Narendra Modi (foto), politico di spicco del partito nazionalista Indù BJP e governatore dello Stato indiano del Gujarat dal 2001 (al quarto mandato consecutivo), è stato designato lo scorso 13 settembre come candidato ufficiale del BJP per le elezioni governative del 2014 del secondo paese più popolato al mondo. Dopo un lungo confronto a distanza, sfiderà probabilmente l’attuale vice-presidente del Partito del Congresso, Rahul Gandhi. L’ufficializzazione della candidatura di Modi è arrivata dopo un’estenuante campagna mediatica, che lo vede protagonista ormai da diversi anni.

Nei giorni scorsi, un messaggio circolato su Whatsapp e via SMS sosteneva che Modi avesse addirittura battuto il record come persona più ricercata su Google. Secondo il messaggio, in un solo giorno, il suo nome era stato cercato su Google da circa un miliardo di persone, battendo il precedente record di Barak Obama di oltre cento volte. Prima che la bufala fosse scoperta, alcuni media indiani, tra i quali «India Today», non avevano perso tempo ricordando il grande numero di follower di Modi su Twitter, oltre due milioni, e che il suo team di comunicazione renderà disponibili siti informativi sul Gujarat in oltre cinquanta lingue. Indipendentemente dalle smentite, Modi fa notizia e la sua controversa figura sta scuotendo l’India, il cui futuro sembra essere legato al suo nome e al contesto nel quale ha costruito la sua carriera, lo Stato del Gujarat.

Al governo del Gujarat dal 2001, Modi è diventato il simbolo di un’India capace di competere nei mercati internazionali. Il BJP si è affermato per la prima volta nel Gujarat negli anni novanta, in una situazione segnata da un lato dalla crisi del tessile, settore trainante in una delle «Manchester d’Oriente», e dall’altro lato dall’erosione del KHAM, un raggruppamento delle principali minoranze e basse caste dello Stato (Kshatriya, Harijan, Adivasi e Musulmani) che aveva permesso al Partito del Congresso di governare ininterrottamente dall’indipendenza. In un clima segnato dagli incidenti di Ayodhya – città dell’Uttar Pradesh dove nel 1992 la moschea di Babri, eretta nel 1527, fu devastata da attivisti indù – il BJP ruppe con la tradizione moderata e interconfessionale nella politica statale facendo del nazionalismo indù la chiave per una coalizione inter-castale che includeva pezzi del KHAM e upper caste ed escludeva i musulmani.

A rendere ulteriormente instabile la situazione economica e sociale fu il terremoto del gennaio del 2001, che provocò migliaia di morti e lasciò intere città semi-distrutte. Modi diventò governatore alla fine del 2001, sostituendo il dimissionario Keshubhai Patel, facendo leva anche sugli storici attriti nazionalisti con il Pakistan, con toni che riaprivano le ferite della partizione. I riots del 2002, con centinaia di morti soprattutto tra la minoranza musulmana, sono figli di questa situazione politica e sociale. Le elezioni anticipate che seguirono si tennero in una situazione dove una buona parte della popolazione musulmana dello Stato fu, di fatto, estromessa, e videro la definitiva affermazione di Modi.

Il modello economico con il quale Modi ha risposto alla crisi non è originale, ma si pone in continuità con la svolta neoliberale imboccata a livello nazionale dopo la fine degli anni ’80, quando l’India adottò uno dei famigerati piani di aggiustamento strutturale sotto la tutela del Fondo Monetario Internazionale. La posizione geografica e il lungo tratto costiero sono storicamente elementi che fanno del Gujarat uno Stato in posizione strategica nelle rotte commerciali e della produzione. Dal punto di vista politico ed economico gli anni ’80 segnano una svolta decisiva per comprendere la situazione odierna, dove alle politiche nazionali va aggiunto il ‘fattore Modi’.

Secondo l’influente «The Economic Times», il Vibrant Gujarat, come recita lo slogan per gli investitori coniato in questi anni, è diventato il pivot del cosiddetto fattore occidentale della crescita economica indiana, sintetizzata in un dato: nel 2011, in soli tre Stati, Gujarat, Maharashtra (dove si trova Mumbai) e Goa, che comprendono circa il 15% della popolazione, si concentrava quasi il 22% del PIL indiano, con il Gujarat che spiccava quale meta preferita per gli investimenti. Urbanizzazione, infrastrutture ed energia, uniti all’elevata produttività, sarebbero tra i pilastri di questa crescita: a fronte di una forza lavoro pari al 10% di quella nazionale, infatti, qui si concentrava il 30% dell’azionariato e si concretizzava il 22% dell’export. Il richiamo di lavoratori migranti e il boom edilizio hanno portato oltre il 40% della popolazione a vivere in centri urbani, permettendo al mercato del real estate crescite annue del 20%. Oltre alle costruzioni, lo sviluppo è legato alla rapida crescita del settore automobilistico, spinto da aziende quali Ford, Tata Motors, Maruti Suzuki e Bajaj Auto, facendo di Gujarat e Maharashtra delle «nuove Detroit» in deficit di forza lavoro (secondo il Times fino al 20-25%).

I giornali economici, del resto, per quanto non sempre esplicitamente, celebrano Modi e la svolta globale impressa allo Stato, mettendolo a confronto con il Bengala Occidentale: se lì il governo del Left Front ha promesso di impiantare SEZ senza preoccuparsi troppo degli aspetti infrastrutturali e non ha saputo difendere gli investimenti della Tata di fronte alla sollevazione popolare, il Gujarat offrirebbe agli investitori una migliore rete stradale, forniture di energia più sicure, la vicinanza ai porti della costa occidentale, collegati al Delhi-Mumbai Industrial Corridor, e la sicurezza di avere uno Stato dalla loro parte. Se però è vero quanto sostengono i critici del modello Gujarat, questa superiorità infrastrutturale è fittizia, e l’argomento è strumentale a rilanciare l’immagine di Modi e a favorire nuovi investimenti e cessioni agli investitori privati.

Non è un caso che il marchio Vibrant Gujarat faccia leva sui numeri e sui dati macroeconomici, rilanciando continuamente la posta in gioco e, così facendo, impedendo un dibattito sulla realtà sociale. Andando a spulciare tra i documenti, si scopre una sorta di hype di tipo finanziario prodotto dagli spin doctor di Modi, costruito attraverso l’annuncio degli investimenti presenti e futuri e dalle aspettative di crescita. I numeri esorbitanti che sono proposti non sono mai messi alla prova, perché l’imperativo sviluppista impone di rilanciare sempre in avanti. I dati riguardanti la scolarizzazione, la salute pubblica e la povertà, invece, mostrano come nel Gujarat vi siano gli stessi problemi di altri Stati indiani, per certi versi accentuati dal disimpegno statale.

Una ricerca curata da Atul Sood, docente al Centro per lo Studio dello Sviluppo Regionale della Jawaharlal Nehru University, uscita agli inizi del 2013, ricostruisce la traiettoria recente del Gujarat mettendone in luce gli aspetti preoccupanti per il futuro dell’India, ora che Modi è candidato alle elezioni nazionali del 2014. Tra gli elementi sottolineati, due sono di particolare interesse. Il primo riguarda l’uso fatto dal governo del BJP delle nuove spazialità costituite dalle Zone Economiche Speciali. Secondo gli autori il governo Modi non ha migliorato le infrastrutture del paese. Al contrario, appoggiandosi su una legislazione che favorisce l’uso speculativo dei terreni agricoli, il governo ha approfittato della posizione strategica dell’area, vicino alle coste e al Delhi-Mumbai Industrial Corridor, attirando investimenti massicci per la costruzione di SEZ e nuove SIR (Special Investment Region). Il governo di fatto di questi nuovi assemblaggi giuridici funzionali alla produzione di valore è delegato a organismi privati, le cui nuove costituzioni sono i piani d’investimento. L’unico ritorno sociale pare essere quello della sempre annunciata creazione di posti di lavoro, ma le offerte di lavoro riguardano soprattutto alcuni settori, che alimentano le aspettative dei neolaureati e diplomati indiani, le costruzioni e il lavoro operaio nelle industrie automatizzate, mentre molti osservatori notano come vi sia stato contemporaneamente un aumento della disoccupazione complessiva e un impoverimento del settore informale.

Il prezzo da pagare è caro. Il secondo elemento, infatti, è quello di uno Stato nel quale la quota del salario sul reddito complessivo è la più bassa dell’India e l’uso di lavoratori temporanei è tra i più alti. È forse per questo motivo che il Gujarat è stato censito nel 2011 come il peggior Stato dal punto di vista della conflittualità sul lavoro. Ciò non scoraggia le imprese a puntare sul Gujarat. Gli investitori ritengono anzi questo modello di «crescita escludente» il più business friendly del paese. È qui, infatti, che si è trasferita la Tata dopo le sollevazioni contro gli espropri e la costruzione della fabbrica della Nano nelle campagne di Singur, in Bengala Occidentale. È qui che la Maruti Suzuki è pronta a trasferire gli impianti di Gurgoan-Manesar, in Haryana, nel caso in cui l’insubordinazione operaia esplosa negli ultimi anni dovesse continuare. È qui che il mega progetto del Delhi-Mumbai Industrial Corridor sta trovando terreno fertile e che si sperimentano nuove formule di governo del territorio.

Modi ha la capacità di far apparire vecchio e datato tutto ciò che lo circonda. Dopo una lunga battaglia, ha finalmente ottenuto anche l’appoggio dell’anziano leader e uomo d’acciaio del BJP L.K. Advani. La vera carta nazionale di Modi, tuttavia, è fuori dai vecchi schemi e dalle basi tradizionali del nazionalismo indù. In un discorso tenuto all’inizio dell’anno di fronte agli studenti dell’Università di Nuova Delhi, il futuro candidato ha esposto la sua personale rilettura della storia e del destino dell’India, chiamando in causa due padri della patria come lui di origine gujarati, tracciando così una linea ideale: l’India con Gandhi ha lottato per l’Indipendenza con mezzi non violenti, con Patel ha organizzato l’indipendenza con mezzi rivoluzionari. Ma se l’indipendenza nazionale ha voluto dire capacità di autogoverno (swaraj), ha proseguito Modi, dopo 60 anni è tempo che lo swaraj lasci il campo al su-raaj, che potrebbe essere tradotto come «buon governo».

Nel discorso Modi ha testato la presa di slogan e ragionamenti poi divenuti l’ossatura della sua campagna elettorale, opponendo lo sviluppo alla politica tradizionale: «la nazione è stata distrutta dalla politica alla ricerca dei voti – ha spiegato – la nazione ha bisogno ora di una politica basata sullo sviluppo», sostituendo allo slogan di Bal Gangadhar Tilak, uno dei padri della nazione, «Swaraj mera adhikar hai‘» (L’autogoverno è un mio diritto) con lo slogan «Suraaj hamara adhikar hai» (Il buon governo è un mio diritto). Il su-raaj, ha spiegato Modi, non è altro che la «buona governance» che accompagna lo sviluppo.

L’autorevole «Times of India» pare essere d’accordo. Il giornale ha proposto prima dell’estate una campagna intitolata «diamo voce ai leader delle corporation su come devono essere spesi i soldi dei contribuenti». L’appello attaccava gli sprechi di denaro pubblico e terminava in questo modo: «il senso comune ci dice che l’istinto della classe politica sarà di spendere di più laddove pensano sia più populista, non dove ha più senso in termini economici. Abbiamo perciò bisogno di un meccanismo che funzioni da controllo su questi istinti populistici. Noi suggeriamo che il modo migliore per farlo sia costituire dei comitati composti dai più eminenti e credibili leader di corporation che rappresentino vari settori dell’economia, con il compito di consigliare il governo sulle spese. Queste sono persone che hanno una grande ricchezza di esperienze nella gestione di grandi somme di denaro e che non sono condizionati dal bisogno di ‘comprare’ voti».

In questa situazione, anche la lotta contro la corruzione, che ha occupato la scena politica negli anni scorsi facendo emergere la figura di Annah Azare, ha favorito l’affermazione dell’egemonia del mercato, del merito, del progresso misurabile dalle statistiche economiche, su tutta la società. Anna, come è chiamato confidenzialmente da tutti, ha riportato in auge il digiuno come protesta politica di massa e trascinato nelle piazze del paese milioni di persone. Il composito fronte che in lui si è riconosciuto chiede una nuova legge contro la corruzione che renda responsabili i politici, il Lokpal Bill, attirando molte simpatie anche nei settori popolari. La corruzione è in India endemica e molto diffusa a ogni livello dell’attività dello Stato, particolarmente fastidiosa sul piano locale, dove servizi e sussidi seguono spesso vie clientelari, e particolarmente scandalosa sul piano nazionale, dove gli scandali si susseguono ormai senza sosta. Diverse voci critiche, tra le quali Arundhati Roy e Partha Chatterjee, hanno posto l’accento su come dietro l’apparente ambivalenza interclassista del movimento si nasconda una potente forza di spoliticizzazione della società indiana. Eliminando i rapporti di potere e di sfruttamento, il discorso della corruzione oppone tutta la politica, incarnata dall’attuale ceto politico, ai cittadini universalmente colpiti dalla corruzione, che può così diventare la radice di tutti i mali, cancellando la lotta politica per l’uguaglianza e spostandone il baricentro nel rispetto della legge.

In un paese come l’India, diviso tra un’estrema povertà di massa e nuove sacche di ricchezza che ambiscono a un modello di vita consumistico, la corruzione è diventata la risposta a molti perché, il nome di ciò che impedisce un radicale cambiamento anche per chi sostiene interessi sociali diametralmente opposti. Tutti hanno trovato un loro motivo particolare per simpatizzare con il movimento. Lo hanno trovato molti poveri stanchi di dover dipendere dai favori di funzionari corrotti, lo hanno trovato lavoratori che non hanno spazio nelle clientele sindacali, lo hanno trovato le nuove élite urbane, stanche di una politica che si è posta negli anni spesso di traverso imponendo mediazioni rispetto al liscio dispiegarsi delle riforme economiche. L’opposizione alla corruzione ha così potuto costituire un terreno comune tra milioni di poveri diseredati e i nuovi ricchi istruiti nelle scuole di business. Anche l’autorevole «Economic & Political Weekly» è diventato l’arena per un dibattito su come tradurre in politica questo movimento alle prossime elezioni dopo il lancio dell’Aam Aadmi Party (AAP). Il partito, il cui slogan è «right to recall», è contro i politici e definisce la corruzione «il più grande male del nostro paese», ma vuole essere una sfida costruttiva per rovesciare il sistema dal basso attraverso mezzi capaci di rafforzare la cittadinanza democratica all’interno del sistema politico.

Non sappiamo quanto successo avrà l’AAP, ma è evidente come, indipendentemente dalla volontà di chi di volta in volta se ne fa il portavoce, il discorso anti corruzione abbia finito per delegittimare e spazzare via ogni ambito di mediazione e negoziazione sociale, confidando nella purezza di chi lo pronuncia e nelle capacità del cittadino universale. Un’ambizione che appare al tempo stesso come l’ultima incarnazione della dottrina politica ed economica imposta dal costituzionalismo coloniale ed estremamente eretico, rivoluzionario, capace di mobilitare le nuove generazioni che si affacciano nell’arena politica. Un caso emblematico ha visto recentemente protagonista Ashis Nandy. L’autore di The Intimate Enemy: Loss and Recovery of Self Under Colonization, è finito sotto processo mediatico e sotto inchiesta per un ragionamento pronunciato durante un dibattito alla fiera del libro di Jaipur. Nandy ha sostenuto che le classi all’interno delle quali la corruzione è più diffusa sono quelle più arretrate come i Dalit, le popolazioni Adivasi e le altre classi svantaggiate classificate dalla costituzione indiana, che la corruzione diventa necessaria per chi è escluso dal sistema economico e che essa è anche un corollario della prosperità, invitando a guardare il Bengala Occidentale, lo Stato più arretrato dell’India, per un modello di Stato non corrotto. Le sue dichiarazioni hanno scatenato un putiferio nel quale Nandy è stato accusato di ogni nefandezza. Nel corso di un confronto organizzato dal canale Tv in inglese TIMES NOW, tuttavia, è emerso il vero scandalo: Ashis Nandy non solo non rispettava il regime politicamente corretto imposto nel dibattito pubblico e dalla Costituzione sui Dalit e Adivasi, ma difendeva la corruzione, sostenendo che, senza gli strumenti della corruzione, per alcuni settori sociali sarebbe impossibile uscire dalla loro condizione poiché esclusi dalla catena dell’alta formazione riservata ai ricchi e al ceto medio emergente.

La corruzione è nell’India di oggi una piaga, ma è anche uno strumento che può essere usato da più parti: dalle grandi imprese per accaparrarsi appalti e investimenti, come dai gruppi della società politica che possono pretendere ciò che gli è precluso dalle decisioni formali. L’opposizione alla corruzione ha cancellato queste differenze, permettendo la costruzione di un terreno comune tra milioni di poveri diseredati e i nuovi ricchi istruiti nelle scuole private di business, trasformando la giustizia in un concetto di fatto apolitico. Per questo, anche se Anna Hazare lo ha sfidato sostenendo che deve ancora dimostrare di essere diverso dagli altri, un personaggio come Modi, che promette discontinuità con la politica tradizionale vantando grandi successi economici, sta beneficiando della situazione.

Un recente sondaggio svolto tra cento top CEO indiani è emerso che 74 di questi preferiscono Modi a Rahul Gandhi, che ha ottenuto solo 7 preferenze. Il giornale economico «Business Standard» spiega questa sproporzione con il fatto che gli uomini d’affari vedono gli effetti della «paralisi delle politiche» e associano Modi con il dinamismo del Gujarat. Questa sintonia non è del resto una novità: di fronte a 120 CEO riuniti a Mumbai pochi mesi fa, Modi si è mostrato in linea con le loro priorità, promettendo di decentralizzare la produzione energetica, leggi sul lavoro flessibili e un’agenda per lo sviluppo sostenuta dalla governance. Modi è dunque pronto a una sfida nazionale. Dall’inizio della sua ascesa a oggi molto è cambiato nell’economia indiana, ma anche la recente crisi della rupia, la moneta nazionale, e il rallentamento della crescita economica sono letti nei circoli economici come la necessità di cambiare passo e avere un governo capace non solo di lasciare via libera agli investimenti, ma di produrre le condizioni per farli funzionare. È impossibile prevedere oggi come andranno le elezioni del prossimo anno, ma l’impressione d’ineluttabilità che accompagna l’ascesa di Modi ha portato alcuni commentatori a evocare Indira Gandhi, capace di esercitare sul subcontinente un potere personale assoluto. Una prospettiva che inizia ad agitare i sonni di molti nei movimenti che attraversano l’India, ma anche tra chi pensava possibile mantenere un equilibrio moderato nella gestione della crescita economica, riservando il pugno di ferro alla resistenza armata della guerriglia maoista.

Di fronte alla dinastia Gandhi, Modi si presenterà sulla scena nazionale per sostituire il grigio Monmohan Singh e come alfiere di uno Stato che può essere preso a modello per la politica nazionale. In questi giorni, così, il BJP può al tempo stesso celebrare Modi e condannare la recente visita del primo ministro Singh, insieme alla leader del Congresso Sonia Gandhi e allo stesso Rahul, a Muzaffarnagar, in Uttar Pradesh, teatro di riots che hanno provocato almeno 48 morti e oltre quarantamila sfollati, principalmente tra la popolazione musulmana, bollandola come «turismo secolare». Tenere alti i toni è un imperativo politico di Modi e del BJP, per evitare che dietro l’immagine scintillante della sua carriera emergano ombre in grado di metterla in discussione. Non si tratta però solo di smentire i dati economici del Vibrant Gujarat, come viene fatto da più parti. Sarebbe, infatti, necessaria una capacità politica che né il Congresso, né i partiti alla sua sinistra al momento hanno. Dopotutto, una delle accuse che si possono muovere a Modi è di aver estremizzato una linea politica portata avanti ormai da anni su scala nazionale.

Nella complessa e conflittuale geografia politica indiana, la vera opposizione dovrà nascere dalla rottura di quel confine politico che contrappone i movimenti rurali e l’insubordinazione operaia che accompagna la recente industrializzazione e la crescita delle città indiane, e dunque tra le fila dei nuovi operai, siano essi impiegati negli stabilimenti automatizzati, nei cantieri, nelle campagne o nella fabbrica diffusa del settore informale. Se nell’immediato Modi potrà proporsi come eroe popolare antipolitico e anticorruzione, infatti, è perché è già un eroe del capitale.

da: «Il Manifesto» del 23 ottobre 2013