Dibattito sull’euro (8. Moreno Pasquinelli)
Cesaratto, Lordon, Brancaccio, Bagnai e la questione del superamento della moneta unica

Le euro-oligarchie lotteranno fino all’ultimo per tenere in vita la moneta unica, il morto che cammina. La costruzione dell’eurozona e dell’Unione europea ha implicato la nascita e lo sviluppo di una tecno-burocrazia dalla dimensioni ciclopiche. Questo pachiderma si è sviluppato per cerchi concetrici, dai due centri di Bruxelles e Francoforte, fino ad afferrare i singoli paesi, le loro macchine statuali e amministrative.

Un enorme organismo politico e burocratico continentale, con un suo complesso sistema nervoso che ubbidisce ad un sordo istinto di sopravvivenza. In fondo parliamo di un apparato con una catena di comando che coinvolge decine di migliaia di funzionari. A questo apparato di tecnici va aggiunto l’esercito sterminato dei funzionari politici: centinaia di migliaia. Non si faranno da parte tanto facilmente, le tenteranno tutte prima di arrendersi.

Siccome lo scoppio dell’eurozona è nell’ordine delle cose, è evidente che coloro che sono alla guida di questa mostruosa macchina hanno un “Piano B”. Dati gli squilibri crescenti essi potrebbero concepire un passo indietro, pilotando quella che è stata chiamata “segmentazione controllata  dell’eurozona”, tornando ad un sistema che noi abbiamo chiamato “Sme-reloaded”, per poi tornare nuovamente, una volta usciti dalla depressione economica, alla moneta unica.

Un simile “Piano B” sarebbe dunque l’extrema ratio per tenere in piedi la baracca oligarchica e bancocratica europea, affinché non soccomba ed anzi rafforzi le sue claudicanti posizioni nella competizione globale. Il grande capitalismo finanziario tedesco, verso il quale gli apparati euristi sovranazionali hanno una relazione simbiotica e di subalternità, alla fine potrebbe fare un passo tattico indietro e accettare un simile “piano B”. Lo accetterà a condizione che il mercato unico non sia messo in discussione, poiché quest’ultimo è la conditio sine qua non del successo della sua politica mercantilistica ed egemonica.

Questo “Piano B”, è vero, potrebbe implicare un riaggiustamento delle bilance commerciali e dei pagamenti tra i diversi paesi, ed anche una ristrutturazione dei debiti sovrani. Ma in cambio di questa concessione tattica la Germania, per nome e per conto delle grandi istituzioni predatorie finanziare e bancarie, chiederebbe una resa strategica di sovranità da parte dei diversi paesi, trasformandoli in vassalli, in appendici del sistema industriale tedesco, produttori di semilavorati  a basso costo per la sua potente macchina industriale, quindi serbatoi di mano d’opera a basso prezzo.

Occorre quindi mettersi di traverso a questo “Piano B”. Per questo diffidiamo di coloro che, pur da sinistra, vaticinano, al posto dell’euro, una cosiddetta “moneta comune”. Non è accettabile che, in nome di un malinteso ed equivoco “ideale europeista” (questa narrazione che tanti danni ha fatto a sinistra) si scambi il diavolo con l’acqua santa. I fautori della  cosiddetta “moneta comune” debbono dirci con chiarezza se sono favorevoli o contrari al MERCATO UNICO, concetto che costituisce la quint’essenza delle concezioni e delle politiche liberiste e libero-scambiste — ovvero che il mercato dev’essere lasciato a se stesso poiché tutto aggiusta, quindi senza interferenze politiche e statuali.

I monetacomunisti (si fa per dire) debbono dirci se i paesi “periferici”, cioè quelli, come l’Italia, che stanno schiattando anche a causa dei meccanismi predatori del capitalismo-casinò, hanno o no il diritto di proteggersi, ovvero di sganciarsi e fuoriuscire dalla gabbia. Debbono dirci come pensano sia possibile, senza uno sganciamento, difendere gli interessi del mondo del lavoro, delle larghe masse; come pensano siano applicabili misure per la piena occupazione e di difesa dello stato sociale, senza riacquisire piena sovranità nazionale.

Di risposte convincenti da parte dei monetacomunisti non ne vediamo. Significativo da questo punto di vista, che anche un compagno come Sergio Cesaratto (che fu il vero animatore, assieme tra gli altri ad Emiliano Brancaccio, dell’Appello dei Cento economisti del luglio 2010), pur continuando a ritenere l’Unione europea un bene prezioso, sia giunto anche lui alla conclusione che occorre sbarazzarsi dell’euro tornando alle valute nazionali ma dentro, appunto, ad un percorso di separazione consensuale e pilotata poiché «La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura dovrebbe essere negoziata e pacifica». [1]

La premessa è ovviamente discutibile. Ma che fare se questa separazione consensuale non fosse praticabile? Se, magari innescata dallo scoppio della prossima bolla finanziaria made and from USA, ci trovassimo di fronte una deflagrazione disordinata?

Allora avremmo che i singoli paesi sarebbero obbligati a correre ai ripari e il ritorno alle diverse sovranità monetarie sarebbe necessariamente guidato dalle forze politiche al potere.

Fare gli esorcismi a questa eventualità a poco serve. Serve invece capire quanto dirimente diventi, in questo caso, la questione della cosiddetta “uscita da destra o da sinistra”. Alcuni hanno fatto e continuano a fare spallucce. Da destra o da sinistra, basta che se ne esca. Non scherziamo!

In questo quadro è di grandissima rilevanza la polemica tra Emiliano Brancaccio e Alberto Bagnai. Continuiamo a ritenere che Brancaccio avesse sostanzialmente ragione, ovvero che una gestione da parte di forze liberiste di destra dell’uscita dall’euro si risolverebbe in un disastro per i salariati e le masse popolari, in un vantaggio per quelle dominanti (prima di tutto per le sue frazioni globaliste e già globalizzate), col rischio supplementare, senza porre rigidi vincoli ai movimenti dei capitali sia in campo bancario che industriale e una politica di decise nazionalizzazioni, che l’Italia sia costretta a capitolare agli assalti dei capitali stranieri svendendo banche e aziende a causa del deprezzamento dei loro asset. [2]

Il problema è quindi squisitamente politico.  E come rispose Bagnai? In questo modo:
«Non ha molto senso chiedersi come gestire la transizione perché è matematicamente certo, come ci siamo detti, che essa verrà gestita dalle persone sbagliate, quando il mercato le costringerà a farlo. (…) non si uscirà dall’euro con un governo di sinistra. Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che, salvo ritrattazioni della sinistra (comunque disastrose in termini elettorali), se si uscirà si uscirà con un governo di destra, o con un governo di sinistra che fino al giorno prima avrà difeso l’euro (cioè avrà fatto politiche di destra)». [3]

Era l’estate 2012, e già Bagnai ci consigliava di rassegnarci al fatto che le destre berlusconiane e leghiste avrebbero gestito lo shock dell’uscita dall’euro. Di acqua ne è passata sotto i ponti. Fedele al suo vaticinio, il Nostro non è restato con le mani in mano. Con quelle destre ha avuto i primi abbocchi per poi mettersi al loro servizio. 

Alcuni ci chiedono dove sia la “pistola fumante”, la prova incontrovertibile di quanto andiamo dicendo. L’avrete presto, prima di quanto pensiate. Tre indizi fanno tuttavia una prova, e di indizi ce ne sono oramai a iosa, tra cui, come abbiamo più volte segnalato la firma da lui apposta al Manifesto di solidarietà europea (gennaio 2013), assieme a liberisti ed esponenti dell’establishment eurista. L’ultimo indizio è la neonata associazione A/simmetrie, fondata in combutta con Borghi Aquilini, Giorgio La Malfa e il pezzo da novanta del sistema Paolo Savona.

Noi non ci rassegniamo affatto all’idea che siano le destre liberiste a gestire il ritorno alla sovranità monetaria. Se così sarà lo shock dell’uscita sarebbe un colossale disastro per il popolo lavoratore.

Gli uscisti di destra svaluteranno sì per dare fiato alla macchina produttiva, ma non vorranno una scala mobile per proteggere i salari dei lavoratori dipendenti ed anzi continueranno politiche di deprezzamento dei salari. 

Essi non adotteranno nessuna politica keynesiana di piena occupazione ma, al contrario, vorranno una disoccupazione alta per tenere a freno i salari.

Riavremo sì la lira ma gli uscisti di destra non torceranno un capello alle grandi banche d’affari, mentre andrebbero nazionalizzate.

Essi accentueranno i processi di privatizzazione, mentre le aziende industriali strategiche dovrebbero anch’esse essere poste sotto controllo pubblico.

Né essi vorranno toccare il gioco d’azzardo finanziario e la libertà di spostamento dei capitali, mentre occorrerà porre vincoli stringenti ai loro movimenti.

E continueranno le politiche d’austerità pur di rimborsare i creditori-strozzini, ovvero la finanza speculativa globale, di cui le banche fanno la parte del leone.

E siccome non c’è alcun dubbio che simili politiche liberiste simil-sovraniste causeranno aspri conflitti sociali, potete scommetterci, siccome è nel loro Dna, che gli uscisti di destra si sbarazzeranno definitivamente della Costituzione  della repubblica parlamentare portandoci tutti in uno Stato di diritto penale presidenzialista e di polizia.

Ognuno capisce, se vuole capire, perché è necessario mettersi di traverso a queste forze. E il primo modo per mettersi di traverso e di prepararsi alla resistenza, è quello di denunciare come trappola ideologica quella per cui c’è solo l’uscita, che essa non sarebbe né di destra né di sinistra.

A chi ci dice, rassegnato, che la battaglia è persa in partenza diciamo che si sbaglia.
Lo shock in arrivo sbragherà entrambi i due blocchi sistemici che hanno dominato la seconda repubblica. Tutto è ancora possibile. Il terremoto elettorale che si è registrato a febbraio, ha dimostrato quanto i due blocchi sistemici siano putrescenti. E’ emersa una terza forza espressione di una protesta popolare di massa.

Chi l’ha detto che di lì non possa sorgere la leva per pilotare l’uscita e coniugare la riconquista della sovranità nazionale e monetaria con gli interessi delle larghe masse?

Note

[1] «Por termine al folle esperimento implica passaggi assai complessi (v. anche Levrero 2012). La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura dovrebbe essere negoziata e pacifica. Questo complica quello che è, forse, il problema più complesso da risolvere. Scelte democraticamente prese e negoziazioni internazionali implicano processi politici assai lunghi e pubblici i quali, tuttavia, sono incompatibili con la stabilità finanziaria. Al primo vago accenno che forme di rottura dell’UME sono all’ordine del giorno politico si scatenerebbe infatti una enorme speculazione volta a spostare i capitali finanziari dai paesi con (futura) moneta debole verso quelli con (futura) moneta forte. Il che vorrebbe dire la fine immediata della moneta unica nel peggiore dei modi possibili. L’unica strada percorribile sarebbe di accordi presi un venerdì sera almeno da un consesso di paesi che contano, da ratificarsi nel week end nei parlamenti nazionali.

Banche e mercati sarebbero destinati a rimanere chiusi, tuttavia, anche per alcuni giorni successivi durante i quali verrebbero adottate misure volte ad assicurare una transizione dolce verso le monete nazionali. Gli accordi dovrebbero definire un quadro di risoluzione per i rapporti di debito-credito, ora denominati in euro, una volta effettuato il passaggio a monete nazionali. Ma come si fa ad assicurare la segretezza prima del citato vertice? Dato che questo è impossibile, è più realistico ritenere che a tale vertice si arrivi in seguito a un grave evento scatenante, come una crisi politico-finanziaria di prima grandezza in Italia o Spagna, tale da indurre alla chiusura dei mercati prima del vertice. Una volta sancita la rottura – che potrebbe sostanziarsi in un ritorno generalizzato alle monete nazionali, in un’uscita della Germania e dei suoi satelliti, o in una uscita di uno o più paesi periferici – i paesi che adottano una nuova moneta avrebbero il diritto (lex monetae) di rinominare tutti i titoli del debito pubblico e privato nella nuova moneta – a meno che il contratto sottostante non specifichi la rinuncia a tale prerogativa. Alcune forme di debito con l’estero, come quelle intrattenute attraverso la BCE con le altre banche centrali andrebbero rinegoziati. Tutti i pagamenti interni per via elettronica (che includono le carte di credito) – i soli possibili per alcuni giorni – verrebbero automaticamente rinominati nella nuova moneta, mentre in attesa della stampa delle nuove banconote, le banche rilascerebbero banconote in euro ma con una stampigliatura con scritto, ad esempio 10€ = 10 nuova-lira.

La prima decisione che il governo dovrebbe prendere riguarda la fissazione del nuovo tasso di cambio. Per l’Italia verrebbe da suggerire l’antica politica della stabilità del cambio verso il dollaro (in cui è quotato il petrolio) e di una flessibilità controllata verso il marco tedesco. Naturalmente una svalutazione dell’ordine del 20/30% verso il marco sarebbe fisiologica, ma rigidi controlli sui movimenti dei capitali dovrebbero contribuire a una successiva stabilizzazione del cambio. Il secondo indirizzo che il governo dovrebbe prendere riguarda la stabilizzazione dell’inflazione a livelli moderati lasciando sopratutto alla ripresa dell’occupazione il sostegno dei consumi. Tassi di interesse sufficientemente bassi e la ripresa della crescita dovrebbero consentire la stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil e al contempo una moderata espansione fiscale. Non si passerebbe dunque al regno del bengodi, e il paese si ritroverebbe coi problemi di sempre, ma almeno non alla mercé di altri e con qualche speranza, se decide di coltivarsela».
Sergio Cesaratto. Citato da: Quel pasticciaccio brutto dell’euro. Agosto 2013

[2] Emiliano Brancaccio. Un timido guerrafondaio. 24 luglio 2012
«Infine, rilevo tre passaggi analitici del ragionamento di Bagnai che trovo errati, e sui quali credo sia bene spendere qualche parola.

Innanzitutto, nella sua lettera a me indirizzata egli scrive: “…per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo”. Banale fatto? Può darsi che mi sbagli, ma intravedo un grave vizio neoclassico in questa proposizione. Evidentemente i modelli cui Bagnai si riferisce o sono fondati su un ceteris paribus di tipo marshalliano, oppure sono basati su assiomi in grado di determinare esistenza, unicità e stabilità di un equilibrio generale di tipo arrowiano. Al contrario, in uno schema di riproduzione, e nella realtà dei fatti, non è per nulla garantito che una svalutazione sia logicamente equivalente al protezionismo, né dal punto di vista della scala, né della composizione, né della distribuzione del prodotto sociale.

In secondo luogo, sugli effetti di una svalutazione sui salari reali e sulla quota salari, posso sapere, di grazia, cosa dovrei farmene del grafico di figura 7 riportato nella lettera d’amore-odio di Bagnai? Da economista teorico lo chiedo, sommessamente, all’econometrico, il quale sa di certo che da quella serie temporale non si può ricavare nulla che possa vagamente somigliare a una conclusione valida in generale e per il futuro. Cerchiamo allora di ragionare concentrandoci su un insieme di dati più ampio, ma riferito al caso specifico della crisi di un regime di cambi fissi, che è quello che ci interessa da vicino. Bagnai sa bene che sussistono numerose evidenze del fatto che uno sganciamento da un cambio fisso e una successiva svalutazione possono coincidere con una riduzione dei salari reali e della quota salari tutt’altro che trascurabili. Naturalmente, va ricordato che dal crollo dello SME al 1998 in Italia i salari reali rimasero quasi stazionari, e in Spagna e Francia aumentarono persino leggermente (real compensation per employee, dati Ameco). Ma bisogna anche tener presente che le quote salari di quei paesi si ridussero in misura consistente: in Italia, in particolare, la caduta fu pesantissima, dal 62% al 54% (adjusted wage share, dati Ameco).

Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale. Per giunta, tornando ai salari reali, si dovrebbe tener presente che l’arco 1992-1998 coincide in realtà con una transizione da un regime di cambi fissi ad una ancor più stringente unione monetaria, per l’ingresso nella quale si richiedeva una convergenza verso una nuova parità di cambio. E’ evidente allora che l’inflazione fu contenuta anche in virtù di quella convergenza! In una diversa situazione cosa potrebbe accadere? Difficile a dirsi. Le evidenze di cui disponiamo danno i risultati più disparati. Tra quelli meno piacevoli segnalo che nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e che dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Intendiamoci, così come è sbagliato tralasciare gli effetti sui salari, sarebbe un errore altrettanto ingenuo – o in malafede – ritenere che l’uscita dall’euro implichi necessariamente simili crolli. Tuttavia, se guardiamo non solo alla divergenza accumulata ma anche a quella prospettica dei costi unitari del lavoro interni alla zona euro, sembra logico prevedere che, dopo un eventuale sganciamento dall’euro, la dinamica delle variabili monetarie sarebbe considerevole. Pertanto, a meno di cadere nel vizio di Blanchard di considerare il markup come una variabile dipendente dalla sola elasticità della domanda e insensibile alla dinamica delle variabili monetarie, ho il forte sospetto che faremmo bene a cautelarci, esigendo: 1) una indicizzazione dei salari, 2) un ripristino dei controlli amministrativi su alcuni prezzi “base” ed anche 3) una politica di limitazione degli scambi che ci aiuti a governare meglio le fluttuazioni delle valute. Chi si ostina a eludere questo problema deve capire che così non aiuta la transizione ma la ostacola.

Infine, è evidente che dentro la zona euro il valore relativo dei capitali nazionali dei paesi periferici declina, ma per quale motivo questa ovvietà dovrebbe esimerci dall’esaminare l’effetto ulteriore e accelerato che una svalutazione avrebbe su quel valore? Solo una sindrome à la Eugene Fama potrebbe indurci a ritenere che i prezzi correnti abbiano già pienamente scontato la svalutazione futura! In realtà, l’ampia letteratura sui “fire sales” segnala che il deprezzamento del cambio in genere implica una ulteriore caduta ex-post dei prezzi degli assets. Per questo, occorre mettere in chiaro che un eventuale sganciamento dall’euro deve essere immediatamente affiancato da vincoli alle acquisizioni estere, in campo sia bancario che industriale. La sequenza del 1992, in cui svalutazione, privatizzazioni e dismissioni all’estero furono legate da una precisa catena logica, dovrebbe averci insegnato qualcosa, spero. Ancora una volta, chi gioca a sostenere che “possiamo far saltare la moneta unica” e poi il resto si vede, non ha capito niente. Io però confido che Goofy capisca».

[3] A. Bagnai. Inflazione, svalutazione e quota salari. 6 settembre 2012