La Casa Bianca, a ben vedere, ha preso un altro ceffone. L’amministrazione Obama da mesi martellava usando i suoi potenti mezzi mediatici per delegittimare le elezioni presidenziali iraniane puntando ad alzare la soglia dell’astensionismo. Ha invece votato il 70% dei cittadini, una percentuale che gli USA si sognano e che attesta in maniera inconfutabile l’attenzione dei cittadini iraniani agli affari politici e sociali.
La linea tetragona degli americani non era cambiata negli ultimi giorni, quando tutti i sondaggi che venivano da Tehran davano come sicuro vincitore il religioso “riformista” Rowhani, anche a causa della divisione senza precedenti del cosiddetto fronte dei “conservatori” o, nel linguaggio imperiale, dei “falchi”. La grande novità è che Rowhani ha vinto al primo turno, attestando in maniera inequivocabile che il sentimento prevalente tra gli iraniani è quello del cambiamento.
Proprio per poter bene interpretare questa spinta al cambiamento è importante capire perché la Casa Bianca ha giocato fino alla fine la via della delegittimazione delle elezioni. La ragione è semplice: dal loro punto di vista tutti i candidati, compreso quello “riformista”, sono rubricati alla voce “antiamericani”. Hanno ragione. Il nuovo Presidente non arresterà il programma nucleare, né cambierà sostanzialmente la politica estera sin qui seguita dall’Iran. Un media potenza come quella iraniana, incastonata com’è in un’area geografica in cui confluiscono tensioni internazionali, non può permettersi zig zag nel suo posizionamento geopolitico.
Chiunque governi a Tehran sa che l’Iran è il centro geometrico di queste tensioni. Afghanistan e Pakistan a est, Arabia Saudita e paesi del Golfo a sud, Iraq e Siria ad est, l’emergente Turchia a nord-est, Caucaso e Asia centrale a Nord, con Israele, “dettaglio” decisivo, a portata di schioppo. Un’area turbolenta, un vespaio abitato da storici nemici della Persia, che possono essere tenuti a debita distanza solo da un Iran che sappia esercitare il suo peso regionale, e che abbia una capacità adeguata di deterrenza — una deterrenza che poggia sull’asse strategico di alleanze che va da Baghdad fino a Beirut passando per Damasco.
Quali che possano essere la divergenze tra “conservatori” e “riformisti” essi sanno tutti che la Casa Bianca trama strategicamente per accerchiare l’Iran e indebolirne il peso, economico, politico e quindi militare. Su questo piano le differenze tra “falchi” e “colombe” sono più di forma che di sostanza.
Ciò che invece potrà cambiare, anche molto, con l’ascesa di Hassan Rowhani, è la politica interna, parliamo anzitutto delle scelte di politica economica e sociale.
Il dato più eclatante delle elezioni è infatti la cocente sconfitta dell’ex Presidente Ahmadinejad e con lui della sua corrente politica. Vero è che scaduto il suo secondo mandato Ahmadinejad non poteva ripresentarsi. Il fatto è che il Consiglio dei Guardiani (presieduto dalla Guida suprema Ayatollah Khamenei), l’organismo deputato a decidere sulla possibilità dei diversi candidati a correre per le elezioni, ha addirittura bocciato il delfino di Ahmadinejad.
Questa decisione non è giunta inaspettata. Da mesi i grandi media iraniani stavano facendo il tiro al bersaglio su Ahmadinejad, con una campagna martellante di delegittimazione politica. Il regime ha avuto facile gioco a fare di Ahamdinejad il capro espiatorio del diffuso malcontento sociale, causato dalla crisi economica (alta disoccupazione e alta inflazione). Il governo è stato additato al pubblico ludibrio per la sua incapacità di porre rimedio alla crisi, mentre l’ex-Presidente è stato preso di mira non solo per certe sue affermazioni ideologiche —un escatologismo messianico inaccettabile agli occhi delle massime autorità religiose e della Guida suprema Khamenei, che mai ha sopportato le sue uscite ideologiche “strampalate” e le sue frequentazioni con mullah “eretici”— ma pure per il suo “stile di governo populista”.
In cosa consistesse questo “populismo” è presto detto: Ahmadinejad, che per due volte vinse le elezioni grazie al consenso degli strati più poveri della popolazione ha portato avanti, da una parte una politica radicale di sostegno a questi stessi ceti (politica abitativa, sovvenzioni pubbliche, ecc.), dall’altra ha fatto della lotta alla corruzione dilagante in seno all’amministrazione pubblica il suo cavallo di battaglia. Tutto questo l’ha posto in rotta di collisione non solo con l’establishment politico, statale e religioso, ma anzitutto con il bazar, ovvero con la potente borghesia mercantile iraniana che preme affinchè sia rimossi i lacci e i lacciuoli alle sue pulsioni affaristiche.
Questa borghesia (che avrebbe certamente votato per Ali Akbar Rafsanjani se la sua ennesima candidatura non fosse stata bocciata dal Consiglio dei Guardiani), ha certamente votato compatta per Rowhani tirando un sospiro di sollievo per la sua schiacciante vittoria. Essa presenterà il conto al nuovo Presidente, chiedendo mano libera negli affari e un sostanziale passo indietro dello Stato dalla sfera economica.