In attesa della Legge di Stabilità diamo un’occhiata ai fantasiosi e truffaldini conti del cav. Saccomanni

Circola una favola, anzi due. Ma vediamo la prima, decisamente a lieto fine. Secondo i narratori del nostro tempo, giornalisti professionalmente dediti a ricopiar veline, il cav. Saccomanni (un cavaliere non ce lo facciamo mai mancare), ha infine sconfitto il nemico: un tremendo sforamento dello 0,1% nel rapporto deficit/pil per l’anno di grazia 2013!

Uno zerovirgolauno! Roba da far rizzare i capelli all’occhiuto Olli Rehn, un ex calciatore della serie A finlandese – quella su cui scommettono in molti alla Snai, dato l’indiscusso grado di broccaggine di molte squadre – che ora la simpatica Europa ha messo lì a controllare i conti dei paesi commissariati. Ed Olli è appunto, di nome oltre che di fatto, un «commissario».

Secondo la narrazione Olli, che da calciatore non risultava così veloce, si precipitò a Roma a metà settembre per vederci chiaro: uno 0,1 è davvero piccolo e bisogna scovarlo subito, prima che venga nascosto nella polvere sotto il tappeto. Perché così fanno gli italiani, anche se cavalieri ed a lungo allenatisi come rappresentanti di Bankitalia presso il Fmi e la Bce…

Ora, però, è tutto a posto. Lo zerovirgolauno è stato sistemato. Ma era, davvero, uno 0,1? Ci permettiamo di dubitarne, tanto Olli non ci legge, ed i suoi superiori sono certamente già informati dei fatti. Il dubbio sorge spontaneo leggendo i conti presentati, con la Nota di aggiornamento del DEF 2013, dal solerte Saccomanni giusto tre giorni dopo la visita del commissario europeo. Con ogni probabilità il tappeto di via XX Settembre non nasconde uno sforamento dell’0,1% (1,6 miliardi), ma dell’1% (16 miliardi).

Ma procediamo con ordine. In fondo la questione da cui siamo partiti non è la più rilevante, ma è la più attuale e ci serve a capire come funzionano certe cose. La cosa più importante da capire è però un’altra: che il debito italiano è ormai insostenibile, e che non si uscirà dalla morsa austeritaria senza una sua profonda ristrutturazione. Si tratta di capire, dunque, che i numeri del cav. Saccomanni sono non solo fantasiosi (la fantasia finalmente al potere!?) ma apertamente truffaldini.

E qui arriviamo alla seconda favola. Anch’essa ovviamente a lieto fine. Secondo le tabelline del MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze) il piano di rientro dal debito è ormai cosa fatta. Nel loro piano quinquennale – sì, come in Unione Sovietica, anche se lì non ha portato fortuna – quelli del MEF disegnano una curva di rientro perfetta. Fin troppo perfetta. Talmente perfetta da rispettare alla lettera le imposizioni del Fiscal Compact.

Ora, se non fosse che dietro quei numeri c’è semplicemente l’annuncio di un devastante massacro sociale, ci sarebbe da ridere. Perché il massacro lo faranno senz’altro, ma i conti non gli torneranno comunque. Il loro disegno è dunque doppiamente criminale, come insegna la Grecia. Aver affamato i greci non è bastato, aver portato la disoccupazione al 27,6% (quella giovanile al 54,6%) non è bastato. Secondo la stessa direttrice del Fmi, Christine Lagarde, nel 2014 servirà un nuovo haircut (sforbiciata) al debito greco, dopo quello del 2012.

Cosa c’entra la Grecia? C’entra, eccome, dato che il debito italiano (in rapporto al pil) è secondo solo a quello greco, e la sua curva di crescita reale non è poi così diversa da quella registrata ad Atene. Certo, oltre a queste analogie vi sono le differenze, ma non facciamoci ingannare dalle illusioni governative.

Entriamo dunque nel merito delle previsioni contenute nel documento del MEF, soffermandoci su quattro punti: la «crescita», il debito, le condizioni previste per raggiungere gli obiettivi, per ritornare infine alla credibilità del disavanzo previsto per il 2013.

La «crescita»

Chi abbia anche una minima frequentazione con le previsioni economiche, non solo quelle di fonte governativa, sa almeno due cose: la prima è che le previsioni non c’azzeccano mai, la seconda (specie negli ultimi anni) è che al nero sul presente, segue sempre un grigio per il prossimo anno, fino ad un rosa sempre più netto per gli anni a venire. Che abbiano studiato alla Bocconi, o nelle più prestigiose università d’oltreoceano, due cose le hanno imparate: indorare la pillola senza rischiare troppo (in quanti si ricordano le previsioni di un anno prima?) e fare il «copia-incolla» con le illusioni dell’anno precedente, con la sola accortezza di far slittare la «ripresa» di dodici mesi.

Ora, se sbagliare è il destino di ogni previsore, sbagliare sempre nella stessa direzione è un po’ più che sospetto. E’ anzi la prova provata di un imbroglio che si cerca di dare a bere ad un popolo supposto come bue. Vediamo dunque di non farci infinocchiare.

Secondo il MEF la crescita del Pil nei prossimi anni sarebbe la seguente. +1,0% nel 2014, +1,7% nel 2015, +1,8% nel 2016, +1,9% nel 2017. Anche se questi dati fossero attendibili, considerando che dall’inizio della crisi (2008) l’Italia ha perso circa un 9% di Pil, la «ripresa» ipotizzata vedrebbe al 2017 un Pil ancora sotto di un 3% rispetto a quello del 2007. Ma il fatto è che i dati di Saccomanni attendibili non sono.

Intanto, solo restando al 2014, le stime del Fmi (che generalmente sono più affidabili) prevedono una ripresina più flebile (+0,7%), mentre quelle dell’Ocse si fermano addirittura allo 0,4%. Ma il punto è un altro, ed è che le previsioni del governo non tengono in alcun conto l’effetto recessivo dei tagli che ancora si vogliono fare alla spesa pubblica. Tutti gli studi fin qui effettuati sulla materia hanno dimostrato quanto questi effetti siano stati sottostimati in passato, ma di un’autocritica, o quantomeno di una revisione dei criteri di calcolo, non c’è traccia nel documento firmato da Saccomanni.

Ma che cosa trainerebbe, secondo il MEF, la ripresa prevista? In primo luogo le esportazioni. Cresciute di un misero 0,2% nel 2013, queste dovrebbero incrementarsi con percentuali sempre superiori al 4% nei quattro anni successivi. E’ credibile questa ipotesi? Anche alla luce della svalutazione del dollaro, e delle monete di buona parte dei Brics, la risposta non può che essere negativa.    

Intendiamoci, una breve e modesta «ripresina» è cosa assai probabile, trattandosi di un fatto fisiologico dopo due anni di incessante arretramento dell’economia, ed a sei anni dall’inizio della più grave recessione dopo quella del 1929. Solo che, a differenza di quanto vorrebbero farci credere, non vi è alcun segnale di una ripresa che vada oltre questa asfittica fisiologia della crisi.

Il debito

Ovviamente la dinamica del debito è strettamente legata a quella della crescita economica. Per cui ad una previsione di crescita eccessiva, corrisponde inevitabilmente una stima eccessivamente ottimistica del livello del debito. Questo non solo perché il variare del denominatore modifica ovviamente il rapporto debito/pil a parità di debito, ma anche perché il livello della crescita/decrescita si riflette inevitabilmente sia sul lato delle entrate tributarie e contributive che su quello delle prestazioni per far fronte alla disoccupazione.

Vediamo ora la sequenza del rapporto debito/pil. Prima quella degli ultimi anni, poi quella prevista dai tecnici di via XX Settembre.

La sequenza degli ultimi anni è quanto mai illuminante. Nel 2011 – anno in cui la crisi del debito venne conclamata in tutta la sua gravità, fino a portare Monti a Palazzo Chigi con l’obiettivo dichiarato di porvi rimedio – il rapporto debito/pil era pari al 120,8%. Dodici mesi dopo, al 31 dicembre 2012, dopo un anno di «cura Monti», il debito era salito al 127,0%. A fine 2013 era previsto (a legislazione vigente) un non proprio brillante 133,0%, ora corretto dal cav. Saccomanni al 132,9%.

Ecco dove ci hanno portato due anni di perfetto asservimento all’Europa. Non lo diciamo noi, ma le tabelle del Ministero dell’Economia.

Vediamo ora le previsioni per il futuro. Come per la crescita, anche per il debito vale la regola cromatica del nero (per il presente), del grigio (per l’immediato futuro), del rosa (per gli anni a venire). Abbiamo dunque un 132,8% per il 2014, un 129,4% per il 2015, un 125,0 per il 2016, un 120,1 per il 2017. Che bravi! Una tabella di marcia perfino più veloce di quanto richiesto dal Fiscal Compact. Ma basata su che cosa? Lo vedremo di seguito.

Come arrivare al «lieto fine»?

Ovviamente quelli del MEF non ci svelano l’arcano di certi risultati. Sennò tutti sarebbero bravi ed i loro stipendi meno giustificati. Naturalmente quel che evitano di dirci è la necessità di nuove manovre strutturali, in termini di nuovi tagli e nuove tasse. Alcune cose però ce le dicono e, volendo inevitabilmente tendere verso il rosa, gli estensori del documento settembrino provano a disegnare una specie di triangolo virtuoso. Un triangolo dove al lato della crescita, che abbiamo già visto, andrebbero ad aggiungersi quello della riduzione dello spread, e quello delle entrate dovute al nuovo piano di privatizzazioni.

Curiosamente, ma non tanto vista la dipendenza da Berlino, il documento si occupa di spread e non di tassi. E’ curioso, perché il costo degli interessi sul debito dipende dai tassi applicati non dallo spread con il Bund tedesco, dato che (almeno in teoria) potremmo anche avere una riduzione dello spread senza alcuna riduzione dei tassi. Ma lasciamo perdere. Sta di fatto che i nostri previsori vedono uno spread (che attualmente è intorno a quota 250) a 200 nel 2014, 150 nel 2015 e 100 negli anni successivi. Su che cosa si basa un simile ottimismo? Non si sa, comunque non ci viene spiegato.

E’ vero che fino al giugno 2011 lo spread se ne stava tranquillo sotto quota 200, ma è altrettanto vero che la volatilità dei mercati finanziari non solo è una costante, ma potrebbe riacutizzarsi ben presto alla luce di nuove tempeste finanziarie che si annunciano all’orizzonte. In ogni caso un abbassamento di 100 punti base sullo spread (o meglio, l’abbassarsi di un punto percentuale sui tassi dei titoli di nuova emissione) porterebbe ad un risparmio di 3-4 miliardi all’anno.

Sulle privatizzazioni c’è poco da dire. Ovviamente non si può che essere contrari. Del resto gli effetti di quelle passate sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare ai recenti sviluppi della vicenda Telecom, od al rigonfiamento delle bollette elettriche ad opera dell’oligopolio dei maggiori produttori che hanno preso il posto del vecchio monopolista Enel.

Ma privatizzare oggi significa anche svendere, liquidare quel che resta del patrimonio pubblico a prezzi necessariamente stracciati. Un modo di impoverire ulteriormente il Paese che non ha bisogno di troppi commenti.

Ma, al di là di tutto questo (che a Letta & C. non può interessare di meno), anche nel governo ci si rende conto delle difficoltà, specie nel settore immobiliare. E così la Nota di aggiornamento del DEF, aggiorna il valore dei ricavi annui previsti con le privatizzazioni. Se ad aprile (governo Monti) si stimava un punto percentuale annuo sul Pil (15-16 miliardi), oggi ci si «accontenta» della metà (0,5% – 7-8 miliardi).

Se la gravità dell’operazione non cambia, i ricavi si riducono però di molto. Come da questi numeri si possa arrivare ai 55 miliardi annui necessari per abbattere lo stock del debito, in base al Fiscal Compact, resta un mistero fitto. Si punta tutto sugli «effetti virtuosi» della crescita? Non scherziamo, per favore.  


I conti 2013 che non tornano (e ora vediamo il trucchetto)

Ancora una volta, dunque, i conti non tornano. Tanto meno quelli delle previsioni, che – lo ripetiamo – più che fantasiose sono in realtà truffaldine.

Ma ora, lasciando sullo sfondo le questioni più serie che attengono al futuro, vediamo intanto il trucchetto con il quale il cav. Saccomanni ha abbellito – alla faccia del pittoresco Olli, ma non certo all’insaputa dei suoi superiori – i conti 2013.

Ora, che dall’aprile scorso il rapporto deficit/pil fosse passato soltanto dal 2,9% al 3,1% proprio non ci tornava. Nel mezzo ci sono state diverse misure che non possono che aver peggiorato i conti (IMU in primis). Aggiungiamo a questo la modifica in peggio del Pil (il famoso denominatore) ed i conti ci tornano ancora meno. Ma anche il documento del MEF ci ha messo del suo per farci capire che i conti sono truccati. Come è possibile, infatti, che la previsione sul debito sia passata in 5 mesi dal 130,4% al 133% (+ 2,6 – 41 miliardi) con un deficit salito solo dello 0,2% (3 miliardi)?

Certo, le previsioni sul Pil sono peggiorate di uno 0,5% su aprile, ma i conti non tornano comunque. Dov’è allora l’imbroglio? Verosimilmente ce n’è più di uno. Ma uno è piuttosto evidente.

Qual è la prima cosa che fanno i manager quando i conti aziendali non tornano? Fanno la cosa più semplice: rinviano i pagamenti, in qualche caso sperando che tocchi a qualcun altro togliere le castagne dal fuoco. Può darsi che l’integerrimo Saccomanni si appresti a fare la stessa cosa?

Parrebbe proprio di sì. Questa ipotesi, che sembrerebbe sfuggita alla stampa mainstream, sempre pronta a registrare i lamenti del cav. n° 1 o il cinguettio ininterrotto del sindaco di Firenze, ci è stata in realtà suggerita da scenarieconomici.it già il 7 settembre scorso, ma ha trovato puntuale riscontro nel documento del MEF di due settimane dopo.

Di cosa si tratta? Confrontando gli scostamenti tra l’indebitamento previsto ad aprile e quello rivisto a settembre, ci si accorge infatti di una curiosa anomalia. Mentre, come già sappiamo, lo scostamento annunciato sul 2013 è minimo (0,2%) e così pure quello relativo agli anni 2015-16-17; per l’anno 2014 lo scostamento è invece assai significativo (+0,7% – 11 miliardi di euro). Perché mai il 2014 – anno in cui, fra l’altro, con la Service Tax lo Stato andrà a recuperare quanto perso con l’IMU nel 2013 – ha visto un simile peggioramento nella previsione dei conti?

Ora, se a fine 2013 molti versamenti verranno rinviati all’anno nuovo, è ovvio attendersi un aggravio per il 2014. Aggravio che figura nelle tabelle, ma di cui nessuno – e si capisce! – si è preso la briga di spiegare i motivi.

Il trucchetto è dunque disvelato. Il deficit reale è probabilmente attorno al 4%. Un’ulteriore dimostrazione di come le politiche austeritarie siano non solo antisociali, ma anche inutili, quantomeno rispetto ai fini dichiarati.

Sotto il tappeto di Palazzo Chigi non c’era dunque soltanto un misero 0,1%. Perché allora Rehn e i suoi hanno fatto finta di non vedere? Semplice, perché, come abbiamo già detto, spesso queste traslazioni in avanti del debito servono a far prender tempo ai decisori di oggi, per scaricare magari la grana ai decisori di domani. Decisori che si suppone più forti, maggiormente in grado di imporre sacrifici. E, fino a settembre, nessuno avrebbe scommesso sul proseguo della navigazione del governo Letta nel 2014.

Ora, che la situazione è cambiata, toccherà al duo Letta-Saccomanni rimettere i conti in ordine. Forse non lo faranno con la Legge di Stabilità, ormai troppo vicina. O forse partiranno da lì per segnare la strada. Ma in ogni caso vedremo presto una nuova manovra strutturale, nuovi e pesanti sacrifici per il popolo lavoratore. E’ così che va, in tempi di «stabilità».