Chi aveva ancora dei dubbi sul fatto che quello capeggiato dal generale Abdel Fattah al-Sisi fosse un colpo di Stato in piena regola dovrà ricredersi.

Il nuovo uomo forte del regime aveva giustificato l’abbattimento del governo guidato dalla Fratellanza musulmana e l’arresto di Morsi e di decine di suoi dirigenti, come misure necessarie per “riportare l’ordine in Egitto”.

Al-Sisi mentiva sapendo di mentire.
Il golpe non poteva non scatenare la protesta di massa. Così è stato. Solo ieri ci sono state un centinaio di vittime, quasi tutti militanti della Fratellanza, ammazzati dal piombo dei militari e delle forze speciali della polizia. Ma è un conto solo approssimativo. Decine e decine di manifestanti feriti lottano negli ospedali tra la vita e la morte. Non è dato sapere quanti sono stati fatti prigionieri — secondo alcune fonti ci sono oggi in Egitto il doppio di prigionieri politici che ai tempi del vecchio regime.

Il Venerdì di sangue di ieri è stato l’acme di un’ondata di proteste che il regime dei militari ha represso nel sangue, facendo forse più vittime di quante ne fece Mubarak prima della sua caduta.
Un’ondata che la repressione arresterà o che precede verso una vera e propria guerra civile?
Di sicuro il pugno di ferro dell’Esercito, da sempre il vero dominus del paese, ha per scopo quello di evitare che lo scontro prenda la piega siriana. L’Esercito sembra agire sulla falsariga dell’Okrana, i servizi di intelligence russi ai tempi dello Zar, ovvero, scatenare preventivamente una miniguerra civile così da spingere allo scoperto le forze sovversive e quindi annientarle prima che possano diventare una vera e propria minaccia per il potere.

I militari del generale al-Sisi non avrebbero potuto mettere in atto il loro colpo di Stato senza essersi prima assicurati il sostegno (scandaloso) del movimento Tamarrud, dei cosiddetti “giovani ribelli”, quelli che nei mesi scorsi avevano dato vita alle manifestazioni contro il governo Morsi. Ora al-Sisi, incapace di fermare la protesta della Fratellanza che si sente defraudata della sua legittimità, esorta la folla a scendere di nuovo in strada. Questa chiamata di correo, se è una prova di debolezza dei militari, fa del Tamarrud una specie di truppa ausiliaria dei militari golpisti, e quindi lo espone ad una crisi ineluttabile. Ci sono già i primi segni dello sfaldamento dell’alleanza ampia che protestava contro il governo Morsi.

Proprio come in Siria la crisi ha tre livelli: interno, regionale e internazionale.

La società egiziana è spaccata in due, da una parte la Fratellanza musulmana che vorrebbe seguire una specie di via turca, dall’altra un blocco sociale composito che non ne vuole sapere di islamizzare istituzioni e società. Entrambi questi blocchi sono capeggiati dalle due opposte fazioni della borghesia egiziana. E’ una tragedia che le sinistre del paese, invece di occupare lo spazio indipendente tra queste due fazioni in lotta fra loro, una volta caduto Mubarak, abbiano scelto invece di fare la quinta ruota del carro dell’Esercito.

D’altra parte contro Morsi e la Fratellanza (che di errori politici in un anno e mezzo di governo ne hanno fatti a bizzeffe) si sono schierati anche i salafiti del partito al-Nour, notoriamente finanziati e schierati con l’Arabia saudita e la corrente islamica wahabita. In Egitto, come in Palestina, in Siria, in Tunisia e in tutto il mondo arabo, l’islam politico di filiazione saudita cerca in ogni modo di contrastare non solo l’sialam shiita filo-iraniano, ma anche la crescente influenza della Turchia e del suo islamismo in salsa neo-ottomana. Questa lotta tra sauditi e turchi attraversa tutto il mondo sunnita e dilania la stessa Fratellanza. E’ sintomatico che l’Arabia saudita, che non perdonò a Morsi il riavvio delle relazioni diplomatiche con l’Iran, abbia immediatamente riconosciuto il colpo di Stato.

Sul piano regionale ovviamente operano diversi altri attori, l’islam jihadista da una parte (al-Qaida si è schierata in difesa di Morsi), e i movimenti panarabisti tipo Baath siriano che hanno invece sostenuto il Golpe, così segnalando la loro opposizione frontale all’egemonismo neo-ottomano di Ankara e il riavvicinamento tattico ai sauditi.

Per quanto possa apparire strano ai complottisti che dietro ad ogni stormir di fronde vedono lo zampino del grande demiurgo nord-americano, la Casa Bianca sembra assistere impotente al precipitare degli eventi senza davvero poterli telecomandare.

Il caos egiziano complica infatti, e di molto, le cose agli americani.
Se fino a ieri gli equilibri regionali sembravano giocarsi solo in Siria,  adesso l’Egitto potrebbe diventare un secondo epicentro della contesa geopolitica.

La contesa multipla per l’egemonia regionale tra Iran, Turchia e Arabia Saudita, impedisce agli americani di surdeterminare i conflitti mediorientali, sovraordinandoli e subordinandoli alle loro esclusive pretese imperiali.

Con grande prudenza e non senza imbarazzo la Casa Bianca spalleggia la coalizione sgangherata che vede unite, contro il regime di Bashar al-Assad le tre principali componenti islamiste: i filo-sauditi, i filo-turchi e i jihadisti — con questi ultimi che si stanno incuneando abilmente (e minacciosamente per gli americani) tra i tre principali litiganti islamisti regionali.

La verità è che gli Stati Uniti non sanno che pesci prendere, ciò che accresce il rischio che il caos egiziano, dopo il conflitto in Siria, accresca la possibilità che tutto il Medio oriente precipiti in una specie di Guerra dei Trent’anni. Una mediorientale pace di Westaflia è lontana.