Cosa c’è di nuovo nella guerra siriana nella fase preparatoria dei negoziati di Ginevra

La Siria è senza dubbio il fulcro della conflittualità nel sistema mondiale. Infatti è attraversata da faglie sociali, politiche, regionali e internazionali che stanno generando una eruzione tremenda, che ha trasformato una rivolta popolare in una guerra civile settaria con pesanti interferenze straniere. E la posta in gioco è veramente alta, molto alta. Anche se origine e fondamento degli eventi sono stati i diritti democratici e sociali delle masse popolari, essa ha finito per investire la riprogettazione dell’ordine regionale e globale.

Proviamo a distinguere le tendenze recenti che emergono da questo conflitto, sullo sfondo dei preparativi per i colloqui di Ginevra programmati per il mese di gennaio del 2014.


1) Ragione dei colloqui: la soluzione militare è insostenibile per Washington

Il fatto più evidente è che la principale potenza mondiale, gli USA, sta studiando e valutando il terreno per una soluzione politica del conflitto armato. I costi politici e i rischi di una prosecuzione infinita della guerra sembrano divenuti troppo alti per loro, che quindi cominciano a cercare una soluzione, ma non a qualsiasi costo. Questo implica anche che le parti non sono ancora giunte all’esaurimento e sono in grado di proseguire qualora non si possa  mediare alcun compromesso.

Siamo di fronte ad un significativo cambiamento della politica americana, che è divenuto palese con l’accordo sulle armi chimiche  raggiunto nella tarda estate del 2013. In realtà l’accordo fu una svolta spettacolare, dopo un andamento ondivago che poteva sfociare in una tappa vittoriosa per Assad.

Prima dell’accordo la politica statunitense era contraddittoria. Da un lato c’è stata la forte e manifesta riluttanza ad un intervento militare diretto sul modello di quello avvenuto in Libia. L’amministrazione Obama vuole evitare il coinvolgimento in grandi guerre che non si possono vincere, seguendo la lezione delle mezze sconfitte in Iraq ed in Afghanistan. Dall’altro lato l’amministrazione ha contribuito alla costruzione ed al sostegno delle potenze locali, anche se queste ultime sono pur sempre rimaste deboli. Cosa ancora più importante: Washington ha lasciato mano libera ai suoi alleati locali – Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo – nel prestare un massiccio aiuto militare, e quindi anche nel modellare politicamente la rivolta popolare e trasformarla in una insurrezione armata. Gli Stati Uniti e i loro alleati speravano che in tal modo avrebbero rovesciato Assad, speranza che dopo due anni è stata definitivamente frustrata.

Poi, all’improvviso, Washington si è avvicinata con una sconcertante proiezione di potenza militare che, fino a quel momento, aveva escluso. La mossa non rientrava nella strategia seguita fino ad allora. Era come se volessero imporre delle auto-interpretate “linee rosse” che non corrispondevano al loro approccio politico globale sulla Siria. Obama ha avuto così bisogno di aiuto per ritirare la minaccia militare attraverso un accordo per il disarmo chimico (cosa che è più simbolica che di valore militare). Ciò significa di fatto accettare Assad come interlocutore e, da quel momento, astenersi da ogni azione militare diretta. Un gran successo per Assad,  il cui regime solo pochi giorni prima era al suo punto più basso a causa della minaccia proveniente da una imminente aggressione americana, che difficilmente egli avrebbe potuto sostenere per più di qualche settimana. (1).

Questa tappa si è aggiunta alla difficile situazione degli Stati Uniti. Washington non ha solo perso una merce di scambio di ultima istanza (l’uso della sua superiore macchina militare), ma ha anche sconfessato le forze siriane sue alleate, per le quali strumento e speranza principale restava l’intervento americano. Seguendo la logica militarista della rivolta, l’accordo è stato recepito come un tradimento, provocando un massiccio spostamento verso il jihadismo. Il costante sostegno di Washington alle forze militari siriane sue alleate (FSA – Esercito Siriano Libero n.d.t.) è diventato inutile, mentre i suoi alleati regionali hanno iniziato a riorientare il loro aiuto e a puntare tutto sul jihadismo, che alla fine ha assunto peso sul terreno militare.

Ma il jihadismo non è solo un partner inaffidabile per gli Stati Uniti, ma addirittura un pericolo superiore perfino ad Assad. Tutto sommato gli USA sono consapevoli della loro debolezza, che lascia poche altre opzioni rispetto a quella di un compromesso politico. Questo non significa comunque che essi accettino una netta sconfitta, che del resto Assad non è abbastanza forte da imporre.

2) Distensione iraniana

Il ravvicinamento all’Iran è un elemento centrale della politica estera dell’amministrazione Obama. Ciò è una conseguenza che proviene dal riconoscimento delle mezze sconfitte in Iraq ed in Afghanistan. Un attacco militare all’Iran per ottenere un cambiamento di regime è stato scartato insieme ai sogni di un Impero Americano. Gli Stati Uniti si muovono per un dominio indiretto sul mondo, che può anche includere entro certi limiti passi verso il multipolarismo. D’altra parte questo ordine modello Obama sarà possibilmente più sostenibile, data l’incapacità di ogni altra potenza di sfidare la superiorità degli USA, tanto meno di unirsi contro il centro.

La Siria è un particolare all’interno del rapporto occidentale con l’Iran, anche se importante. Non andrebbe dimenticato che l’Iran era la testa dell’asse degli stati canaglia e la principale sfida all’ordine mondiale statunitense. Il ravvicinamento a Tehran è precondizione necessaria ma non sufficiente per una soluzione in Siria.

D’altro canto non si può trascurare la massiccia opposizione a favore della linea dura dentro le elites statunitensi, come pure i suoi alleati a livello mondiale, Israele innanzitutto ma anche l’Arabia Saudita, che vuole mantenere contro l’Iran la linea dura seguita negli ultimi due decenni. (2).

3) I recenti successi militari di Assad

Il governo aumenta il numero delle battaglie vinte e nessuno può negarlo. Esaminiamo i seguenti motivi:
a) La scelta tattica di non impegnarsi per la difesa di territori non strategici e di lasciarli al nemico che non è in grado di difenderli, usarli ed amministrarli correttamente è stata intelligente. Così si è evitato di usurare le forze ci si è potuti concentrare sul controllo del patrimonio strategico.
b) Il massiccio supporto di truppe straniere, principalmente dei collaudati combattenti di Hezbollah, degli iraniani e dei meno efficaci miliziani sciiti.
c) La riorganizzazione confessionale delle truppe, principalmente regolarizzando le milizie Shabiha nell’ambito delle Forze Nazionali di Difesa (NDF), rispecchiando il settarismo sunnita. Questo si è rivelato un successo enorme, dato che queste persone difendono “il proprio territorio”. Ne fanno parte come componenti non soltanto alawiiti, ma anche cristiani e drusi. Ma quando si giungerà alla riconquista di territori con popolazione ostile, probabilmente queste truppe non saranno efficaci. Prendiamo come lezione il caso del PYD curdo e le sue milizie. A differenza delle milizie cristiane e druse, esse non stanno sotto il comando delle forze di Assad, ma di fatto si attengono ad un patto di non aggressione di fronte agli attacchi dei jihadisti. Per loro Assad è il male minore, visto che si astiene dall’attaccarli. Ma esse non aiuteranno Assad nella conquista di territori o a sopravvivere. Esse pensano semplicemente alla loro sopravvivenza.

La principale ragione dei progressi del regime comunque è politica.


4) Il jihadismo dirotta e strangola la rivolta popolare

Il jihadismo e la sua manifestazione più estrema, il takfirismo (3), è un programma minoritario. Anche se importanti settori delle classi più basse per un certo periodo di tempo hanno seguito la logica militarista della radicalizzazione armata contro il regime che ha risposto alle istanze popolari solo con massacri e repressione, non concedendo alcun diritto democratico, alla fine in molti se ne stanno allontanando, poiché sperimentano il governo dei jihadisti o dei takfiri. Un importante fattore aggiuntivo sia della forza militare che della debolezza politica del jihadismo è la pesante presenza di combattenti stranieri. L’esempio di Raqqa, capoluogo di provincia sotto controllo dell’ISIS, impartisce lezioni emblematiche. I rapporti che vengono da lì indicano un regime estremista islamico che non solo terrorizza le minoranze religiose, ma allontana anche la maggioranza e sopprime perfino altre forze jihadiste con mezzi armati. Nel caso di un contrattacco da parte delle forze di Assad, c’è da aspettarsi che buona parte della gente rimasta guarderà al suo vecchio nemico come al male minore per liberarsi dei takfiri.

Anche se sarebbe fuorviante considerare la sollevazione come imposta dall’esterno, secondo la narrazione che ne fa il regime, c’è infatti una tendenza ad espropriare politicamente e militarmente quella che in origine era nata come rivolta popolare democratica. La militarizzazione è stata innanzitutto una risposta al giro di vite militare da parte del regime. La militarizzazione è stata alimentata sia all’interno che dall’estero. Tutti i freni politici sono stati distrutti sia da parte di Assad che da parte dei sostenitori stranieri della ribellione. Nell’ambito dello spettro islamico non c’era nessuno che fosse disposto o in grado di fermare questa dialettica, e neppure nelle forze laiche e di sinistra alleate con l’occidente. Le forze democratiche e di sinistra antioccidentali già da prima erano state messe ai margini ed espulse.

Ma adesso il jihadismo sta sovrastando e cerca  di silenziare la rivolta popolare democratica. Quello che in prima istanza sembrava fornire una potenza militare che avvicinava un equilibrio delle forze con il regime ora si sta trasformando in uno svantaggio. Seguendo la loro logica militare i jihadisti hanno voluto superare l’asimmetria, trasformando il conflitto in una guerra convenzionale simmetrica, trascurandone il sostegno popolare che ne era alla base. Ma questa base popolare e il carattere asimmetrico del conflitto era la virtù principale della rivolta contro un nemico superiore almeno in termini militari. Così i jihadisti hanno demolito il loro patrimonio principale. Questa è la ragione più profonda per cui essi stanno per subire una serie di sconfitte.


5) La dissoluzione del FSA

La presa del controllo di un deposito del FSA da parte delle forze jihadiste presso lo strategico valico di confine di Bab el Hawa all’inizio del dicembre 2013 è di un’importanza emblematica. Di fronte alla minaccia dell’ISIS, l’FSA considera la coalizione jihadista contro l’ISIS (il Fronte Islamico) come il male minore e l’unico soccorso. Contro il crescente takfirismo esso deve allearsi con il jihadismo e cedere. Questo avvicina una piena dissoluzione delle forze militari filo occidentali. La concorrenza interna ora avviene fra jihadismo e takfirismo, anche se entrambi cercano di evitare un vero e proprio scontro armato. Le ragioni del collasso delle forze filo occidentali più moderate sono già state sfiorate prima:
a) Ritiro della minaccia militare statunitense, che era uno dei principali strumenti in mano al FSA, che così lo ha preso per un tradimento.
b) Logica militarista favorevole ai jihadisti e ai takfiri, miltarmente più efficaci, contro un regime totalmente intransigente indisposto ad un compromesso.
c) Una soluzione negoziata è stata considerata pure dalle forze filo occidentali del FSA e dai loro rappresentanti politici come una capitolazione, valutazione questa supportata dal fatto che non ci sono segni di disponibilità per un compromesso da parte del regime. Ciò è legato ad un errore di calcolo dei rapporti di forza, a sua volta connesso alla mancata comprensione del potere divisivo del confessionalismo.
d) Quando gli Stati Uniti hanno cambiato la loro linea sull’Iran e hanno previsto Ginevra, i sauditi e i loro alleati del Golfo hanno reindirizzato il loro sostegno verso il fronte jihadista, che si oppone ad ogni compromesso con l’Iran e con Assad.

C’è sicuramente anche un problema più generale nella cultura dell’Islam politico e dei suoi alleati, non solo a livello di dirigenza ma anche nella base dei suoi sostenitori. Ritengono che in virtù dell’Islam essi rappresentano il popolo e che non occorre conquistare le masse o creare consenso. Essi concepiscono il regime di Assad solo in termini morali, criminali o militari e non hanno comprensione politica del costante sostegno di cui gode fra certi settori del popolo e non solo fra le minoranze confessionali. Tale mentalità può interpretare i negoziati solo come espressione di varie sfumature di capitolazione e non come uno strumento politico per convincere la maggioranza (come molti movimenti di guerriglia di sinistra hanno tentato di fare). Essi non sono in condizione di riconoscere una situazione militare di stallo, che può esser superata politicamente prendendo in considerazione perfino un passo indietro in termini militari.


6) Sistematico ostruzionismo saudita ad un accordo

I sauditi continuano ad opporsi ad una qualunque soluzione negoziata con l’Iran e dunque con il regime di Assad. Per tale motivo essi hanno espresso un forte disaccordo con la linea avviata dagli Stati Uniti dopo l’accordo sulle armi chimiche.

Hanno quindi intensificato la loro campagna contro i negoziati di Ginevra e sostengono pesantemente i jihadisti, mentre hanno prosciugato l’aiuto alle forze del FSA, accelerandone il collasso.

Vogliono inoltre indebolire tutte le forze legate alla Fratellanza Musulmana (MB), che costituisce il nucleo della rappresentanza politica dell’opposizione nella forma del Consiglio Nazionale e, in senso più ampio, anche della Coalizione Nazionale. Quest’ultima a sua volta, con la macchinazione statunitense, ha diminuito l’influenza della Fratellanza e le ha fatto accettare, almeno in linea di principio, i negoziati. La Fratellanza, con il suo potente seguito di massa nel mondo arabo ed islamico, costituisce un pericolo per la monarchia saudita. Perciò i sauditi hanno addirittura sostenuto il colpo di stato egiziano contro di essa.

Gli Stati Uniti avranno difficoltà a trascurare la pressione di Riyadh. Già da ora c’è un certo ondeggiamento riguardo la distensione con l’Iran, che mette ulteriormente in pericolo  il tentativo di Ginevra.

Per il momento non sembra possibile nessun accomodamento, nessun accordo, nessun equilibrio fra Tehran e Riyadh. E questo è uno dei principali impulsi incendiari stranieri alla guerra siriana. Perfino gli Stati Uniti non hanno alcun rimedio, anche se volessero.


7) Turchia in subbuglio

La Turchia è il primo giocatore straniero nell’arena siriana. Essa è molto più importante dell’Arabia Saudita; figuriamoci del Qatar! Il suo percorso non viene da fervore antiraniano, come nel caso di Riyadh. La Turchia sotto l’AKP voleva diventare modello e leader dell’intera regione (neo ottomanesimo), combinando Islam, democrazia, capitalismo e “zero problemi” con i più diversi vicini. Erdogan era stato perfino l’artefice di relazioni amichevoli con Assad, comprimendo così il suo più pericoloso nemico interno, il PKK curdo.

La precipitosa scelta di Erdogan di rovesciare Assad ad ogni costo è stata il frutto di una grandiosa sopravvalutazione della sua influenza e della potenza dell’Islam politico sotto il marchio dell’AKP e della Fratellanza. Il suo errore di calcolo gli si sta per ritorcere contro e innescare il crollo del suo stesso modello.

L’AKP ha avuto successo perchè Erdogan ha avviato una generale democratizzazione, mentre non ha toccato l’autonomia culturale del milieu laico kemalista. Così egli si è assicurato il sostegno delle classi medie urbane, laiche e liberali, isolando il kemalismo militarista e le sue vecchie elites. Egli ha reciso questa alleanza vincente nel paese solo sotto la spinta dello scontro generale fra Islam politico e laicismo in Egitto e Siria. Il risultato è il conflitto con il movimento di Gezi Park (4) e la sua svolta verso la lotta culturale nello stile della Fratellanza egiziana. Egli ha provocato inoltre l’ascesa del localismo alawiita in Turchia, che sta dalla parte di Assad. (5).

La posizione di Erdogan sulla Siria ha anche portato al deterioramento dei rapporti con tutti i vicini, prima di tutto con  l’Iran, ma anche con la Russia, l’Arabia Saudita e infine l’Egitto.
Infine il ramo siriano del PKK ha conseguito un’influenza e un potere senza precedenti, aumentando le sue leve anche in Turchia. Il tentativo di Erdogan di risolvere la questione kurda bypassando e mettendo ai margini il PKK sembra pure esso impantanato.
Il risultato è la resurrezione del kemalismo attraverso la questione siriana.

Alla fine Erdogan cerca, con cautela, di fare marcia indietro con l’Iran via Bagdad ed anche con la Russia. Egli vorrà certamente evitare di muoversi freneticamente come i sauditi, ma il suo margine di azione è limitato, egli è intrappolato in un dilemma. Da un lato subisce la pressione dei suoi  sostenitori islamisti cui aveva promesso la vittoria in Siria, promessa che non è in grado di mantenere (e che leggono questa promessa anche come un appello alla battaglia culturale, e quindi ad una radicalizzazione interna al paese). Dall’altro c’è il potente movimento di Gulen, che non sostiene né la sua agenda sulla Siria né la lotta culturale. Dunque la divisione attraversa proprio casa sua.

Da ultimo, ma non meno importante, l’ascesa di Erdogan si è basata sul miracolo capitalista della Turchia. Ma soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007/2008 tale miracolo si è fondato su uno dei più grandi deficit delle partite correnti di tutti i “mercati emergenti”, creando così una enorme dipendenza dal famigerato denaro bollente e dal programma di quantitative easing della Banca Centrale statunitense che lo fornisce. Non appena il flusso si assottiglierà la Turchia si troverà a secco di capitale. Difficilmente si potrà evitare un collasso economico come quello del 2001, che innescò la scomparsa delle vecchie elites portando alla fine Erdogan al potere.

Quindi, in un intervallo di medio termine, non può escludersi una caduta del governo del’AKP, provocata dagli eventi siriani. Erdogan ha voluto fare della Siria la chiave di volta del suo edificio; e questo ora potrebbe diventare la sua pietra tombale.

Per adesso la Turchia continua a supportare l’insurrezione, compresa la sua ala jihadista, ed è riluttante verso il progetto di Ginevra orientato ad un compromesso.  Ma essa non può più attaccare a testa alta e, tacitamente, potrebbe unirsi agli sforzi degli Stati Uniti. Questo è un ulteriore indicatore degli alterati rapporti di forza.

8) Errore di valutazione del regime e della Russia

Il gruppo di Assad e la Russia avvertono che la marea sta cambiando e si vedono alla fine come vincenti. La “soluzione della sicurezza”, la linea dura della repressione del movimento democratico popolare e del soffiare sul fondamentalismo islamico sembra mostrarsi giusta. Qualcuno ha appropriatamente definito in francese la cricca dominante come “cerchiobottista”.

Effettivamente per adesso ci sono fattori favorevoli alla sua sopravvivenza: la linea morbida degli Stati Uniti, la perdita di slancio militare della rivolta e il reale aspetto del mostro jihadista, che il regime ha cercato di dipingere e gonfiare fin dall’inizio per evitare la decomposizione dei suoi sostenitori sotto l’appello delle istanze democratiche e sociali delle classi più basse.

Se esso oggi si fermasse nel chiedere la capitolazione e tendesse la mano alle forze democratiche di sinistra e all’ambiente islamico moderato e anche ai combattenti, esercitando un potere di scambio, si assicurerebbe la sopravvivenza, non come una quasi monarchia assoluta ma come una rappresentanza confessionale arricchita da un certo tipo di autoritarismo laico. Se ha capito la possibilità politica di spaccare l’islamismo con un parziale cedimento alle originarie richieste democratiche e con l’integrazione nel sistema della Fratellanza Musulmana o di suoi surrogati, alla fine potrebbe isolare e battere il jihadismo, perfino con il tacito sostegno statunitense. Questa è una variante di Ginevra.

Ciò può significare una sorta di semispartizione sulla base dell’attuale controllo del territorio, che riflette anche la già compiuta pulizia confessionale. Ma formalmente la Siria resterebbe unita anche come espressione di un compromesso.

Tuttavia non ci sono segnali che il gruppo di Assad contempli l’ipotesi di imbarcarsi in una simile missione di salvataggio. Nella sua tradizione storica una tale linea non esiste. Molto probabilmente continuerà a scommettere tutto sulla carta militare e sulla vittoria completa, che non potrà mai raggiungere. Il suo blocco confessionale, sociale e politico è decisamente troppo piccolo per questo obiettivo se esso non fa sforzi per conquistare politicamente larghi strati bassi e medi, che in origine stavano dal lato della ribellione, venendone poi allontanati a causa della radicalizzazione dell’islamismo. (Tale mossa implica necessariamente l’accettazione come interlocutore dell’Islam politico sunnita, che il partito Baath fino ad ora ha completamente rifiutato). La Russia a sua volta sembra non far nulla per scuotere il blocco dalla sua arroganza.

Il gruppo di Assad è ancora seduto al posto di guida del conflitto ed è soprattutto sua la responsabilità di fare il primo passo verso una soluzione politica negoziata. Contrariamente alla sua narrazione dell’ingerenza straniera, è ancora questo gruppo che ha le chiavi per fermare o proseguire la guerra civile, mandando a pezzi la società siriana. Nel peggiore scenario la guerra potrebbe durare per anni, dato che le parti sono ben lontane dall’esser stanche.

9) La speranza, ovvero: cosa succede ai democratici rivoluzionari?

Non dobbiamo dimenticare che l’attuale apocalisse è iniziata come un autentico movimento popolare per i diritti democratici e sociali, analogamente a quanto avvenne in Egitto e Tunisia. Allora perché i rivoluzionari democratici sono stati messi ai margini? Hanno commesso gravi sbagli come in Egitto? O hanno ancora un ruolo da giocare? E in qual modo la solidarietà antimperialista per i diritti delle classi più basse può agire all’estero? (6)

Riteniamo che fra Scilla e Cariddi non sia stato lasciato molto spazio. Essenzialmente c’erano due opzioni, ciascuna senza propspettiva:
a) La linea di Hayat al Tansiq (Coordinamento Nazionale per il Cambiamento Democratico – NCB), che è la principale espressione della sinistra storica, fondata sul pacifismo e su tre no: no all’intervento straniero, no al confessionalismo, no alla guerra civile. Data la reazione estremamente repressiva del regime, il reciproco atteggiamento dell’islamismo ha generato una spirale di  militarizzazione, contro la quale non c’erano mezzi disponibili. Era impossibile esprimersi contro l’autodifesa armata ed era inoltre molto difficile tracciare una linea chiara all’azione militare, che inutilmente ha guidato la militarizzazione.
b) Altri hanno partecipato o sostenuto la lotta armata. E’ stato quasi impossibile dividere questo atteggiamento dal giocare con la potenza statunitense per il rovesciamento di Assad, come opporsi alla logica militare. Inoltre essi hanno potuto solo acquisire un ruolo marginale. La dipendenza politica e materiale dall’occidente e dalle potenze regionali prodotta dalla lotta armata è troppo grande.

Anche se non inconcepibile, una linea mediana sarebbe una lotta su più fronti impossibile da vincere.

Date queste avverse condizioni, fra un regime capitalista settario ed estremamente oppressivo contro le masse popolari, supportato da Russia ed Iran da un lato, e una sollevazione islamista ancora più settaria sostenuta dalle potenze regionali più reazionarie appoggiate dagli Stati Uniti dall’altro, una soluzione negoziata sarebbe evidentemente il male minore. Deve esser chiaro che ciò non significherebbe una vittoria della rivolta popolare, ma un compromesso fra squali e lupi, fra i colpevoli del massacro: le potenze mondiali e regionali.

Ciò significherebbe anche una spartizione di fatto su linee confessionali, non molto lontana dal progetto che il colonialismo francese un tempo aveva concepito. Ma questo sarebbe comunque meglio della continuazione della guerra civile, che approfondirebbe ancor di più la spaccatura confessionale e non potrebbe esser vinta da nessuna parte. Solo un cessate il fuoco, una progressiva smilitarizzazione darà respiro alle forze democratiche rivoluzionarie. L’obiettivo è quello di premere per questa soluzione negoziata e valutare come sia possibile realizzare le originarie istanze democratiche e sociali. Anche se le forze popolari democratiche sono state largamente messe a tacere, private di ogni espressione, il loro milieu esiste ancora. Se le condizioni mutano, esse possono nuovamente emergere ricostruendo un’articolazione politica.

10) Ginevra?

E’ difficile e di importanza secondaria prevedere se i negoziati avranno luogo come programmato o comunque presto. Ciò che è decisivo è che un accordo per la condivisione del potere emerga sotto forma di un governo di transizione in cui il regime ceda parzialmente il potere per diventare un giocatore fra gli altri. Per il momento non ci sono segnali in tal senso provenienti dal versante del governo o dalla Russia.

Allo stesso tempo è vero che anche dalla parte dell’opposizione c’è stata riluttanza verso un simile compromesso. Ma sono stati proprio gli Stati Uniti, dopo l’accordo sulle armi chimiche, a forzare verso il tavolo negoziale e quindi ad assicurare la loro disponibilità ad una soluzione, che dovranno accettare perché essi sono la parte più debole. C’è sicuramente da aspettarsi una forte opposizione dai jihadisti e dal blocco saudita. Ma se le concessioni di Assad saranno abbastanza significative il jihadismo non riuscirà a mandare a monte un accordo che avrà un solido sostegno nella società.

E’ ovvio che in ultima istanza tutto si condensa e culmina nel valore simbolico della persona di Assad. Finché egli si aggrappa al potere assoluto e non dà segni di disponibilità a ritirarsi (cosa in parte concepibile), una soluzione sarà impossibile e la guerra frantumerà ancora. Quindi, considerate le attuali condizioni e circostanze, è improbabile che un negoziato serio si svolgerà in un futuro prossimo generando un compromesso per la condivisione del potere.

 

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1. Vedere l’analisi immediatamente successiva all’accordo sulle armi chimiche
2. Vedere l’analisi sul preaccordo USA
3. Il Takfirismo dichiara infedeli tutti gli altri musulmani e  politicamente giustifica la guerra anche contro gruppi rivali molto simili.
4. Vedere “Gezy park: fra democrazia e kemalismo
5. Vedere “Rivoluzionari ed Alawiti
6. Iniziativa Internazionale per una soluzione politica in Siria www.peaceinsyria.org

Traduzione di Maria Grazia Ardizzone