«Stiamo tentando un’impresa disperata», questa la poco incoraggiante premessa di Giorgio Cremaschi nella sua relazione alla “riunione di vertice” di Ross@ svoltasi il 15 giugno scorso. Se disperata è l’impresa, di certo abbiamo trovato davvero disperanti alcuni passaggi del discorso del combattivo leader sindacale.
Un discorso che abbiamo il dovere di esaminare e criticare, perché indica una strada senza sbocchi, frutto di un’analisi della situazione assai superficiale, privo di coraggio su alcuni punti dirimenti e portatore di un pessimismo cosmico che ben spiega la premessa di cui sopra.
Come Movimento popolare di liberazione (Mpl) abbiamo espresso fin dal principio diverse riserve sul progetto di Ross@. E tuttavia, in considerazione del fatto che condividiamo tanto la necessità della costruzione di un soggetto politico anticapitalista, quanto quella di un fronte che si ponga nella prospettiva della sollevazione popolare, abbiamo scelto fin da subito di interloquire con questo progetto politico.
Purtroppo, e lo dico con dispiacere sincero, la relazione di Cremaschi ha confermato in pieno le nostre preoccupazioni iniziali. Avremmo preferito essere smentiti, ed invece le ragioni di dissenso sono decisamente aumentate. Ed all’interno di uno schema di ragionamento assai fragile, vi sono dei passaggi che lasciano francamente costernati.
A chi dovesse trovare ingeneroso od eccessivo questo giudizio, consiglio l’ascolto del file audio della relazione introduttiva di Giorgio Cremaschi.
Entriamo nel merito
Lanciare un progetto politico, e dichiararne in partenza il quasi certo fallimento, potrebbe sembrare a qualcuno un apprezzabile esercizio di realismo ed onestà intellettuale. Non è questa l’opinione di chi scrive. Così facendo, infatti, altro non si fa che incrementare il clima di pessimismo, depressione e passività, pur dichiarando di volerlo combattere. Certo che non può esserci la certezza della riuscita, ma con questa mancanza di convinzione si avrà solo la certezza del fallimento.
Un fallimento che, a mio modesto giudizio, è inscritto proprio nella visione proposta da Cremaschi, per il quale Ross@ sarebbe una sorta di “ultima spiaggia”. Un atteggiamento politico e psicologico, quest’ultimo, che non ci si aspetterebbe da un leader esperto e capace come l’ex dirigente della Fiom. Certo, è capitato nella storia politica di molti di sentirsi davanti ad uno scenario da “ultima spiaggia”. Ora, però, l’esperienza dovrebbe pur insegnare qualcosa. E la gravità della crisi dovrebbe far intravedere il grande mare delle contraddizioni sistemiche, ben al di là della misera spiaggia dello stato della sinistra più o meno sinistrata.
In realtà, così come non esistono conquiste definitive, siano esse politiche o sociali, (e giustamente Cremaschi lo ricorda nella parte conclusiva della sua relazione), non esistono neppure “ultime spiagge” assolute. Tanto meno potrà essere il progetto di Ross@ la verifica definitiva dell’esistenza o meno di “uno spazio per un movimento politico anticapitalista”.
La cosa ancor più preoccupante è che Cremaschi dice a chiare lettere che un momento decisivo di tale verifica sarà rappresentato dalle prossime elezioni europee. La cosa curiosa è che quando noi, lo scorso anno, abbiamo proposto, all’interno del “Comitato No debito”, l’esigenza di misurarsi con le imminenti elezioni politiche, ci fu risposto che non c’erano le condizioni per una presentazione. Perché queste condizioni sarebbero maturate solo ora, fra l’altro con l’ostacolo tecnico del maggior numero di firme necessarie? Forse solo perché la componente rifondarola di Ross@ non ha più nemmeno un Ingroia a cui aggrapparsi, come invece ha fatto con una disinvoltura pari all’insuccesso a febbraio?
Ma lasciamo perdere, ed affrontiamo questioni più serie. Il pessimismo cosmico che straborda da tutta la relazione ha un suo punto forte nell’analisi di quello che viene chiamato “sistema Pd”. Un sistema che viene definito come trionfante, come capace di recuperare a destra e a manca, praticamente invincibile, addirittura “più forte del pentapartito” del secolo scorso. Ora, che il Pd sia il vero partito sistemico, piuttosto che l’anomalo Pdl, è cosa assai ovvia che andiamo dicendo da anni. Ma da qui ad attribuirgli una simile forza ce ne corre.
Il Pd è un partito in crisi, dentro quella più generale crisi del sistema politico italiano che i promotori di Ross@ proprio non riescono a vedere. Il Pd ha perso nella sostanza le elezioni politiche, ha perso milioni di voti, ha visto cadere il proprio segretario, si è diviso sull’elezione del presidente della repubblica, ed ha dovuto accordarsi alla fine con Silvio Berlusconi. Certo, è vero che il Pd è andato bene (pur essendo in discesa nei consensi) alle amministrative di maggio. Ma ci siamo scordati della specificità del voto amministrativo rispetto a quello politico?
E non sarà che ci si butta su certe interpretazioni, per quanto infondate, solo per fa piacere ai tanti che vorrebbero mettere immediatamente tra parentesi il significato più profondo del travolgente successo del M5S a febbraio?
Negare la crisi del sistema politico, ed addirittura tratteggiare un Pd pigliatutto, tanto più in una fase convulsa come l’attuale, sembra solo un modo per non vedere le potenzialità della situazione. In sostanza, un errore analitico che apre la strada ad un disastro politico, disegnando (nella migliore delle ipotesi) un tragitto meramente resistenziale, con l’obiettivo massimo di costruirsi una nicchia identitaria quanto incapace di entrare nelle contraddizioni del blocco sociale e dello schieramento avversario.
Sulla collocazione rispetto al Pd Cremaschi è chiaro: indipendenza ed alternatività. E ci mancherebbe altro! Il problema è che questa collocazione, che certo rappresenta un passo avanti rispetto al ventennale disastro chiamato Prc, non è affatto sufficiente per tratteggiare un’adeguata fisionomia politica.
La questione dell’euro e della sovranità
E qui infatti nascono i problemi più seri. Sto parlando soprattutto delle questioni dell’Europa, dell’euro, della sovranità. Cremaschi dice di voler rompere l’Unione Europea, affermando – vivaddio! – che «Quest’Europa è come quella di Metternich del 1848, non è riformabile. I sovrani assoluti debbono essere spodestati, altrimenti non riesci a fare niente». Perfetto, verrebbe da dire. Peccato che i passaggi successivi della sua relazione vadano in tutt’altra direzione. Alla chiarezza delle enunciazioni di cui sopra fa infatti seguito il confusionarismo tipico di una parte dei suoi compagni di strada.
Ma sentiamo cosa afferma testualmente Cremaschi:
«Poi c’è una discussione fra di noi: la sovranità europea, la sovranità nazionale, io ho l’impressione che non sia la nostra discussione. Mi riferisco ai compagni di Mpl, che non aderiscono al nostro progetto perché non siamo chiari su euro e sovranità nazionale. Io penso che non possiamo dire “torniamo alla lira”, perché non è una battaglia di sinistra. Magari ci si torna, ma non possiamo ragionare su questo.
Dobbiamo ricordare, lo ripeto sempre, che l’unica volta che l’Italia decise in qualche modo di tornare alla lira riconquistando l’autonomia monetaria (era il 1992 quando l’Italia uscì dallo Sme), in cambio noi dovemmo dare l’abolizione della scala mobile, del contratto nazionale, il taglio delle pensioni, la privatizzazione delle banche, la tassa straordinaria. Ve la ricordate la Manovra del governo Amato del 31 luglio del 1992?»
Questa ricostruzione dei fatti è falsa e inaccettabile! Cremaschi tenta di far credere che l’eliminazione della contingenza, l’attacco al contratto nazionale e il taglio delle pensioni, vennero adottati come conseguenza della svalutazione della lira. Il taglio della scala mobile avvenne con l’accordo del luglio 1992, mentre la lira venne svalutata solo a settembre. La verità dunque è che i sacrifici per i lavoratori – incluso l’attacco ai contratti (accordo del luglio 1993) e quello alle pensioni culminato con la legge Dini del 1995 – scattarono in virtù dell’applicazione del Trattato di Maastricht (firmato non a caso poco prima dell’abolizione della scala mobile, il 7 febbraio 1992). Si trattò dunque di un insieme di misure finalizzate alla nascita della moneta unica. Ed il fatto che si glissi proprio su questo è perciò assai significativo.
La rivendicazione della riconquista della sovranità nazionale viene brutalmente respinta perché … “non è di sinistra”. Una prova lampante di quello che chiamiamo “identitarismo”. Anzi, se posso permettermi, identitarismo trascendentale. Qui non c’è l’analisi concreta della situazione concreta, bensì una vera e propria metafisica degli obbiettivi: al di sopra della realtà e dei suoi mutamenti, ci sarebbero quelli “puri” di sinistra. Un astrattismo disarmante quanto semplicistico. Come se fosse la prima volta che contraddizioni secondarie diventano primarie (o viceversa), e che obbiettivi prima esclusi dall’agenda possono entrarvi in forza del mutato contesto storico e sociale.
Per dirla tutta: non si vuole prendere atto che dentro l’Unione eurista ad egemonia tedesca l’Italia è diventata una specie di semi-colonia, una provincia a sovranità limitata, un protettorato governato da proconsoli. Non si vuole capire che una sinistra rinascerà in questo paese solo se impugnerà, prima che sia troppo tardi, la battaglia sovranista, che è una battaglia per sua stessa natura anti-oligarchica e democratica. Non ci si vuole rendere conto che a forza di essere abbarbicati a vecchi postulati identitari pseudo-internazionalisti (di passata: per alcuni sinistrati la questione della “sovranità nazionale” rimane un tabù, mentre non lo era l’andare in parlamento a far da sgabello a Prodi) si spiana la strada a quelle forze reazionarie che declineranno il sovranismo in funzione antiproletaria. E allora saranno dolori.
Ma citare il caso del 1992 è inaccettabile anche sul piano politico, oltre che su quello della ricostruzione storica. Anzitutto perché Cremaschi sa benissimo che chi come noi ritiene necessaria l’uscita dall’euro, affianca a questo obiettivo una serie di misure strutturali (nazionalizzazione del sistema bancario, ristrutturazione del debito pubblico, reintroduzione della contingenza su salari e pensioni, eccetera). In secondo luogo perché non fu a causa della svalutazione della lira che perdemmo la battaglia degli Accordi antipopolari del luglio 1992, quanto per la complicità dei sindacati confederali e del grosso della sinistra, che li sostennero proprio in virtù dell’adesione a Maastricht e in nome dell’euro.
E’ disarmante, poi, che Cremaschi non tenti per niente di tenere ROSS@ in sintonia con l’evoluzione della sinistra radicale europea. Dalla Grecia al Portogallo, dalla Germania alla Spagna (vedi il manifesto anti-euro della sinistra spagnola) la maggioranza delle sinistre radicali è oramai per uscire dall’euro e riconquistare la sovranità monetaria. Per non parlare delle sinistre antagoniste dei paesi dell’Unione che non hanno l’euro e che non si sognano nemmeno lontanamente di adottarlo.
Impossibile infine non segnalare la contraddittorietà del discorso di Cremaschi: da un lato egli dice che “l’euro rappresenta un’operazione reazionaria ai danni delle classi popolari”, dall’altro se ne esce con la formuletta secondo cui: “noi non siamo per l’unità nazionale per l’euro, ma neppure per l’unità nazionale per la lira”.
Ora, a parte il fatto che non sappiamo chi abbia proposto “l’unità nazionale per la lira”, che significa questo ponziopilatismo di fronte ad una questione di cui tutti discutono, con pezzi della sinistra europea che, come abbiamo già detto, iniziano a posizionarsi per l’uscita dalla moneta unica? Insomma, Cremaschi non può spingersi neppure laddove è già arrivato perfino Lafontaine?
E l’antimperialismo?
Un atteggiamento simile a quello sull’euro lo troviamo più in generale sulle questioni internazionali. Anche in questo caso le contraddizioni interne ai promotori avranno certo pesato. Ma dove può andare un soggetto politico anticapitalista senza una chiara posizione sull’imperialismo e sulla legittimità delle resistenze antimperialiste? Eppure è proprio questo che si va profilando.
Cremaschi, bontà sua, concede che “esiste un campo imperialista”, ma nega che esista un “campo antimperialista”. Qui emerge tra le righe la consunta narrazione pacifista e nuovamente identitaria per cui le resistenze legittime sarebbero solo quelle… “di sinistra”, narrazione che cela a malapena il suo marchio islamofobo.
La conseguenza, non da poco almeno per le sue componenti dichiaratamente antimperialiste, è che il soggetto politico in gestazione non è in grado di esprimere una sua posizione sulla politica internazionale. Del resto l’acronimo Ross@ già lo lasciava intendere. Esso sta infatti per Resistenza, Opposizione, Socialismo, Solidarietà, mentre all’assemblea di Bologna (11 maggio) ci venne spiegato che la A (ora più volentieri trasformata in @) poteva essere interpretata come Anticapitalismo, Antimilitarismo, Antipatriarcato, eccetera, ma non in Antimperialismo. Un particolare che rivela molte cose.
Ultimo, ma certo non per importanza, a tutto ciò fa da cornice, come abbiamo già detto, una prospettiva meramente resistenziale. Dove la resistenza non è concepita come base per un progetto che guarda alla sollevazione, ma come habitat e forma mentis di una sinistra ormai incapace anche solo di pensare alla discesa in campo di ampi settori popolari.
Cosa potrà venir fuori da una simile impostazione? Certo, se eravamo pessimisti prima, figuriamoci ora dopo la riunione del 15 giugno. Una riunione che ha confermato i timori più seri, quelli sui quali avremmo voluto essere smentiti. La sensazione è che alla fine o il progetto non decollerà per niente (e le difficoltà nel convocare le assemblee regionali questo fanno pensare), o al massimo porterà ad una sorta di “piccola Rifondazione”, certo indipendente dal Pd ma con le stesse palle al piede, culturali prima ancora che politiche.