Tutti, ad eccezione di Israele, sembrano soddisfatti dell’inaspettato risultato delle elezioni presidenziali iraniane. Date le esplosive tensioni regionali e globali, viene il sospetto che ci sia qualcosa di sbagliato in questa apparente armonia.
Il regime
E’ anzitutto la Guida Suprema Khamenei che può considerarsi contenta. L’intero sistema della Repubblica islamica ha mostrato la sua capacità di adattarsi agli eventi. Non solo l’alta affluenza alle urne ha un significato politico, lo stesso si può dire per l’aver permesso ad una figura che non appartiene direttamente alla fazione dominante di accedere alla Presidenza. Se non ci fossero state le precedenti perorazioni di Khamenei per i candidati conservatori (che tutti insieme hanno preso meno voti rispetto Rohani), si potrebbe pensare che la Guida Suprema abbia inventato e creato Rohani.
La vittoria di quest’ultimo risolve diversi problemi.
Il sistema, a bassa voce e senza troppi problemi, si sbarazza del logoro e screditato Presidente Ahmadinejad (il quale conserva comunque un suo seguito), che con la sua ascesa aveva assicurato l’appoggio delle classi più umili al sistema. In secondo luogo getta un ponte alle forze che sostennero il movimento dell’Onda verde, quindi apparentemente sana la spaccatura profonda che avvenne al tempo —e ciò senza mettere in discussione il ruolo della Guida suprema. In terzo luogo, il conflitto con l’occidente potrebbe essere ammortizzato. Al fine di mobilitare la maggioranza dietro il regime e contro l’Occidente è necessario che l’aggressione sia ragionevolmente attribuibile a Washington & Co e non alimentato e amplificato da provocazioni iraniane. Solo in pochi hanno dimostrato di essere disposti a pagare il prezzo per gli attacchi retorici di Ahmadinejad.
Rohani, insediandosi, porterà ad una temporanea stabilizzazione del sistema e del suo centro, che già era apparso piuttosto isolato a causa di conflitti interni e delle difficoltà economiche.
I Verdi e la riforma degli ayatollah
Per lo sconfitto Movimento Verde il successo di Rohani potrebbe essere una rivincita tardiva e parziale. Si può interpretare come il massimo possibile in condizioni di realpolitik. Alcuni non saranno contenti di questo e cercheranno di spingersi di nuovo più avanti. Prima o poi il nuovo Presidente avrà bisogno di rispondere alle istanze sociali e politiche che animarono il Movimento dell’Onda verde e quindi rivelare i suoi limiti.
Rohani godeva del sostegno degli ayatollah riformisti, tra cui il candidato alla presidenza delle ultime elezioni, Moussavi, quello dell’ex presidente Khatami così come del chierico veterano e grande capitalista Rafsanjani, che questa volta è stato escluso dalla corsa. Per tutti loro Rohani rappresenta un buon compromesso, un uomo che difenderà i loro interessi senza creare automaticamente un conflitto con la Guida suprema Khamenei. Non c’è dubbio che questi settori preferiscono questa modalità ad un nuovo Movimento verde che alla fine mette in discussione le intere fondamenta della Repubblica islamica. Il pericolo che viene da un tale scenario, viste anche le ribellioni arabe e le loro complicazioni, è esemplificato dal fatto che Moussavi rimane agli arresti domiciliari. Sarà una svolta se Rohani riuscisse a riconsegnare a Moussavi la sua libertà di movimento. Ma nulla è certo.
L’occidente
In vista delle elezioni i grandi media occidentali erano scettici. Essi hanno continuato la campagna contro uno dei loro nemici preferiti. A loro non importava tanto chi fossero i singoli contendenti. Ma non appena la sorprendente notizia è arrivata da Teheran l’umore è cambiato, e a Rohani è stato dato il benvenuto. La politica iraniana di Washington è stretta in un vicolo cieco e non sembra esserci alcuna via d’uscita. C’è l’enorme questione del dossier nucleare che ha ingarbugliato l’intera impostazione egemonica globale degli Stati Uniti. Israele strategicamente pressa per un attacco militare. Washington, tuttavia, è consapevole che alla lunga e impossibile vincere. Il tentativo di regime change può essere un boomerang e peggiorare le cose. Ora possono puntare su Rohani e temporeggiare senza snobbare il loro più stretto alleato — questo è il motivo del disappunto di Tel Aviv.)
C’è poi il problema siriano. Alla fine Obama ha riconosciuto che l’unica soluzione possibile è una soluzione negoziata sulla base di una difficile condivisione del potere. Quest’orientamento non contraddice la decisione recente di fornire armi ai ribelli e l’intervento dei suoi alleati regionali. Washington sa anche che, in una forma o nell’altra, Teheran deve essere inclusa al tavolo negoziale. In questo contesto il nuovo presidente iraniano arriva al momento giusto anche per l’Occidente.
Ma non può piacere a tutti
Tali trasversali felicitazioni, come quelle per Rohani, capitano raramente e sono destinate ad evaporare presto. Le contraddizioni con cui Rohani dovrà fare i conti sono troppo profonde ed esplosive per permettergli di rimanerne al di sopra. C’è in Iran una richiesta di democrazia e di libertà culturali da parte delle classi medie urbane, similmente alla Turchia e al mondo arabo. Il paese è strangolato da un embargo paralizzante e la questione della giustizia sociale rimane acuta. Per non parlare delle conflagrazioni regionali (medioriente) e il loro carico senza precedenti di settarismo.
Si può prevedere che il nuovo presidente cercherà di continuare con prudenza sulla linea di Khatami: tacita tolleranza, più libertà e spazi culturali e politici. Meno provocazioni verso l’Occidente cercando una distensione diplomatica senza cedere sui diritti nucleari. Tutto questo potrebbe generare un ampio consenso per adottare una linea più neo-liberista in campo economico. Ma queste sono solo intuizioni, suggestioni e non dobbiamo dimenticare che un tale programma è già fallito una volta.
Ripetizione di un ciclo?
D’altra parte una cosa sembra difficile immaginare, che nelle mutate circostanze Rohani possa semplicemente continuare dove Khatami ha terminato. Khatami fallì e subì una sconfitta decisiva.
Ricordiamo il ciclo della crisi: dopo il periodo durissimo causato dalla guerra con l’Iraq la maggioranza degli iraniani anelava alla tranquillità e a dei cambiamenti simili a quelli che Rohani interpreta oggi. Ma Khatami non riuscì a migliorare le condizioni sociali delle grandi masse, né decollò il suo “dialogo tra le culture”. Dall’altra parte dell’Atlantico Bush aveva intrapreso il suo scontro di civiltà prevalentemente rivolto all’Islam.
Per gli apparti dirigenti della Repubblica islamica le liberalizzazioni andarono troppo avanti evocando spiriti indesiderati. Arrivò dunque, al momento giusto, Ahmadinejad. Senza di lui Khamenei non avrebbe deciso di eliminare Khatami così facilmente — a quel tempo il pericolo di ciò che diventerà il Movimento verde c’era già. Ahmadinejad ha mobilitato i poveri e gli oppressi. Lo ha fatto su una base culturalmente conservatrice che piacque ai vertici del regime. Ma ha assunto sfumature anticlericali con tracce di millenarismo che ha finito per irritare le élite dominanti.
La questione, in ultima istanza, è che il nocciolo duro del sistema, basato sul blocco tra clero e la classe mercantile del bazar, è troppo debole per governare da solo in maniera stabile e regolare. Sin dalla fine della guerra con l’Iraq queste elite hanno avuto bisogno di partner e alleati ai margini o al di fuori del perimetro della Vilayat-e Faqih. Alleati che, tuttavia, tendono a mettere l’intero sistema in discussione.
Così la popolarità generale del nuovo Presidente potrebbe ad un certo punto trasformarsi in impotenza e disperazione – come è accaduto ai suoi predecessori.
Traduzione a cura della redazione