L’accanimento terapeutico di Napolitano, lo sbando di una classe dirigente alla frutta, il M5S e il cambio di passo necessario

Il piccolo golpista del Colle ha colpito di nuovo. Non ancora pago dei disastri combinati con l’insediamento a Palazzo Chigi del Quisling al 10% (di consensi), ha ritenuto di ripetersi in coda al suo settennato.

Tra tre settimane – a meno di una rielezione che finora si è rifiutato di prendere in considerazione – sarà solo un ricordo, ma al suo sporco lavoro è proprio affezionato e l’ha voluto dimostrare anche oggi. Il suo disegno è fallito, la «grande coalizione» non ha visto la luce, né prevedibilmente la vedrà. Non per questo la sua mission di uomo fedele alle oligarchie euroatlantiche, che tanto lo amano, è venuta meno.

E’ solo partendo da questo punto fermo che si possono davvero capire le mosse del Quirinale. Mosse che travalicano i poteri assegnatigli dalla Costituzione. Forzature inaudite che vorrebbero preludere ad un nuovo commissariamento delle camere appena elette. Cioè l’esatto contrario di quanto hanno improvvidamente detto alcuni “grillini”, si spera solo momentaneamente distratti dal clima pasquale.

In breve, cosa ha fatto Napolitano? Prima ha rispedito Bersani a Piacenza per condurre personalmente le trattative tra Pd e Pdl. Poi, di fronte all’impossibilità di conferire comunque un nuovo incarico, ha affidato la risoluzione della crisi politica a due commissioni (una istituzionale, l’altra economica), che dovrebbero elaborare «precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche».

Insomma, queste commissioni, formate in parte da parlamentari (ma non di tutti i partiti) e in parte cospicua da personaggi che nessuno ha eletto – ma con l’immancabile presenza, fra gli altri, di un rappresentante di Bankitalia e di un ministro in carica del governo Monti – dovrebbero scrivere il programma del prossimo governo. Con quale legittimità? Ecco una domanda, assai elementare, che non va però molto di moda sulla stampa mainstream, tutta protesa ancora una volta a celebrare le “qualità” dell’ex ministro degli esteri del Pci.

Prima di esaminare i veri scopi della trovata quirinalizia, soffermiamoci un attimo su quello che avrebbe dovuto essere il passo naturale imposto dalla situazione politica. Il passo era quello delle dimissioni. Perché è vero che Bersani ha fallito, ma anche le consultazioni «condotte senza indugio» dal piccolo golpista avevano dato ieri lo stesso esito. L’impossibilità di formare un governo imponeva dunque lo scioglimento delle camere, ma il “semestre bianco” impediva a Napolitano di farlo. Questo “ingorgo istituzionale” poteva essere sbrogliato solo con le dimissioni del presidente della repubblica, per anticipare l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale, dotato anche del potere di scioglimento.

Napolitano ha invece scelto un’altra strada, vediamo il perché. Al primo scopo dichiarato – la formazione di un governo di coalizione Pd-Pdl-montisti – se ne affianca un altro non di minore importanza, e soprattutto ben più realistico: prendere tempo per rinviare le elezioni da giugno ad ottobre, al fine di raggiungere tre precisi obiettivi. Vedremo quanto utili al popolo italiano.

Se Napolitano si fosse dimesso sarebbe stato possibile anticipare l’elezione del nuovo presidente ed andare agevolmente alle elezioni a giugno. Senza dimissioni, e continuando in una tattica apertamente dilatoria, si potrà invece arrivare all’autunno, con alcune decisive conseguenze.

Alla luce della drammatica crisi dell’Unione Europea, chi scrive non ha mai creduto che il blocco dominante avrebbe optato per un qualsiasi governicchio a scadenza, scegliendo invece l’azzardo necessario di nuove elezioni per arrivare infine all’insediamento di un governo affidabile e nel pieno dei suoi poteri.

La mossa del Quirinale va esattamente in questa direzione, ma con un’importante variante: il probabile (anche se non certo) spostamento del nuovo voto all’autunno. L’ipotesi del governicchio è stata infatti esplicitamente accantonata da Napolitano, con il rilancio ad oltranza delle funzioni del governo Monti, come garanzia nei confronti dell’UE e della Germania in special modo. Insomma, se un nuovo governo pienamente operante non è ora possibile, lunga vita e proroga infinita all’omuncolo della Bocconi. Il quale è privo di una maggioranza parlamentare dagli inizi di dicembre…

Abbiamo detto che la tattica dilatoria di Napolitano ha tre obiettivi.

Il primo è quello a cui abbiamo appena accennato: impedire in questa fase un’ulteriore choc all’Eurozona, quale sarebbe un nuovo successo del M5S o anche solo un’avanzata del blocco berlusconiano. Garantire dunque la fedeltà, più precisamente il servilismo dell’Italia, mantenendo il Quisling Monti a Palazzo Chigi, con un accanimento terapeutico degno di miglior causa.

Ma dato che prima o poi si dovrà tornare al voto, il secondo obiettivo è quello di impedire almeno che ciò avvenga prima delle elezioni in Germania del prossimo settembre. La signora Merkel non deve essere troppo disturbata, ed un risultato sfavorevole agli euristi in Italia potrebbe essergli fatale.

Il terzo obiettivo riguarda invece l’esito delle nuove elezioni politiche, che si vorrebbe pilotare dall’alto. Il blocco eurista, sconfitto a febbraio, vuol tentare in tutti i modi la rivincita. Impresa non facile, ma neppure impossibile. Essa abbisogna però di due fattori: l’alleanza preventiva del Pd con quel che resta del blocco montista e, soprattutto, il passaggio della leadership da Bersani a Renzi. Ed è quest’ultimo passaggio che si intende agevolare con il rinvio del voto in autunno. Ecco il  “dettaglio” che spiega la durezza dello scontro in “famiglia” tra Bersani e Napolitano.

Se gli obiettivi sono chiari, il ricorso a tutti i mezzucci disponibili da parte del Quirinale la dice lunga sullo stato della classe dirigente del paese. Non una sola idea su come affrontare la crisi economica è stata messa in campo. E nessun dibattito degno di questo nome si è davvero aperto. Incapace anche solo di vedere il baratro che si sta aprendo, finite le vecchie certezze europeiste, la vecchia classe dirigente sa solo chiudersi su se stessa, nel timore che la sberla elettorale di febbraio si trasformi in rivolta e sollevazione.

Essa non può far altro che difendere l’esistente, ed innanzitutto se stessa. Ma è interessante l’assenza di idee, proposte e progetti. Se la farà franca, ancora una volta, sarà solo per la debolezza delle forze che dovrebbero costruire l’alternativa.

Ed a questo proposito è necessario spendere qualche riga sul M5S. Movimento che abbiamo votato, che ha avuto l’indiscutibile merito di portare un fendente decisivo al sistema politico, ma che ora deve rapidamente cambiare passo.

Il movimento di Grillo ha fatto benissimo a dire no a Bersani. Occorreva semmai qualificare meglio quel no come un no alle politiche dei sacrifici in nome dell’euro, a partire dalla necessità di cancellare da subito il Fiscal Compact. Bisognava insomma chiarire che il ritornello sul “governo necessario”, condotto senza sosta dalla stampa di regime, altro non è che la richiesta di un governo che prosegua le politiche di Monti. Un chiaro no a quella prosecuzione, del resto in linea con il senso di fondo del voto di febbraio, non solo sarebbe stato ben più comprensibile della pubblica esibizione di una strana forma di autismo politico, ma avrebbe facilmente raccolto l’approvazione di milioni di persone che del montismo (nelle sue diverse variabili) proprio non ne vogliono più sapere.

Il M5S deve stare attento. La politica è dinamica, ed il potere di solito non fa regali. La trovata quirinalizia di oggi è anche e soprattutto una mossa contro il movimento di Grillo. Non accorgersene, dichiarandosi addirittura felici di questo nuovo golpe marzolino, come qualcuno ha fatto, va al di fuori della nostra capacità di comprensione. Probabilmente (almeno così ci auguriamo) domani questa sbandata verrà corretta. Ma sarebbe l’ora di evitare le sbandate. Esse possono essere quasi del tutto innocue finché si parla delle presidenze delle camere, possono invece diventare fatali quando si parla del governo, specie se si tratta di mantenere in carica il più a lungo possibile l’esecutivo più antipopolare che si ricordi a memoria d’uomo.