Tensione alle stelle tra le due Coree e, di converso, in tutto l’Estremo oriente, diventato oramai il secondo polmone dell’economia mondiale e un centro strategico delle tensione geopolitiche.

L’annuncio  di Kim Jong-un di essere pronto ad attaccare coi suoi missili a medio e lungo raggio le basi americane nel dirimpettaio Giappone (ma anche quelle nelle Hawaii) e quella di riattivare il reattore nucleare di Yongbyon, fermo dal 2007, ha provocato reazioni negative perfino in Cina, supposto sponsor di Pyongyang.

Pechino, secondo funzionari americani, ha iniziato a mobilitare le sue truppe al confine con la Corea del Nord, nel timore che uno sgretolamento del regime porti ad un massiccio afflusso di profughi sul suo territorio. Gli Stati Uniti da parte loro, mentre hanno fatto mettere in stato di massima allerta le alleate truppe sud-coreane, hanno deciso di rafforzare ulteriormente lo schieramento difensivo attorno a Seul e al Giappone.

Una ennesima puntata della saga della guerra fredda oppure, questa volta, tutto precipita? Questo sembra l’esito sciagurato seguendo l’allarmistica stampa  occidentale, che così sembra fare eco a quella Nord-coreana, mentre quella del Sud tende a presentare i fatti sotto una luce più tranquillizzante.
 
Non essendo noi nelle stanze dei bottoni di chi ha l’ultima parola, possiamo solo fare delle congetture, delle deduzioni per essere più precisi.

La domanda è la seguente: è forse nell’interesse delle grandi potenze dell’area (Cina, Russia, Giappone e USA) essere trascinate in una guerra regionale devastante? Noi riteniamo di no. Certo non per adesso. La seconda domanda è più spinosa: può, al contrario, il regime di Pyongyang avere l’interesse a scatenare lo scontro frontale ora?

Difficile rispondere a questa domanda. Per farlo occorre capire di che tipo di regime stiamo parlando, qual è il suo stato di salute, come esso vede il futuro proprio e quello della regione.
Occorre anzitutto smentire la vulgata di certi media occidentali, quella secondo cui la Cina sarebbe un sicuro alleato di Pyongyang, anzi il suggeritore della sua politica “provocatoria”. Le cose stanno altrimenti. Pechino non vede affatto di buon occhio il regime della Corea del Nord. L’opinione comune in Cina sul regime di Pyongyang non è dissimile a quella predominante in Occidente, che esso sia guidato da “folli”.

Di converso il regime nord-coreano diffida di Pechino. Non è solo che la  Cina si è sempre arrogata, negli ultimi sette secoli, una specie di diritto di prelazione sulla Corea (che considera zona sotto la sua giurisdizione strategica). Pyongyang teme, non a torto, che Pechino punti sul medio periodo, pur in chiave antiamericana e anti-giapponese, a stringere alleanza con Seul — tanto per fare un esempio: l’interscambio cinese con la Corea del Sud ammontava nel 2012 a 215 Mld di dollari mentre quello con il Nord a 6 Mld. Se così stanno le cose il tetragono regime nord-coreano, arroccato attorno al sacro dogma trinitario del Songun (sovranità nazionale, Stato, Esercito) vede come fumo negli occhi la “amicizia” cinese, se non addirittura come la più grande minaccia alla sua propria sopravvivenza.
 
Per quanto forte, ci pare plausibile l’affermazione di Maurizio Riotto, secondo cui il vero e più pericoloso nemico di Pyongyang non sono gli Stati Uniti ma la Cina. In effetti Pyongyang, di contro ad una certa retorica occidentalista, è dalla metà degli anni ’70  che cerca il dialogo con gli Usa. Riotto addirittura sostiene che «l’atomica nord-coreana non serve tanto a dissuadere gli Usa quanto a scoraggiare eventuali pretese egemoniche cinesi sulla Corea».
 
Per quanto attiene alla natura sociale del regime, se esso possa essere considerato “socialista”, si potrebbe rispondere che sì, lo è, se per socialismo s’intende genericamente una formazione sociale fondata sulla pressoché totale statalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio.
 
Ma un socialismo sui generis, da caserma, fondato non sull’auotogoverno dei lavoratori e nemmeno, stalinisticamente sul predominio assoluto del partito unico, burocratizzato o meno. Nella Corea del Nord la parte del leone (nella struttura economica come nella sovrastruttura politica e statuale) la svolge l’Esercito, di cui il partito è protesi. Un socialismo militare quindi, le cui radici affondano nell’antico humus del “modo asiatico di produzione”.
 
Ideologicamente, alle spalle del pensiero di regime super-omista dello Juche, quello nord-coreano è, come sostiene Riotto «uno Stato confuciano appena coperto da un sottile strato di “vernice rossa”. (…) Fin dalla sua formazione il programma della politica nazionale nordcoreana era stato il recupero dei valori e dell’identità nazionali nell’ambito della più piena indipendenza politica […]. Non deve perciò stupire che, nell’edificazione del nuovo Stato, ci si sia aggrappati ai modelli culturali più noti e rassicuranti, ossia quelli neoconfuciani degli ultimi seicento anni, mummificatisi in un panorama storico che si era mantenuto assolutamente involuto e piatto per almeno due secoli e mezzo, dalla prima metà del Seicento alla seconda metà dell’Ottocento».
 
Non è quindi il giovane Kin Jong-un che ha in mano le chiavi per decidere se sarà guerra o pace, ma i vecchi generali che detengono le leve decisive del potere.