Quando nel gennaio 2011 milioni di egiziani dilagavano per le strade facendo barcollare e poi cadere il regime tirannico di Mubarak, questo si difese denunciando un “complotto internazionale ordito dai nemici dell’Egitto. E’ sorprendente che in queste ore, mentre milioni di egiziani si stanno nuovamente riversando nelle strade per chiedere le dimissioni di Morsi e assaltano le sedi della Fratellanza musulmana, questa’ultima ricorre al medesimo patetico alibi, quello del “complotto dei nemici dell’Egitto”.

Stupidaggini. Nessun complotto poteva spingere milioni di cittadini a rischiare la pelle per abbattere la dittatura di Mubarak, né tantomeno oggi l’accusa di “cospirazione esterna” può spiegare le ragioni profonde di una protesta popolare tanto massiccia.

E chi sarebbero del resto questi nemici che vorrebbero far saltare per aria un paese la cui stabilità interna è condizione imprescindibile di quella regionale e della pax americana? Non se ne vedono.

In realtà il principale nemico di Morsi si è rivelato essere egli stesso, tanti e tali sono stati gli errori compiuti dal suo governo. La spaventosa crisi economica che strozza l’economia egiziana, con lo strascico di miseria per le larghe masse rurali e urbane, se è la causa fondamentale delle proteste di massa, ha contribuito ad ingigantire gli sbagli del governo della Fratellanza musulmana.

Primo su tutti la boria politica, la presunzione di questa tentacolare confraternita (partito per modo di dire) di essere autosufficiente e di potere imporre assetti costituzionali di tipo settario e antidemocratico. Mentre gli egiziani, non solo quelli più poveri ma pure il ceto medio, chiedevano rimedi alla crisi economica, Morsi, ubbidendo ad un riflesso condizionato (e alla grande borghesia commerciale sunnita), era tutto indaffarato a modellare le istituzioni in base ai disegni della Fratellanza, ed a piazzare gli uomini di questa nelle posizioni chiave dell’apparato statuale. Ha incontrato sulla sua strada non solo la resistenza di apparati statuali mubarakiani, ma l’ostilità crescente delle opposizioni politiche, sociali e religiose. Morsi le ha non solo sottovalutate; cercando di metterle in un angolo, rifiutando ogni dialogo, respingendo l’idea di un percorso inclusivo per scrivere una nuova Costituzione democratica, ha compiuto il miracolo di unire la gran parte dei suoi avversari in un blocco unico, nel Fronte nazionale di salvezza (Fns), che è quello che ha chiamato alle imponenti manifestazioni di domenica 30 giugno, svoltesi all’insegna del grido irhal! Vattene!

Se la Fratellanza musulmana è un coacervo interclassista anche il Fns certamente lo è. Nel Fns si riconoscono forze di sinistra, anche radicale, e sindacati dei lavoratori, ma alla guida ci sono senza dubbio pezzi di borghesia che non accettano uno Stato di tipo islamico, che le vedrebbe fortemente emarginate. Non c’è dubbio che dietro le quinte, in appoggio al Fns si agitino anche i cascami del vecchio regime mubarakiano, notabili e alti burocrati che sperano si ritornare al potere. Un rischio reale che potrà essere sventato solo a condizione che la mobilitazione non si fermi, nemmeno davanti alle probabili dimissioni di Morsi, e che vada fino alla vittoria, ovvero alla formazione di una assemblea costituente.

La caduta di Morsi sotto la pressione della mobilitazione non avrebbe solo pesanti ricadute sulla compattezza della Fratellanza musulmana egiziana (facendo venire alla ribalta le sua componenti più democratiche e lontane da una visione confessionale), avrebbe effetti a cascata su tutta la rete islamica che fa capo alla Fratellanza, dal Marocco alla Turchia, passando anche per la Palestina e la Siria. Quel che accade in Egitto è infatti il momento della verità per tutta la sterminata confraternita della Fratellanza, che per ora vede unite le diverse sue anime politiche e religiose, da quella filo-turco-qatariota a quella filo-americana, da quella salafita filo-saudita a quella che guarda di buon occhio all’amicizia con l’Iran shiita. Le divisioni interne alla Fratellanza, già emerse prima delle elezioni che portarono all’ascesa dell’imbelle Morsi, potrebbero deflagrare con conseguenze, appunto, a livello regionale — nonché sulla capillare rete di moschee sparse per l’Europa e gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti di Obama, che finirono per abbandonare Mubarak al suo destino e consacrare l’ascesa al potere della Fratellanza, per adesso stanno alla finestra. Non hanno ancora deciso da quale parte far pendere il loro pendolo. La Casa Bianca pensa di essere in una botte di ferro avendo dalla sua il potente esercito egiziano, alle sue dipendenze e che detiene il potere di ultima istanza.

Il rischio, se l’Egitto precipitasse nel caos, potrebbe quindi essere un golpe militare. Un esercito che si porrebbe formalmente come organismo super partes, ma che finirebbe per imporre la propria dittatura per nome e per conto dell’amministrazione nordamericana.