Una nuova sinistra rappresentativa e libera dai condizionamenti di Oslo è necessaria. La nuova sinistra deve interagire con altre forze di resistenza lavorando all’elaborazione di una strategia comune e alla costruzione della solidarietà internazionale per affrontare la violenza dell’imperialismo sionista. Se la sinistra non riesce a sviluppare un’alternativa, saremo costretti a fare i conti con la dicotomia Fatah – Hamas ancora a lungo. Haidar Eid spiega.

Lo status della sinistra e il ruolo giocato nella liberazione della Palestina continua a essere oggetto di analisi e discussioni. La posizione opportunistica e  priva di principi presa da quella che chiamerei la “sinistra” conservatrice, neoliberale e influenzata dalle ong dell’OLP insieme alla spaccatura tra Hamas e Fatah è un’altra indicazione dell’inesorabile deterioramento della sinistra in seguito all’implicita accettazione degli accordi di Oslo, nonostante la presunta opposizione a quest’ultimi. In realtà il Partito del Popolo (l’ex Partito Comunista) non si è mai schierato contro gli accordi, ma li ha piuttosto legittimati accettando delle cariche ministeriali in quasi tutti i governi formatisi dalla nascita dell’Autorità Palestinese. E sia il FPLP e il FDLP hanno partecipato alle elezioni del Consiglio Legislativo nel 2006, legittimando così una delle istituzioni più importanti nate dagli accordi di Oslo; ma di questo ne parlerò in un secondo momento.  

Guardando alle dichiarazioni e analisi presentate dai principali esponenti e organizzazioni di sinistra si potrebbe concludere che nonostante la sua ricca tradizione rivoluzionaria, la sinistra sia stata deviata da gruppi di destra i cui interessi sono legati a quelli dell’elite politica di Oslo. Nonostante continui a non capire come una nazione possa tenere delle elezioni mentre è schiacciata da una brutale potenza occupante, ho continuato ingenuamente, come la maggior parte dei palestinesi della Cisgiordania e Gaza, a credere che la sinistra palestinese e le forze liberali avrebbero colto al volo “l’opportunità unica” scaturita dai risultati delle elezioni democratiche tenutesi nel gennaio 2006. Inoltre ho creduto che avrebbero appoggiato e rinforzato tale processo con l’obiettivo di democratizzare maggiormente il movimento nazionale palestinese in un modo che avrebbe indebolito il controllo autoritario, per non dire dittatoriale, della destra di Fatah sull’OLP. Gli slogan a lungo scanditi “dal popolo per il popolo” e “viva il popolo” si sono rivelati privi di contenuti.

Nessun sostenitore onesto della sinistra non può non concordare con l’affermazione che gli accordi di Oslo siano stati un disastro per la Palestina. Il rinomato intellettuale palestinese Edward Said li definì come una “seconda Nakba.” Portarono infatti un livello di corruzione in Palestina senza precedenti e la cooperazione con Israele per la sicurezza è divenuta la norma. Per evitare ogni genere di problemi, il partito al potere, a sua volta controllato da un gruppo di destrorsi, è riuscito a corrompere le principali forze laiche appartenenti all’OLP. La maggioranza dei membri dei principali partiti di sinistra lavorano direttamente per l’AP o ricevono mensilmente lo stipendio anche se non risultano assunti! Vista la richiesta di dissoluzione dell’AP mossa da alcuni rispettati intellettuali e attivisti palestinesi, il loro legame con l’AP non mette forse a rischio la loro posizione? Coloro che non lavorano nella AP sono invece divenuti direttori delle molte ong finanziate dall’occidente che stanno spuntando come funghi, ovviamente vincolati alle condizioni connesse a questi finanziamenti. Nel 1993, l’anno in cui gli accordi di Oslo furono firmati, si diede inizio a un processo che ha portato ad imbrigliare la sinistra rivoluzionaria palestinese trasformandola in una forza politica osloizzata.

Invece di coordinare tutti gli sforzi per opporsi ai risultati degli Accordi di Oslo e invece di rispettare i risultati elettorali del 2006 e lavorare alla formazione di un fronte unito con il partito che vinse le elezioni, con una chiara maggioranza, con un programma di riforme e resistenza, la sinistra ha, purtroppo, aderito alla linea adottata dal partito al potere (Fatah) e ai suoi metodi antidemocratici fallendo un test storico. Sono consapevole delle differenze esistenti all’interno della sinistra stessa, ma sono maggiormente interessato alla posizione della fazione presumibilmente più radicale, e cioè il FPLP. Il partito ha mostrato attraverso le dichiarazioni e le interviste dei suoi principali leader un atteggiamento sorprendentemente antidemocratico e posizioni simili a quelle del governo non eletto di Ramallah e della “vecchia” leadership dell’OLP. Hanno inoltre chiuso gli occhi di fronte alla diffusione del piano del generale Keith Dayton per orchestrare un colpo di stato utilizzando le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese contro il governo di Hamas; essendo di fatto collusi in un piano per sovvertire la scelta democratica del popolo.    

Sostenendo di volersi mantenere su una posizione neutrale, ma allo stesso tempo biasimando Hamas per essersi difesa dal piano per privarla del potere dei generali Dayton e Abrams e liquidando la causa palestinese, il FPLP ha assunto una posizione poco lungimirante, ma molto opportunistica. Nessun leader del FPLP a Gaza e nella Cisgiordania ha fatto cenno al nome dei generali americani e al loro ruolo negli scontri sanguinosi avvenuti a Gaza nel giugno del 2007. In effetti, Abdul Rahim Mallouh, il  segretario generale dei deputati, ha chiaramente detto in quasi tutte le interviste rilasciate a Palestine TV (quest’ultima è un altro strumento della propaganda di destra) di considerare Hamas come responsabile dell’attuale situazione. Alcuni leader storici del FPLP a Gaza hanno ripetuto le stesse accuse. Nessuno di loro sembra consapevole del ruolo giocato dai generali americani nel distribuire armi e finanziare il conflitto interno a Gaza.

In cambio dell’appoggio al governo incostituzionale di Ramallah, la sinistra palestinese gazawi è stata “resuscitata” all’interno dell’OLP in modo da poter combattere il provvisorio governo di destra di Hamas. “Libertà di espressione” è divenuto il nuovo slogan della sinistra palestinese, ma applicato in modo selettivo. Per esempio, la messa al bando nella Cisgiordania di due giornali affiliati ad Hamas, la chiusura degli uffici del canale satellitare Al-Aqsa, l’arresto di prigionieri politici per mano dell’AP senza un processo o la formulazione di un’accusa, la decisione dell’OLP di tornare al tavolo dei negoziati, la chiusura di organizzazioni caritatevoli nella Cisgiordania, l’ostruzionismo fatto al rapporto Goldstone presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la forza brutale con cui le forze di sicurezza dell’AP attaccano i  manifestanti contrari agli accordi di Oslo non sembrano sufficienti a motivare la sinistra ad assumere una posizione di principio per “persuadere” la leadership ufficiale dell’OLP a riconsiderare le proprie posizioni. 

Per capire i motivi che stanno alla base del rapido deterioramento della sinistra palestinese, soprattutto dopo la presa del potere a Gaza da parte di Hamas nel giugno 2007, è bene analizzare le dichiarazioni dei leader della sinistra. Le interviste rilasciate ai media da Abdul Rahim Malouh, il segretario generale dei deputati del FPLP, indicano chiaramente che il partito ha deciso di appoggiare la destra all’interno del partito di Fatah. Sorprendentemente, questa è anche la posizione del FDLP e del Partito Popolare nonostante la leadership dell’OLP abbia redatto a approvato un’agenda filo americana. Per non menzionare le numerose violazioni da parte dell’OLP dei criteri del BDS, attorno al quale c’è un forte consenso nazionale, e nonostante la partecipazione a molti incontri volti alla normalizzazione della situazione.

Il brusco cambio di direzione della sinistra palestinese non dovrebbe sorprendere, in quanto, storicamente, ha espresso una visione del mondo antidemocratica, sia in generale sia, in particolare, in relazione all’agenda palestinese. Questa mancanza di democrazia è, ovviamente, un retaggio di un orientamento stalinista. Come conseguenza di questa visione dominante, sia il Partito del Popolo (che riconobbe il disastroso piano di partizione della Palestina nel 1947) sia il FDLP (che formulò la proposta che portò poi alla soluzione ad interim accettata in un secondo momento dall’OLP che creò il dogma della soluzione a due stati) non poterono accettare i risultati delle elezioni palestinesi del gennaio del 2006. Accettando di partecipare a queste elezioni, la sinistra palestinese, come anche Hamas, comunicò chiaramente che era preparata ad accettare le conseguenze degli ignobili accordi di Oslo. Queste elezioni furono all’epoca le prime non a base etnica o religiosa tenutesi in tutto il Medio Oriente.

Contrariamente al mito occidentale, queste elezioni sono una prova che Israele NON è l’unica democrazia della regione. Israele è d’altro canto una democrazia per soli ebrei, esattamente come la democrazia sudafricana durante l’apartheid era per soli bianchi. Invece di utilizzare in modo costruttivo un evento che all’epoca sembrava un risultato senza precedenti per le masse popolari del mondo arabo, le forze palestinesi laiche decisero di concentrarsi invece sull’elaborazione di contorte giustificazioni per il loro fallimento alle elezioni.

All’epoca alcuni attivisti ritennero che le elezioni palestinesi, nonostante vi avesse partecipato solo 1/3 del popolo palestinese, cioè i residenti della Cisgiordania e Gaza, potessero essere l’inizio di una nuova epoca in cui la democrazia nel Medio Oriente poteva potenzialmente consolidarsi.  Avrebbe potuto condividere la propria dimensione politica e sociale con altre democrazie liberali. Ma non accadde. La sinistra palestinese che si era già compromessa aderendo all’AP, permise di essere svuotata del proprio programma rivoluzionario, riparando su posizioni staliniste per poter rifiutare il risultato elettorale. Solo la mancanza di un programma rivoluzionario può spiegare il supporto dato all’ala antidemocratica e dittatoriale dell’OLP. Se si guarda all’analisi fatta dalla sinistra degli eventi di Gaza, segnata da autocommiserazione e mancanza di dialettica, la loro interpretazione degli eventi si fa ancora più chiara: la situazione nella Striscia è stata provocata solo dal partito eletto democraticamente di Hamas e non si fa alcun accenno al ruolo dei generali americani John Abrams e Keith Dayton. Completamente abbandonato ogni discorso anti-imperialista e il materialismo storico. Una retorica vuota di contenuti è divenuta un’arma utilizzata non solo dai “regimi arabi reazionari” ma anche dalla sinistra stessa. Stalin sarebbe stato felice di vedere i suoi discepoli all’opera in Palestina.

Questo fenomeno può essere chiamato “osloizzazione”. Quest’ultimo è la combinazione di corruzione, svendita di principi rivoluzionari e propaganda. L’obiettivo finale dell’attuale fiume di sangue è divenuto la creazione di uno stato palestinese di qualsiasi dimensione, e cioè la soluzione di due stati/due prigioni. La soluzione per uno stato unico, come in Sud Africa, è considerata dalla sinistra palestinese un’utopia! La sinistra non è però in grado di spiegare come possano sette milioni di rifugiati palestinesi tornare a vivere nello stato ebraico israeliano e allo stesso tempo creare uno stato palestinese. Inoltre non hanno una proposta su una riforma dell’OLP in modo da includere altre organizzazioni popolari, come Hamas e il partito Jihad Islamico, mentre L’OLP è controllato dalle stesse persone da circa 40 anni e che sono alleate delle sinistra. Non hanno formulato nessuna proposta per porre fine all’attuale scisma tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania  oltre a proporre di “ritornare alla realtà precedente a giugno 2007.” Né stanno mostrando alcuna resistenza alla collaborazione in materia di sicurezza tra l’AP e l’IDF in Cisgiordania, né rappresentano una sfida al governo di Hamas repressivo e autocratico in Gaza.

Inoltre alcuni sostengono che la sinistra palestinese sia morta e abbia abdicato al suo ruolo storico per aderire alla destra all’interno di Fatah, per un periodo ormai troppo lungo per essere ancora considerata una forza indipendente. Altri sostengono che la partecipazione della sinistra nell’OLP sia necessaria poiché l’OLP è un risultato nazionale palestinese creato per incarnare le aspirazioni nazionali del popolo palestinese. In quest’ottica l’OLP è vista come una coalizione delle principali organizzazioni politiche che hanno sottoscritto la Carta Nazionale e il programma ad interim. Un punto chiave nel programma provvisorio è il ritorno dei rifugiati palestinesi nei loro villaggi e paesi da cui sono stati cacciati durante la pulizia etnica del 1948, un diritto tra l’altro garantito anche nella risoluzione ONU n. 194.

Con l’ascesa dell’idea di una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese e soprattutto successivamente alla firma degli accordi di Oslo, la leadership dell’OLP iniziò ad usare il diritto al ritorno come principale elemento trattabile nelle innumerevoli tavole rotonde dei negoziati con Israele. Nonostante ciò, non hanno mai chiaramente e esplicitamente mostrato la volontà di abbandonare il perseguimento di questo obiettivo. Solo nella stesura del documento semi-ufficiale di Ginevra, rifiutato immediatamente da quasi tutti i partiti politici e dalla società civile a Gaza, nella Cisgiordania, nel ’48 e tra i palestinesi della diaspora, è stato fatto un tentativo di costringere i palestinesi ad abbandonare il loro diritto in cambio di uno “stato” mutilato.

Abu Mazen in alcune recenti interviste rilasciate al canale tv israeliano Channel2 e al quotidiano Haaretz ha dichiarato che è consapevole del fatto che Israele non accetterà mai il ritorno di 5 milioni di rifugiati palestinesi, si sente per tanto pronto ad accettare un ritorno simbolico. Qui abbiamo il presidente dell’esecutivo dell’OLP che chiaramente abbandona la battaglia per il diritto al ritorno dei palestinesi. Facendo questo, sta mandando un messaggio molto forte a più di 5 milioni di profughi e cioè che il loro orribile esilio non avrà fine e, inoltre, che non sono parte del popolo palestinese, siccome l’AP, che sta acquisendo sempre più potere a scapito dell’OLP, rappresenta solo coloro che vivono nella Cisgiordania e a Gaza.  

In seguito a questo cambiamento sconvolgente, ci si deve chiedere cosa rimane del programma ad interim e dell’OLP e cosa rimane della questione palestinese. Qual è la posizione delle organizzazioni di sinistra che sono rappresentate nella commissione esecutiva dopo tali dichiarazioni? Sicuramente non potranno continuare a prendere parte all’esecutivo. Quale motivo possono addurre per il loro continuo supporto all’OLP che loro stessi dicono essere stato “dirottato”? Sono i loro sostenitori soddisfatti dalla loro condanna delle interviste e dal loro mantra stanco del bisogno di nuove riforme? Il peso dell’eredità dello stalinismo continua a soffocare la sinistra araba in generale e quella palestinese in particolare. Questa è una delle principali differenze tra la sinistra araba/palestinese e quella latino americana.
La sinistra ha bisogno il prima possibile di un’analisi dell’attuale situazione in Palestina e di un programma alternativo. Senza dubbio la scelta della sinistra, anche quella più “radicale”, di partecipare alle elezioni del consiglio legislativo palestinese legittimò sia le elezioni stesse sia gli Accordi di Oslo, in quanto le elezioni si basarono legalmente su questi ultimi.

Il discorso politico dominante in Palestina concepisce gli accordi e l’AP come l’unica via politica per la creazione di uno stato palestinese. Questa analisi riflette la perdita di speranza nella forza del popolo palestinese e nella sua richiesta di terra, e fa affidamento invece sulla generosità degli Stati Uniti, dell’Europa e di stati arabi reazionari per la nascita di uno stato.

Pertanto il concetto di “non partecipazione” deve riguadagnare il potere ideologico che si dice abbia perso. Non prendere parte è mettere in discussione la legittimità dell’ordine attuale e iniziare a discutere altre alternative/possibilità allo stesso tempo. In poche parole, partecipare come candidato a delle elezioni significa legittimarle praticamente. È una distorsione ideologica dire che le elezioni per il consiglio legislativo fossero una manifestazione di pluralismo, poiché pluralismo significa non escludere nessun tipo di idea/opinione. (Inutile ripetere che i palestinesi della diaspora non hanno mai partecipato alle elezioni.) Come spesso dicono sbagliando coloro che indissero e parteciparono alle elezioni in presenza di un’occupazione; ogni punto di vista differente dovrebbe essere “inglobato” nel sistema in quanto si tratta dell’unico legittimato. Rifiutare il sistema e la sua base politica e ideologica rivelandone la sua natura sfruttatrice, distorcente e autoritaria avrebbe portato all’esclusione o all’accusa di “illegittimità”. Anche se non si è “convinti” dagli accordi di Oslo, ancora ci si aspetta che tutti li accettino, altrimenti si viene considerati antidemocratici e radicali anche se le elezioni non si tengono in uno stato indipendente.  

L’OLP ha chiesto a tutte le fazioni di accettare l’AP e di partecipare alle elezioni, costringendo alcune organizzazioni a dichiarare falsamente che le elezioni del consiglio legislativo fossero una manifestazione di pluralismo. Questo ha portato alla situazione in cui la legittimità politica è garantita solo a coloro che accettano di lavorare nel sistema.

Mesud Zavarzadeh e Donald Morton [1] in momenti diversi hanno scritto in modo molto convincente: “… le opzioni si riducono a lasciarsi “persuadere” dalla legittimità del lavorare all’interno del sistema e quindi accettarne le strutture,  oppure scoprire che non c’è possibilità di un cambiamento radicale.” La non partecipazione come mezzo per rivelare le basi socio economiche e ideologiche delle elezioni è totalmente rifiutata dai partecipanti ufficiali perché mette in luce l’illegittimità del sistema esistente attraverso il rifiuto di “stare al gioco” e alle suo regole distorte e manipolatorie e perché “significa sottolineare ciò che è possibile che viene soffocato dal più pragmatico essere” (Zavarzadeh e Morton 150:1994).  Certo, l’alternativa dovrebbe enfatizzare anche l’importanza di elezioni democratiche ma quest’ultime possono essere legittimate solo all’interno di uno stato indipendente e sovrano, sia che comprenda il 22 o il 100 per cento delle Palestina storica.

L’OLP non è uno stato, ma piuttosto l’insieme dei movimenti di liberazione nazionale. Non si sono mai tenute elezioni per eleggere i membri del consiglio nazionale. Questo permette però anche delle manovre tattiche: è possibile mantenere la “poltrona” nel consiglio nazionale non eletto e dimettersi dalla posizione ricoperta nel consiglio esecutivo in quanto quest’ultimo legittima le concessioni fatte dal partito al potere. Inoltre l’OLP è considerato il “solo rappresentante legittimo del popolo palestinese”. In quanto movimento di liberazione nazionale è essenziale per l’OLP parlare con una sola voce. La questione che la sinistra, rappresentata nel politburo dell’OLP, non ha mai portato all’attenzione dopo gli accordi di Oslo è la crisi di rappresentanza derivata dalla nascita dell’AP come unica autorità nella Cisgiordania e Gaza. Esiste un modo di democratizzare il movimento nazionale palestinese, senza mettere seriamente in discussione la predominanza di Fatah all’interno dell’OLP?!  

Le organizzazioni di sinistra dovrebbero dialetticamente analizzare questo particolare momento storico della lotta per la libertà palestinese. Qual è per esempio il loro contributo al dibattito sempre più comune a proposito di una soluzione a uno stato? Se quasi tutti i loro intellettuali hanno recentemente dichiarato che la soluzione a due stati a lungo discussa non è praticabile a causa della politica colonizzatrice di Israele nella Cisgiordania, quali sono quindi le loro alternative? Il FPLP, per esempio, dice di appoggiare un’alternativa laica e democratica ma allo stesso tempo sostiene la soluzione razzista a due stati come un passo verso il loro obiettivo strategico! Il Partito Popolare e il FDLP, più vicini a posizioni staliniste, appoggiano invece “uno stato indipendente nella Cisgirdania e nella Striscia di Gaza.” Le posizioni staliniste sono evidenti nelle numerose motivazioni addotte per il riconoscimento dell’estremamente controversa risoluzione 181 del Consiglio di Sicurezza del ONU del 1947 che dichiarò la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. La minoranza ebraica, 660.000 su 2 milioni di persone ottenne la maggior parte della terra (56%).  

Inoltre le organizzazioni di sinistra dovrebbero mostrare un maggiore interesse nel sostegno alla campagna del BDS, lanciata da più di 170 organizzazioni palestinesi nel 2004. L’appello al boicottaggio è appoggiato dalle organizzazioni progressive di tutto il mondo perché rappresenta un’alternativa progressista che mette seriamente in discussione lo status quo.

La creazione di Bantustan palestinesi nella Striscia di Gaza e Cisgiordania in cui il diritto al ritorno viene negato è una scelta politica che non potrà mai essere legittimata dal popolo palestinese. Uno stato palestinese che non garantisce il diritto al ritorno non è sinonimo di libertà ma di schiavitù. La causa palestinese è il diritto al ritorno dei rifugiati e nulla di meno, perché il “peccato originale” è proprio la pulizia etnica perpetrata nel 1948, la Nakba.  

La sinistra palestinese ha una missione storica ma non si sta rivelando all’altezza del compito, una missione che dovrebbe avere la resistenza e la democrazia come i due punti fermi per il raggiungimento della libertà. Purtroppo la sinistra ha fallito miseramente e ciò che ne rimasto è solo un po’ di vuota retorica che non ha nulla a che vedere con la ricca eredità dei leader e combattenti storici che radicalizzarono il concetto di lotta, non solo localmente, ma anche su scala mondiale. Questa sinistra non è riuscita ad adattarsi alla nuova realtà che oggi il popolo palestinese si trova a vivere. L’attuale leadership della sinistra ha perso la “forza” di cui si parla nella frase iniziale, citando uno dei leader di sinistra più carismatici, e pertanto dovrebbero “farsi da parte!” Se si guarda al risultato delle recenti elezioni municipali nella Cisgiordania, ancora una volta tenutesi sotto il controllo dell’occupazione israeliana, si nota che si sono presentati molti meni elettori vista la mancata partecipazione di Hamas e le divisioni di Fatah. I partiti di sinistra non hanno guadagnato molti voti e seggi. Con le parole di Osamah Khalil: “senza un significativo miglioramento nell’organizzazione e nelle strategie di fund raising e se non si aumenta il raggio d’azione è molto improbabile che la sinistra palestinese sia in grado di riprendersi dall’attuale situazione di moribondo in caso di elezioni per il Consiglio Nazionale Palestinese. Invece, come già è successo nell’OLP dopo il 1988, la disperazione della sinistra palestinese per mancanza di importanza verrà utilizzata per portare avanti l’agenda politica dettata dai partiti più forti i cui programmi e posizioni sono antitetici a quelli della sinistra”.   

Una “nuova” sinistra è pertanto necessaria, una sinistra che sia completamente libera dall’eredità di Oslo, una sinistra che sappia proporre delle alternative democratiche all’industria della soluzione a due stati, una sinistra rinvigorita che sappia offrire alle masse, per usare una parola che piace loro molto, la speranza di riuscire là dove in passato ha fallito, una sinistra con una nuova concezione del periodo post-Oslo, post-guerra fredda. Deve tornare ad essere veramente rappresentativa anche se ciò significa abbandonare le precedenti strutture staliniste e antidemocratiche. Questa “nuova” sinistra deve, insieme alle altre forze di resistenza popolare, creare nuove strategie e lavorare sul rafforzamento della solidarietà internazionale e sulla campagna di boicottaggio, in un fronte unito, per contrapporsi al sionismo e al suo potere imperialista. E nel caso in cui non fosse in grado di elaborare un programma alternativo rivoluzionario e non riuscisse a liberarsi dal dogma della soluzione a due stati, saremo costretti ad avere a che fare con la dicotomia Fatah-Hamas ancora a lungo. Senza una presa di distanza da Oslo e dallo stalinismo, la sinistra palestinese rimarrà irrilevante.  

Note:
[1] Zavarzadeh, Mesud and Donald, Morton. 1994. Theory as Resistance: Politics and Culture after (Post)structuralism. New York: The Guilford Press

* Haidar Eid è un professore associato di Letteratura Postcoloniale e Postmoderna presso l’Università di al-Aqsa, a Gaza e consulente presso Al-Shabaka.

Fonte: Alternative Information Center
da Palestina rossa