veramente, ma avendo sacrificato a questo obiettivo ogni vera difesa degli interessi popolari, ci si è ritrovati con un altra destra al governo, ben più aggressiva, ben più pericolosa, ben più distruttiva di ogni diritto sociale. La destra tecnocratica, autoritaria ed elitaria, espressione delle oligarchie finanziarie europee e nord-americane.

E’ contro questo destra, distillato chimicamente puro dell’odierno blocco dominante, che sta muovendo i primi passi una nuova opposizione popolare. Può essa guardare a chi per vent’anni ha finto di non capire cosa stava avvenendo? Ben diversamente sarebbero andate le cose se a metà degli anni ’90 Rifondazione, anziché scegliere la via di un tatticismo sterile ed esasperante ma sempre subalterno alla «sinistra del capitale», avesse preso la strada dell’opposizione, dell’autonomia, della rottura con il bipolarismo.

Ma così non è andata. E tutte le successive occasioni – ultima quella del congresso di Chianciano (2008), che in teoria avrebbe dovuto sancire la fuoriuscita dai disastri teorici e politici del bertinottismo – sono andate perse.

Aver sempre scelto, sia pure con diverse gradazioni, la più comoda strada dell’accomodamento, rispetto a quella più impervia della rottura e dell’opposizione sistemica ha dato per molti anni dei discreti vantaggi in termini di seggi, assessorati, finanziamenti, visibilità. Ma, ora, che il gioco si fa veramente duro, la riproposizione di quella linea appare solo penosamente perdente.

Comunque, la parabola di Rifondazione sta per chiudersi. E questo mentre una nuova stagione di lotte politiche e sociali sta per aprirsi. Così vanno le cose, ed i compagni del Prc che hanno ancora voglia di battersi contro il sistema non tarderanno a capirlo, aprendosi al nuovo e chiudendo finalmente con il vecchio opportunismo. Questo, almeno, è il nostro auspicio. In quanto ai dirigenti, dovrebbero capire da soli che è venuto il momento di mettersi a riposo. Ma questa è in fondo una questione davvero irrilevante che, probabilmente, si risolverà da sola. Anche se, da gente che pur di tirare a campare è arrivata a mettersi nelle mani di un insipido magistrato, che va dicendo che i suoi modelli politici sono oggi Obama e ieri John Kennedy, ci si può aspettare veramente di tutto.