Giunto al quinto giorno di mobilitazione il Movimento del 9 dicembre, dopo aver ostentato la sua forza, mostra le sue evidenti debolezze. E’ vero che esso è stato innescato da un manipolo di “capi-popolo”, ma questi, proprio come l’apprendista stregone, hanno perso completamente il controllo degli spiriti che hanno evocato.

La loro inadeguatezza è allarmante. Hanno acceso la miccia della “rivoluzione italiana” ed ecco che ai primi vagiti di sollevazione sbragano, si dividono tra chi si spaventa e balbetta e i mitomani che lanciano proclami roboanti. Leader improvvisati, come star televisive alle prime armi, si lasciano impallinare dagli scaltri giornalisti di regime.

Un caso esemplare è quello del torinese Andrea Zunino, che parlando a ruota libera con la repubblica, si è lasciato scappare che lui non solo è un musulmano mezzo spiritista, ma che nella grande finanza “comandano un manipolo di ebrei”. Non l’avesse mai detto! Dopo le accuse di populismo, qualunquismo, e fascismo è giunta inesorabile quella di “antisemitismo”. Al netto della campagna di diffamazione e criminalizzazione da parte delle forze di regime, simili idiozie, sono la punta di un iceberg, poiché questo movimento riesce sì a catalizzare una potente energia sociale, ma da diritto di cittadinanza alle idee ed ai soggetti più pittoreschi e bizzarri i quali, cresciuti ai margine della buona società, si sono abbeverati a sorgenti culturali e ideali le più disparate.

Il movimento sembra come un corpo senza testa, anzi microcefalo, in cui le diverse membra si muovono ognuna per i fatti propri. La qual cosa non ci stupisce, poiché ciò è vero per ogni movimento genuinamente popolare, sorto dalle viscere di una società sfasciata che era stata in sonno per troppo tempo. Né ci sorprende che questa fiammata, squarciate le tenebre, sia destinata a spegnersi.

Ma ci sono giorni che valgono anni. Migliaia di cittadini, tenendo conto che erano in letargo, hanno compiuto un’esperienza politica diretta formidabile. Difficile pensare che tutto vada perduto, è comunque un patrimonio che non può e non deve evaporare. La rivoluzione è come una scala, che va salita un gradino per volta, ed essa può anche inciampare. Per dirla con Mao: “La vittoria strategica è il risultato di una serie di sconfitte tattiche”.

Questo lampo improvviso ha gettato un fascio di luce sufficiente per capire cosa va prendendo forma nel buio. Cos’è che abbiamo non solo intravisto ma toccato con mano? Che lo sfascio del tessuto sociale ha generato un’ampia e magmatica zona di emarginazione e di esclusione; che in questa zona si sono depositati brandelli delle più diverse classi sociali; che essa ribolle ed è sul punto di eruttare fragorosamente; che il collante decisivo che tiene unito l’insieme caotico è l’odio per la casta politica e i ricchi, ma perché hanno fatto strame della giustizia sociale, della democrazia, della sovranità nazionale.

A sinistra ha prevalso il disprezzo: l’odio per la casta è stato bollato come qualunquismo, la richiesta di giustizia sociale come populismo Peggio ancora è andata con la richiesta diffusa di sovranità nazionale. Per il fatto che la sola bandiera usata dai dimostranti è solo quella tricolore, le due sinistre  (quella affetta dalla sindrome da globalismo eurista e l’altra da internazionalismo compulsivo ) hanno gridato al nazionalismo, allo sciovinismo, alla xenofobia.

Babbei! Aveste frequentato i presidi avreste compreso come ogni cosa sia contraddittoria e polisemica, che lo sventolare quella bandiera esprima anzitutto la considerazione che dopo il “crollo delle ideologie” quello è diventato il  simbolo unificante dei rivoltosi e dei nuovi attivisti. Un simbolo da sbattere in faccia a politicanti che la sovranità italiana hanno svenduto, da oppore all’Europa neoliberista ad egemonia tedesca, quindi un’icona ad esprimere bisogno di comunità, identità e solidarietà.

«A Torino, uno degli arrestati negli scorsi giorni ha dichiarato ai magistrati: “volevo fare qualcosa per il mio Paese”. L’uomo, titolare di una piccola impresa, è anche titolare di un bar, ed è stato arrestato proprio per aver costretto un bar a chiudere durante la manifestazione».

Chi sputa addosso a questo sentimento nulla ha capito di quanto accaduto e maturato nelle viscere della società, è quindi destinato ad essere espulso come corpo estraneo da questa nuova Italia dei poveri e dei reietti che urla giustizia e vuole riscattarsi, e sarà condannato all’irrilevanza politica.

Che sia stata la piccola e media borghesia gettata nel lastrico la forza motrice della protesta, era comprensibile. Quante volte l’avevamo detto agli operaisti mummificati! E quante volte avevamo ammonito che proprio l’atteggiamento spocchioso ed elitario della sinistra (nelle sue diverse sfumature) rischiava di gettare questi ceti tra le braccia della reazione!

Poteva andare molto peggio. Il sussulto sociale scatenato da questi ceti poteva in effetti prendere una brutta piega. Sarebbe forse accaduto se non fosse che la gioventù proletaria e precaria si è unità alla lotta. Potrebbe ancora accadere se le forze rivoluzionarie che hanno incontrato e dialogato con questo movimento non insistessero nella loro battaglia di inseminazione e di organizzazione. Debbono provare a dare continuità al movimento, radicandolo in ogni zona, proponendo un’organizzazione stabile e unitaria dei vari focolai, fino alla costruzione di un coordinamento nazionale davvero rappresentativo.

Ci sono due vie. La prima è quella di convocare in un’assemblea nazionale di delegati eletti dai comitati locali. Questa via ha delle controindicazioni: si sono fatti avanti per primi, in molte città e zone, individui pieni sì di buona volontà, ma privi di esperienza politica, spesso ingenui, altre volte bizzarri, poco affidabili.

L’altra via è quella che potremmo chiamare della cooptazione. L’attuale coordinamento nazionale a sette, quello che ha una conoscenza più precisa delle diverse realtà territoriali, conformi esso un coordinamento nazionale più ampio e autorevole. Il rischio insito in questa procedura è duplice: non solo essa non è democratica (e quindi rischia di partorire una direzione scarsamente rappresentativa), sta appunto nella debolezza politica intrinseca dell’attuale nucleo dirigente. Un nucleo diviso al suo interno, tra chi ragiona e non vuol fare passi falsi e chi si fa vettore di un ribellismo di marca fascistoide.

Come che sia occorre procedere nel tentativo di dare un’organizzazione stabile. Se questo non accadrà la disgregazione sarà inevitabile.

Per concludere. I limiti dell’attuale direzione del movimento non sono incidentali, essi esprimono l’evidente incapacità di direzione della piccola e media borghesia, la sua impotenza ad esercitare egemonia reale. Questa non è frutto di una quantità sociologica, ma di una qualità politica che manca a questi ceti. D’altra parte la vecchia classe operaia, voltando le spalle al movimento di protesta, ha confermato il suo stato comatoso. Entrerà nel gorgo per ultima.

E’ al nuovo proletariato precario e flessibile che spetta il compito di diventare la forza motrice della sollevazione che bussa alle porte. Ed ai rivoluzionari quello di dotarlo di intelligenza strategica.