Occorre sempre distinguere, nella sfera delle idee, ciò che è caduco da ciò che è invece imperituro. I tempi lunghi della storia hanno sempre condannato all’oblio le concezioni che rivelano di non avere sostanza veritativa, che non poggiano cioè né su sicure basi etico-politiche, né su fondamenta storico-sociali. Essendo di quest’ultima specie la sorte dell’idea secondo cui sarebbe finita l’antitesi destra-sinistra si è dimostrata una teoria di piccolo cabotaggio.

La fine del postmodernismo

Essa non venne al mondo bell’e fatta, ma dopo un lungo travaglio. Si doveva bonificare il terreno, sradicare la “malapianta” del marxismo. Furono i filosofi francesi post-strutturalisti coloro che fecero la gran parte del lavoro. Incarnando il desiderio delle classi dominanti di rimuovere i “terribili” anni ’70, postularono che l’epoca della “modernità” si fosse chiusa, che si era oramai entrati in quella della “postmodernità”. In altre parole che le società occidentali non erano più capitalistiche ma strane amebe “post-borghesi”. Una visione che ebbe pieno corso negli anni ’80 del secolo scorso, per poi dilagare negli anni ‘90.

Qual era il cuore di questa visione? Che col tramonto dell’epoca delle contrapposizioni di classe moriva ogni progetto di trasformazione rivoluzionaria della società, che deperiva l’ordine simbolico che aveva strutturato l’immaginario collettivo novecentesco. Quindi i funerali del comunismo, liquidato come desueta “grande narrazione” utopistica.

Alla domanda se questa visione avesse qualche ragionevole consistenza la risposta è: certamente sì.
Dopo il decennio rivoluzionario dei ’70 il sistema capitalistico occidentale conobbe un durevole periodo di pacificazione e di stabilizzazione. L’avanzata del movimento operaio e rivoluzionario si arrestò, dilagò il fenomeno della cetomedizzazione di vasti strati di proletariato, il grosso delle sinistre politiche, da espressione per quanto riformistica della spinta emancipativa operaia dal lavoro salariato, divennero forma di istanze opposte, quelle all’imborghesimento. Eccetto lodevoli sacche di resistenza, esse subirono una trasformazione sostanziale: la loro identità non era più ancorata all’obbiettivo di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi delle classi, ma alla difesa e alla conquista di nuovi e variopinti diritti civili. Per cui la dicotomia sinistra-destra non aveva più altri contenuti se non quelli ideal-tipici dei valori etici, la cui cifra stava sulla retta sbilenca ai cui poli stavano il “progresso” e la “conservazione”.

Il crollo del Muro di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’URSS (1991), segnando l’epitaffio dei tentativi di fuoriuscita dal capitalismo, consolidarono la fascinazione narrativa del discorso sulla fine della tradizionale dicotomia destra-sinistra, che divenne così un vero e proprio mantra, un segno distintivo del pensiero unico liberal-progressista. Grandi apparati culturali e mediatici lavorarono alacremente affinché questa pappetta diventasse “senso comune”.

E qui ci spieghiamo come mai accadde che anche pensatori eretici, provenienti sia dall’estrema sinistra che dalla barricata opposta, caddero nella trappola, fecero loro il concetto, lo trasformarono anzi in una bandiera, teorizzando addirittura, di contro al partito-unico-politicamente-corretto, il sodalizio politico del “pensiero radicale oltre la destra oltre la sinistra”. Tentativo condannato alla sterilità ma che fece gridare allo scandalo del “rosso-brunismo” le anime belle della sinistra borghese. II limite fatale di questi pensatori stava proprio nel manico, nel fatto che essi, prendendo il pacco della morte della “grande narrazione marxista” si son tenuti anche il suo contenuto, quello della fine del conflitto antagonista e di ogni idea di emancipazione rivoluzionaria dal capitalismo.

Il filosofo che in Italia si fece araldo di questo discorso e lo portò alle estreme conseguenze è stato Costanzo Preve, che scriveva:
«Quando l’opposizione fra Destra e Sinistra nacque alla fine del Settecento in Francia, e quando poi si sviluppò e si allargò nell’Ottocento e nel Novecento nel mondo intero, vero e proprio esempio di globalizzazione ideologica che accompagnava una contestuale globalizzazione economica capitalistica, questa opposizione rispecchiava divisioni storiche reali, e strutturava un campo politico di conflitti nel nuovo modo orizzontale che sostituiva il vecchio modo verticale tipico dei conflitti di tipo precapitalistico, signorile e feudale. Alla verticalità del vecchio campo simbolico religioso si sostituiva l’orizzontalità del nuovo campo simbolico politico. La politica sostituiva progressivamente la religione nell’espressività individuale e collettiva dei conflitti sociali. Tuttavia, nel corso degli ultimi duecento anni, a causa soprattutto dell’integrazione culturale negli apparati ideologici e politici della classe dominante, in un primo tempo borghese-capitalistica e poi oggi semplicemente capitalistica (e post-borghese), l’opposizione fra Destra e Sinistra ha smesso di descrivere un conflitto sociale reale, ed ha cominciato a funzionare come protesi artificiale di strutturazione simbolica di un conflitto controllato e manipolato. In proposito, mi permetto di rimandare ad un mio breve scritto in cui questo fondamentale problema è trattato in modo più sistematico». [1]

Sono oramai trent’anni (un bell’arco di tempo) che si chiacchiera della fine della dicotomia, ma da nessuna parte sono sorti, né un pensiero, né un movimento politico anti-sistemici, che siano stati capaci di andare “oltre” la destra e la sinistra — a meno di non credere alla battute di Sgarbi,  alla autorappresentazione confusionaria di Beppe Grillo, o di farsi abbindolare dalla novella Giovanna D’Arco di Marine Le Pen. E non sarà un caso se dopo trent’anni di cupio dissolvi dell’eredità del novecento, tutta la comunicazione verbale e segnica, per quanto in maniera deviata, non riesca a prescindere da questa polarità, che dimostra una vitalità irriducibile.

Il tentativo di sradicare l’eredità del “secolo breve”, di far diventare “senso comune” la nuova ideologia “oltre la destra oltre la sinistra”, non ha scavato così a fondo. Resta pressoché intatta, nell’inconscio, come in larga parte dell’immaginario collettivo, l’idea che di sinistra è chi difende i diritti degli sfruttati e degli oppressi e immagina una società egualitaria, mentre di destra è chi sta dalla parte dei ricchi e difende la divisione in classi della società. Lo stesso Preve, al netto della “fine della dicotomia”, non può che confermalo. [2]

Ideologia e rapporti sociali

Che un postulato esprima processi sociali reali non è sufficiente affinché questo sia vero. Il fatto è che quello sulla fine della dicotomia, presentandosi appunto come paradigma teorico, presumeva che i fenomeni di cui era riflesso nella sfera ideologica, fossero definitivi e irreversibili — essi invece non lo erano, di qui la portata necessariamente transitoria di quel postulato.

Il capitalismo occidentale, per ragioni che esulano adesso dal nostro campo d’indagine, è entrato, almeno dal collasso finanziario del 2008, dentro una crisi storico-sistemica di lunga durata. La fase della stabilizzazione è finita e siamo entrati in quella di sconquassi a catena. L’apparenza che fossimo entrati in una società post-capitalista e post-borghese, che la storia fosse finita, che la lotta di classe fosse un ricordo di tempi andati, ha lasciato tracce ma sta esaurendo la sua forza espansiva. Dalla crisi il capitalismo occidentale non potrà infatti uscire senza produrre un pauperismo generalizzato, senza strappare al lavoro salariato tutti i privilegi che l’avevano corrotto, senza quindi mezze misure e forse anche preparandosi ad un’epoca di vere e proprie guerre civili e nuovi conflitti nazionali.

Entriamo in un periodo di tempeste sociali, in cui nuove generazioni proletarie, pur prive di memoria storica, saranno obbligate a guardarsi allo specchio inorridite e quindi a riacquisire coscienza dei loro propri interessi, a combattere per non precipitare nella schiavitù, e quindi tenute ad immaginare un mondo in cui si produca e si viva per il comune benessere, e non invece per valorizzare il capitale e i fasti di un’esigua classe sociale milionaria.

Che il marxismo debba essere depurato dalle sue aporie e dal suo messianismo; che sia necessario riformulare un pensiero rivoluzionario; che debba essere ricostruita e forgiata nel conflitto una nuova idea di socialismo; tutto questo è certo. Ma allora è anche certo che lo scontro tra le classi fondamentali farà a pezzi tutti gli effimeri travestimenti e si rappresenterà nuovamente nelle forme polari di sinistra e destra. Poiché, al di là di tutte le fumisterie concettuali, i concetti di sinistra e destra non sono che l’espressione simbolico-politica della lotta irriducibile tra le classi, lotta che risorgerà dopo che era stata temporaneamente soppressa.

Il fatto che questo proletariato nascente, figlio della tempesta storica, riesca finalmente ad avere la gramsciana capacità di fungere da “guida morale e spirituale” del popolo, ovvero di essere la forza motrice di un mutamento sistemico e di universale emancipazione, questo non è predeterminato, dipende da diversi fattori sociali e politici; ma ciò ha poco a che vedere con la opposizione tra le classi, motore del divenire storico, da cui la dicotomia inequivocabilmente scaturisce.

Terzocampismo e sovranismo

E’ un fatto tuttavia che dopo un periodo d’inabissamento il pensiero terzocampista della fine della dicotomia sembra conoscere un momento di gloria.

Il terreno su cui rifiorisce è concimato dalla tendenza all’implosione dell’Unione europea e della moneta unica. La percezione che il nostro paese viva una catastrofe di portata storica, che l’uscita dalla gabbia eurista sia la precondizione per la salvezza, si è diffusa velocemente, se non tra le larghe masse, negli ambienti del ceto medio e dell’intellighentia che hanno ripreso coscienza dopo il lungo letargo occupato dalla pantomima berlusconismo-anti-berlusconismo. Si tratta di migliaia di cittadini provenienti da diverse sponde politiche, ma il più dei quali viene proprio dall’implosione del blocco sociale berlusconiano, mondo dal quale si portano appresso non pochi pregiudizi anticomunisti.

Non abbiamo nulla contro i berlusconiani e contro i fascisti che hanno compreso la truffa liberista dell’euro e che si sono pentiti del loro peccato originale. E’ un brutto spettacolo che ci siano diversi preti i quali, pur di assolverli e di rimuovere il loro intimo senso di colpa, assecondino la loro falsa coscienza facendo del superamento dell’antitesi destra sinistra addirittura una vera e propria teologia.  Pur di consolarli tali intellettuali giungono a dimenticare il fatto storico inoppugnabile che l’Unione e l’euro sono figli di un progetto strategico NATO a destra e cresciuto imperialistico. Usano l’alibi della tarda conversione europeista della sinistra sistemica per nascondere il fatto che quella stessa sinistra, quando era tale, si è sempre opposta a quel disegno. Non è ammissibile che, allo scopo di lisciare il pelo a chi fino a ieri inneggiava alla magnifiche e progressive sorti del capitalismo, tali pastori si prestino all’operazione di far credere che la sinistra sia tutta eurista. Questo è davvero troppo, sintomo di una sfrontata disonestà intellettuale.

Sta di fatto che da un paio d’anni è tutto uno sbocciare (vivaddio!) di voci che inneggiano contro il regime dell’euro e alla riconquista della sovranità nazionale perduta. Fin qui tutto bene. Il fatto è che la richiesta sensata di una lotta unitaria contro il comune nemico del blocco bipolare eurista viene agganciata al discorso sulla “estinta dicotomia destra-sinistra”.

Questa visione delle cose ha vari interpreti, tra questi Diego Fusaro, che così ha recentemente espresso questa fisima:
«Auspico la creazione di un nuovo aggregato politico che sappia spingersi al di là della vecchia dicotomia destra-sinistra…bisogna organizzare in forma unitaria tutte le forze sovraniste…uniti si vince, divisi si perde…bisogna fare astrazione dalle differenze che ci sono, dalle appartenenze politiche….perchè siamo davanti ad un incendio che bisogna spegnere…e chiedere la carta di identità dei pompieri è esiziale». [3]

L’unione fa la forza: un appello di un buon senso disarmante. Il fatto è che nella sfera politica il “buon senso” ha il fiato corto.

Non ci è chiaro se Fusaro abbia in testa la fondazione di un vero e proprio partito, se parli di un fronte basato su una comune piattaforma programmatica per il governo del paese, o se alluda a quello che, per semplificare, potremmo chiamare Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Ci sono non solo indizi ma “pistole fumanti” che alcuni intendono per “aggregato” un vero e proprio “partito sovranista”. Pur non confondendo quest’idea con la tesi scandalosamente fatalistica e politicamente vergognosa di Alberto Bagnai — secondo cui “saranno le persone sbagliate a fare la scelta giusta”, ovvero che non ci resterebbe che dare una mano alle élite di destra a farci uscire dal regime dell’euro —, noi la riteniamo una colossale sciocchezza.

Il “sovranismo” è un concetto non solo polisemico, è astratto. Pensare di fondarci sopra un partito è come volerne fare uno sulla “democrazia”, sulla “giustizia” o sulla “libertà”. Vent’anni di berlusconismo e antiberlusconismo hanno lasciato il segno, di qui l’idea che si possano fondare partiti sulla fuffa, privi di una visione del mondo, protesi di élite volontariste e narcisiste.

Qual è l’esempio di paese sovrano per eccellenza che viene in mente a voi? A noi gli Stati Uniti. Il “sovranismo” si può sposare infatti con almeno tre opposti modelli sociali: il primo è appunto quello imperialista-liberista, il secondo quello autarchico (che ha diverse varianti), il terzo quello socialista e internazionalista.

E’ quindi autoevidente che si può uscire dall’euro in diverse e opposte maniere. E da che dipende la natura politica dell’uscita? Dipende dal blocco sociale che lo guida, dipende dall’idea di società che lo muove.

Non coniughiamo sovranità e socialismo per capriccio, lo facciamo a ragion veduta, perché pensiamo che un paese che voglia essere sovrano senza lasciar per strada la democrazia e giustizia sociale, non deve sganciarsi solo dall’euro ma anche dal capitalismo-casinò, ovvero dalla morsa dei colossi finanziari imperialistici. Sappiamo bene che il socialismo è un punto d’arrivo che implica una lunga transizione. Quel che diciamo è che occorre sì uscire dall’euro ma avendo come fine lo sganciamento e la fondazione di una società che non affidi tutto al mercato, il cui motore non sia più la caccia al profitto.

Su questa strada è non solo possibile ma auspicabile un fronte ampio che mobiliti diverse forze sociali e politiche democratiche, sulla base di una piattaforma comune che metta al centro gli interessi e i bisogni del popolo lavoratore e che, attraverso una sollevazione generale, conduca alla nascita di un governo che guidi la fuoriuscita dal regime dell’euro. Questa è quella che chiamiamo “uscita da sinistra”, di contro alla “uscita da destra”, nelle sue due varianti principali possibili, la liberista e la lepenista.

Se abbiamo ragione, se diavolo e Acqua Santa non possono stare assieme, vedrete che noi avremo non uno, ma due fronti o blocchi sovranisti anti-euro. I terzocampisti si mettano l’anima in pace, questi blocchi saranno infatti percepiti dal senso comune, e quindi etichettati, uno come di sinistra e l’altro di destra. Essi marceranno in modo separato. Che possano coalizzarsi contro il nemico comune dipenderà dalle circostanze, se davvero precipiteremo in uno stato di sudditanza neocoloniale.

Qui entra in gioco il discorso sul CLN, questo sì un “aggregato”, necessariamente temporaneo, tra forze e blocchi sociali e politici non solo diversi ma opposti, che quindi, una volta ottenuta la “liberazione nazionale”, non potrebbe che sciogliersi, poiché ci sarebbe chi andrà al governo e chi all’opposizione.

Siamo forse in una situazione del tipo di quella della seconda guerra? Forse che lo strapotere odierno della Germania è paragonabile all’occupazione militare nazista?

E’ certo che la battaglia per evitare l’abisso ha una dimensione nazionale ma affermare che il nostro Paese sia già ridotto ad una sudditanza di tipo coloniale è una semplificazione fuorviante, anzi una mistificazione. Il nemico fondamentale non sta solo oltre le Alpi, lo abbiamo dentro casa, ed è costituito dai settori dominanti della borghesia italiota che non sono mere cinghie di trasmissione della dittatura eurista, che sono parte integrante del regime di oppressione.

Ove la crisi conoscesse un’ulteriore avvitamento, ove i funzionari politici italiani facessero definitivo fallimento, ove quindi la troika imponesse davvero un regime dispotico di protettorato in stile coloniale; ove questo accadesse la fondazione di un CLN sarebbe non solo plausibile ma un atto storicamente necessario.

Non siamo ancora a questo punto. Il punto, adesso, è battere il regime politico e quindi le sue due gambe, del centro-sinistra e del centro-destra. Lo si può battere se daremo finalmente vita ad un fronte popolare che si candidi alla guida del Paese. E per guidare il Paese occorre un fronte, ampio sì, ma che abbia un chiaro e forte programma di governo articolato in poche e grandi trasformazioni sociali. [4] E’ su questo terreno che i sovranisti debbono provare la consistenza del loro accordo, e così lottare per ottenere un consenso di massa senza il quale non ci potrà essere vittoria.

Note

[1] “Comunitarismo”. Torino, 5 settembre 2001. cfr. C. Preve, “Destra e Sinistra”, Editrice CRT, Pistoia, 1998). [2] «Benché resti convinto del sostanziale esaurimento storico di questa polarità simbolico-politica, vorrei comunque segnalare due cautele metodologiche da tenere presenti per una migliore comprensione del problema. In primo luogo, non bisogna dimenticare che di fatto oggi la stragrande maggioranza delle prese di coscienza individuali e collettive del conflitto politico avviene (a mio avviso purtroppo, non per fortuna) sul terreno ideologico della polarità Destra/Sinistra. Il fatto che questa polarità sia quasi sempre artificiale e manipolata da apparati intellettuali interni al sistema di dominio non cambia il dato storico della situazione, per cui appunto ancora oggi la dicotomia funziona ancora da quadro genetico-psicologico per la simbolizzazione del conflitto politico. In proposito, non è sufficiente “smascherare” il carattere illusorio e manipolato della dicotomia, perché questo smascheramento non incide concretamente nella situazione, ma bisogna lavorare per una nuova e credibile teoria politica complessiva. In secondo luogo, è bene ricordare che l’esaurimento della dicotomia Destra/Sinistra riguarda soltanto i paesi centrali del dominio mondiale imperialistico (come USA, Inghilterra, Francia, Germania e Italia), mentre nei paesi dominati o minacciati dall’imperialismo (dalla Palestina alla Colombia, da Cuba alla Turchia), questa polarità continua a rispecchiare conflitti reali, ed è dunque ancora politicamente e culturalmente espressiva». Ibidem
[3] Dall’intervento di Diego Fusaro al convegno di A/simmetrie. Pescara 26/10/13. Vedi anche: Se il capitalismo diventa sinistra; 3 aprile 2013; Lo spiffero
[4] Fronte popolare e governo d’emergenza, del Segreteria nazionale del Mpl 

 

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