Dopo il crack bancario del 2008 l’Islanda decise la cancellazione del debito estero e, in virtù della sovranità monetaria, svalutò la propria moneta. C’è stata sì la ripresa economica ma a scapito del popolo lavoratore. Ne derivano alcune fondamentali lezioni per noi italiani quando usciremo dall’euro. 

Domenica 28 aprile gli islandesi si sono recati alle urne. I partiti della coalizione governativa di centro-sinistra, socialdemocratici e verdi, saliti al potere con le elezioni del febbraio 2009, sono stati sonoramente battuti dai due partiti di centro-destra che hanno conquistato la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi. Ritornano quindi al potere quelle forze politiche che avevano governato il paese durante il periodo dell’euforia neoliberista che si concluse nel crack bancario del 2008.

 La stampa europea, ovvero eurista, all’unisono, grida allo scandalo: “Hanno vinto i nemici dell’euro, i populisti che vogliono porre fine al rigore finanziario e all’austerità”. C’è del vero in queste accuse, poiché il governo di centro-sinistra ha seguito una politica economica di tagli allo stato sociale e di sacrifici, lasciando quindi alle destre la possibilità di cavalcare il malcontento sociale.

Ma andiamo con ordine.

Fino al 2007 l’Islanda era considerata un paradiso terrestre: disoccupazione inesistente, una crescita del 5% annuo, un Pil procapite tra i primi del mondo (secondo solo a quello norvegese). Ma si trattava di un castello di carte edificato sulla sabbia della iper-finanziarizzazione. I tassi d’interesse sui depositi bancari erano molto alti, il 5-6% — di contro a quelli dell’area euro e degli Usa che stavano al 2-4%, per non parlare di quelli giapponesi che davano meno dell’1% — incoraggiavano l’afflusso di denaro da tutto il mondo.

La crisi finanziaria americana del 2007-2008 fece esplodere la bolla islandese, le tre principali banche del paese (Glitnir, Kaupþing, Landsbanki), utilizzate dalle banche globali come veicoli speculativi e i cui asset valevano dieci volte il Pil del paese, andarono in bancarotta. Le conseguenze furono pesanti anzitutto per le banche inglesi e olandesi, le più esposte sul debito di quelle islandesi.

Il governo dell’isola nazionalizzò le banche e si rifiuto di pagare i debiti con quelle estere. Una decisione confermata da un referendum popolare nel marzo del 2010, quando il 93% dei cittadini bocciò una legge che prevedeva il rimborso alle banche creditrici straniere. Il debito estero venne di fatto cancellato.

Parallelamente alla cancellazione del debito il governo islandese, con un decreto, impose, giustamente, il blocco ai movimenti dei capitali stranieri (circa 6 miliardi di euro). Una decisione che fece infuriare la stessa Unione europea.

Ma la decisione più importante, dopo il default bancario pilotato, fu quella che portò alla svalutazione della valuta locale — misura decisiva resa possibile dalla sovranità monetaria. La Krona perse il 50% circa del suo valore (prima del crack 70 krone valevano un euro, oggi il cambio è a quota 150).

Queste misure furono alla base dell’uscita dalla crisi. Ad una recessione che vide il Pil crollare del 6,6% nel 2009 e del 4% nel 2010, ha fatto seguito una crescita del 2,6% nel 2011 e dell’1,8% nel 2012. La disoccupazione è scesa al 6%.

Ma allora perché nelle elezioni di domenica 28 aprile gli islandesi hanno punito il governo? Per diverse ragioni. La prima è che svalutazione della krona ha avuto come effetto collaterale un’inflazione che ha fatto aumentare i prezzi dei beni, mentre i salari sono rimasti al palo. In Islanda infatti il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi è sceso in tre anni, secondo stime attendibili, del 30%.

Nel frattempo il governo di centro-sinistra ha dovuto aumentare l’imposizione fiscale, anche per rimborsare gli aiuti del Fmi.

V’è infine un terzo fattore che spiega il malcontento popolare. Per gli islandesi avere una casa di proprietà è importante quanto per noi italiani. E come moltissimi italiani gli islandesi hanno acceso mutui per potersela comperare. Con un potere d’acquisto diminuito gli islandesi devono affrontare mutui per un totale di 8,7 miliardi di euro, poco più del 100% del Pil. Mutui legati all’inflazione che si sono rivelati più alti del valore delle case. Di qui il rischio d’insolvenza.

Il governo di centro-sinistra, andando incontro al malcontento e per evitare il rischio delle insolvenze, ha posto per i mutui un tetto del 110% del valore della casa acquistata. Ma questo non è stato sufficiente.

I partiti di centro-destra hanno proposto in campagna elettorale, non solo di porre fine ai tagli alla spesa sociale e una riduzione delle tasse, hanno promesso un taglio dei mutui fino al 20%, da finanziare coi crediti delle banche nazionalizzate.

“Populismo!”, hanno gridato le forze di governo di centro-sinistra (che spingono ancora per far entrare l’Islanda nell’euro). E queste forze hanno perso le elezioni. Come c’era da aspettarsi.

Le vicende della piccola Islanda siano da lezione per noi italiani.

La prima lezione è che promuovere politiche d’austerità in nome del rigore e del rispetto degli interessi delle forze dominanti, porta le sinistre al tracollo e apre un’autostrada al “populismo” di destra.

La seconda. E’ verissimo che uscire dall’euro è per noi italiani una necessità e un obbligo imperativo, ma il ritorno alla lira, che dovrà essere svalutata per dare ossigeno all’economia, dovrà essere accompagnata dall’indicizzazione dei salari per proteggerli dall’inflazione, altrimenti, a pagare i costi del ritorno alla sovranità monetaria e della svalutazione sarà il popolo lavoratore.

La terza. In caso di ritorno alla sovranità monetaria essa dovrà essere accompagnata non solo dalla cancellazione del debito verso le grandi banche e i fondi speculativi stranieri (circa il 40% del totale), ma dalla nazionalizzazione del sistema bancario, con ciò stesso annullando il debito che lo Stato ha verso le banche italiane (un altro 40% circa).

La quarta. Va imposto l’immediato blocco dei capitali per impedire che fuggano all’estero.

P.s.
Vi sarebbe infine una quinta lezione, e questa concerne la questione dell’ordinamento politico-istituzionale e della democrazia.

Durante il marasma della crisi finanziaria gli islandesi si posero il problema di adottare una nuova costituzione. Anche per questo si parlò di “rivoluzione democratica islandese”. Detto di passata: la procedura scelta è un indiscutibile modello per il Movimento 5 Stelle. Il 27 novembre 2010 si svolsero elezioni per eleggere la “Consulta costituzionale” (Stjórnlagará?) incaricata di redigere la nuova costituzione. Risultarono eletti 25 cittadini (in gran parte notabili, professori e avvocati) tra i 522 candidati. Piace a M5S non solo il metodo referendario (“uno vale uno”) ma pure che gli unici due vincoli per la candidatura, a parte quello di essere liberi dalla tessera di qualsiasi partito, fossero quelli di essere maggiorenni e di disporre delle firme di almeno 30 sostenitori. Il risultato fu un mezzo disastro, visto che l’affluenza alle urne fu molto bassa, meno del 36% degli aventi diritto si recarono a votare. Alla fine la Consulta (dopo avere recepito migliaia di proposte giunte via web) presentò la sua proposta di riforma costituzionale che venne approvata da un referendum popolare il 20 ottobre 2012, ma questa si è impaludata e deve ancora passare al vaglio del Parlamento. Da segnalare non solo che il referendum era consultivo e non vincolante, ma che l’affluenza alle urne non superò il 50% degli aventi diritto. Il fatto è che al voto vennero messi sei quesiti (tra cui alcuni astrusi) e non la bozza di nuova costituzione. Per dire che non bisogna farsi un mito del referendum in quanto tale, che è uno strumento da maneggiare con molta cura.

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