Open Europe offre alcuni commenti interessanti a proposito delle possibili ricadute sulla politica europea (nulle!) derivanti dalla confutazione delle tesi di Reinhardt e Rogoff

Una mini-tempesta ha scosso la comunità economica dopo la pubblicazione di un paper che mette in luce alcuni difetti nel diffusissimo studio di Reinhart e Rogoff ‘Growth in a time of debt’. – ove essenzialmente si sostiene che elevati livelli di debito sono associati a una bassa crescita economica. Si tratta di uno studio ampiamente citato dai media e dai politici in difesa dell”austerità’ – sia negli Stati Uniti che in Europa (in particolare Olli Rehn in relazione alla crisi della zona euro).

La nuova ricerca mette in discussione i risultati di Reinhart e Rogoff (R & R), sulla base di un errore di excel (oops), di omissioni di dati e di una non corretta ponderazione dei dati. Si è abbondantemente scritto su chi abbia ragione – si può vedere qui una sintesi delle critiche e le risposte di R & R qui e qui.

La questione che ci interessa adesso non è necessariamente la complessità di questo nuovo balletto accademico. Per essere onesti, è ovvio che non esiste una soglia chiara e unica sopra la quale il debito comincia a influenzare la crescita in tutti i paesi – e che spesso le esperienze storiche specifiche di alcuni paesi possono non significare molto per delle politiche economiche attuate in tempi e in luoghi diversi. E questo è particolarmente vero per alcuni caratteristici vincoli della crisi dell’eurozona.

Ma visto che alcuni lo vedono come un atto d’accusa schiacciante sul sostegno all”austerità’, può essere che se ne avrà un impatto sull’approccio alla crisi della zona euro?

Per dirlo con una sola parola, no. Qui alcuni dei motivi:

• Sostenere la fine dell’austerità in questi paesi significa in realtà chiedere dei trasferimenti fiscali dal resto dell’eurozona, dal momento che essi non hanno molto, se non nessuno spazio per espandere la spesa.
In definitiva è di questo che si discute, non di austerità o di spesa, ma si tratta di capire se i paesi più forti sono disposti a fare dei trasferimenti – attraverso un’unione bancaria o un’unione fiscale – per tenere insieme la zona euro nel lungo periodo e creare l’architettura necessaria per poter sopportare shock futuri. Se non sono d’accordo, allora devono affrontare la prospettiva di una rottura o di un ridimensionamento della zona euro.

• I problemi si estendono ben oltre il debito pubblico.
Come abbiamo visto in Spagna, Irlanda e Cipro (e stiamo vedendo in Slovenia), i livelli di debito del settore privato e del settore bancario sono molto importanti. Il quadro macro è molto più complesso di un semplice livello del debito pubblico e della crescita economica. I problemi della crisi sono un mix di misure fiscali, strutturali e bancarie.

• In questo quadro l’austerità è più di un semplice taglio di spesa. E’ diventato un passepartout per alcune riforme, molto necessarie allo scopo di migliorare la competitività e la produttività nell’Eurozona (l’austerità crea disoccupazione e serve a rendere fattibile la svalutazione interna dei salari, ndt).

• E’ chiaro che non si possono avere 17 Germanie con un’economia trainata dalle esportazioni in un blocco a moneta unica dove i paesi commerciano prevalentemente l’uno con l’altro.

Così che il dibattito accademico (e politico) in realtà verte sul fatto se i trasferimenti fiscali sono possibili, e/o auspicabili. Quando si tratta di affrontare la crisi della zona euro, confutare R & R non cambia le carte in tavola.

da Voci dall’estero