Mentre Il governo di Mario Monti si insediava sostenevamo che esso avrebbe miseramente fallito. Non perché non sarebbe riuscito a dissanguare il popolo lavoratore, non perché non avrebbe rispettato i soffocanti vincoli europei. Dicevamo che, proprio per l’ossequiosa accettazione di questi vincoli stringenti, non avrebbe centrato l’obbiettivo dichiarato di far uscire l’economia dalla più profonda depressione economica. Infatti l’ha accentuata. E siccome è ancora questo l’obbiettivo che si è pomposamente proposto Letta, non è difficile pronosticare un secondo, clamoroso fallimento.
Anche ove le misure prioritarie annunciate da Letta fossero effettivamente adottate esse non faranno uscire il paese dal disastro. Pannicelli caldi, che potranno allungare l’agonia del sistema capitalistico italiano. Avremo modo di tornare sull’aleatorietà delle misure economiche indicate da Letta nel suo discorsetto demagogico. Basti per ora dire poche cose essenziali.
Che il nuovo governo riesca a rianimare il collassato capitalismo italiano dipende anzitutto dalla misericordia dell’Unione europea, leggi della Merkel, e non a caso la questua a Berlino è il primo atto politico del nuovo Presidente del consiglio. Otterrà il nuovo governo il semaforo verde affinché sia concesso a Roma lo slittamento del pareggio di bilancio? Vedremo, di certo la Merkel non vorrà mettere a repentaglio la sua terza vittoria elettorale.
Ottenendo l’allentamento dei vincoli alle politiche di bilancio il governo spera di reperire le risorse necessarie a sostenere alcune delle misure annunciate e dare una boccata d’ossigeno all’economia in asfissia. Ma siamo ben lontani sia dall’uscita dal tunnel che da coerenti politiche anti-cicliche anche solo di stampo keynesiano.
A intenditor poche parole. Letta non ha solo ribadito che la nascita di un super-Stato europeo è l’obbligato punto d’approdo, ha solennemente indicato nell’euro e nella Bce le “due premesse macroeconomiche” imprescindibili che guideranno l’operato del suo governo.
Nessun accenno critico ai Trattati europei, sacro resta il Fiscal compact — per alimentare il quale solo quest’anno l’Italia dovrà sborsare 40 miliardi, più del doppio delle risorse che Letta spera di stornare dallo sforamento del pareggio di bilancio. Qual è dunque la recondita speranza del nuovo Primo ministro? Che duri ancora per qualche mese l’euforia dei mercati finanziari (determinata dalla enorme liquidità messa in circolazione dalle banche centrali americana, giapponese, inglese e in parte anche dalla Bce), quell’euforia che spiega l’ondata di acquisti di titoli di stato italiani —spread in calo a quota 271, tasso Btp a dieci anni al 3,84%, il livello prima dello scoppio della crisi greca. Che lo Stato possa continuare a finanziarsi a basso costo è infatti la premessa indispensabile perché esso possa, sia allentare la pressione fiscale sul capitale che aprire i cordoni della borsa per alleviare i costi sociali della crisi. Molto dipende dunque da quanto ancora durerà la pacchia sui mercati finanziari. Poco secondo alcuni analisti, i quali pronosticano lo scoppio imminente di una nuova bolla finanziaria.
Non siamo quindi alle prese con una inversione di rotta rispetto alle direttive macroeconomiche deflazionistiche — che implicherebbero non solo piegare Berlino, ma stravolgere i Trattati e ridisegnare il ruolo e le funzioni della Bce —, siamo tuttavia davanti alla necessità, per partiti e notabili oramai moribondi, di lasciarsi alle spalle la famigerata “Agenda Monti”, che la stragrande maggioranza dei cittadini ha sonoramente bocciato col voto di febbraio. Qui sta il miracolo che questo governo deve compiere se vuole riconsegnare ai partiti della maggioranza il consenso perduto: dare una botta al cerchio e una alla botte. Lorsignori debbono riuscirci ad ogni costo, pena la fine loro e della “seconda Repubblica”.
Al di là dei rituali e retorici discorsi che caratterizzano la cerimonia battesimale di ogni nuovo governo, tutto si riduce a questo: partiti e notabili hanno accettato di unirsi in more uxorio per tirare a campare. Costretti controvoglia a fare fronte comune dopo i rovesci subiti con le ultime elezioni, sanno che questa è la loro ultima chance per tenere salde nelle loro mani, per nome e per conto delle classi dominanti, le redini del potere. Il loro obbiettivo vero è dunque tutto politico, sterilizzare l’ondata d’indignazione popolare erigendo robuste paratie per contenere l’eventuale sollevazione —la paura fa novanta: i ringraziamenti alle Forze di sicurezza dello Stato sono stati i passaggi più applauditi del discorso di Letta. A questo scopo faranno demagogiche (e a buon mercato) concessioni al disprezzo popolare verso la loro casta.
Costi della “politica”: ma di che parliamo?
Concessioni che faranno velo alla “riforma” elettorale, ovvero un sistema ancor più truffaldino per consegnare a delle minoranze il bastone del comando nonché, e questo è forse il disegno loro più ambizioso, scardinare definitivamente la Costituzione per passare da un regime ancora formalmente parlamentare ad uno presidenziale.
Questo sì, l’edificare una “Terza Repubblica”, è un disegno davvero ambizioso. Le forze dell’opposizione, a partire dal M5S (e su questo verificheremo la sua effettiva consistenza e caratura democratica), non possono e non debbono consentirglielo.
Letta l’ha detto apertamente, più ancora che dal versante della recessione, il pericolo viene dal rischio di un’esplosione del conflitto sociale. Tra i due fattori c’è tuttavia una correlazione oramai stringente. La prima alimenta il secondo, fermo restando che solo scardinando alle fondamenta questo sistema oramai in putrefazione sarà possibile al popolo lavoratore aprirsi una strada verso un futuro, se non radioso, almeno dignitoso.
Un’opposizione che dovrà lottare accrescendo forza e consensi.
Tenendo bene a mente che:
«Non nel dolce mormorio delle lodi,
ma nelle urla selvagge del furore
sentiamo le note del consenso».