La dis-Unione europea davanti alla sfida della nuova tempesta finanziaria

Il Consiglio Ecofin [il cruciale dipartimento del Consiglio dell’Unione che si occupa di Economia e Finanza, Ndr] la notte del 18 dicembre scorso approvò un protocollo d’intesa sulla cosiddetta Unione bancaria.

Per chi voglia addentrarsi nella sfera delle tecnicalità, ovvero capire i farraginosi meccanismi di questa Unione Bancaria, (s)consigliamo di leggere questa meticolosa ricostruzione di Economy 2050. Per una descrizione meno impegnativa si vedano queste schede de Il Sole 24 Ore.

Al netto dei tecnicismi noi vorremmo dare un giudizio politico e spiegare perché noi riteniamo che l’Unione bancaria si concluderà in un flop, con conseguenze letali per le sorti della Ue.

Perché l’Unione bancaria?

E’ presto detto: mettere al riparo il sistema bancario europeo da nuove tempeste finanziarie e bancarie come quella del settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers) che dagli Usa si propagò al resto del mondo.

Obbiettivo ambizioso quello dei tecnocrati europei, ma esso è direttamente proporzionale alla probabilità che il sistema bancario europeo collassi, visto che è forse quello più malato.

Ogni boom, in ambiente economico capitalistico, è seguito inesorabilmente da un tonfo. Ad una fase di espansione economica quella della contrazione, con costi enormi che vengono scaricati soprattutto sulle spalle del popolo lavorare. Questa successione, empiricamante sempre verificatasi, vale a  maggior ragione nel sistema di capitalismo-casinò (o iper-finanziarizzato). In questo ambiente i capitali che dettano legge sono liquidi — come avrebbe detto Marx: sono puri segni di valore, forma astratta della ricchezza sociale — non solo non hanno alle spalle l’oro di una volta, svolazzano nella stratosfera finanziaria senza alcun legame certo nemmeno con il sottostante mondo della produzione di merci. Non solo questi circolano sul filo dei nanosecondi, si spostano dentro e fuori le borse alla ricerca del massimo guadagno. In questo ambiente schizzoide le grandi banche d’affari la fanno da padrona, esse non solo custodiscono i tesori, sono i principali vettori di questi capitali speculativi. Il sistema bancario costituisce infatti il sistema nervoso del capitalismo contemporaneo, con una miriade di terminali periferici ma pochi grandi centri nevralgici. Se questi ultimi collassano salta tutta la baracca del complesso sistema capitalistico.

Ora qual è la situazione? E’ che da negli ultimi due anni le borse mondiali hanno conosciuto un ciclo vorticoso con un rialzo stellare dei prezzi e delle  quotazioni. La bolla appunto. Questo boom finanziario, com’è noto, è stato agevolato dall’ingente flusso di liquidità innescato dalle banche centrali, anzitutto quella statunitense (quantitative easing). Questa politica monetaria espansiva, chiamata wall of money, la muraglia dei soldi, aveva come scopo far ripartire l’economia, facendo affluire la liquidità nel mondo della produzione e degli investimenti, affinché le imprese capitalistiche aumentassero fatturati e utili. Quel che è accaduto è che la gran parte di questa liquidità (dal momento che deve prima passare per le banche) è stata trattenuta nel circuito della finanza, utilizzata e prestata sì, ma per l’acquisto di azioni, obbligazioni e titoli di Stato i cui prezzi, a causa della legge aleatoria della domanda e dell’offerta, sono saliti alle stelle.

Di qui la premonizione di diversi analisti che prevedono imminente lo scoppio in forme virulente della bolla, con conseguenze che saranno ancor più catastrofiche di quelle dello scoppio della bolla immobiliare e finanziaria del 2007-2008. Delle capacità predittive di analisti ed economisti occorre certo dubitare, ma è un fatto acclarato che le borse hanno anticipato e quindi previsto quasi tutte le recessioni, piccole e grandi. Il letterale crollo delle borse dei “paesi emergenti” registratosi negli ultimi giorni, con fughe di capitale nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari, è forse l’avvisaglia della prossima tempesta finanziaria.

Si capiscono dunque il timor panico dei banchieri, dei politici e dei tecnocrati, anzitutto europei, che siedono nelle cabine di regia, i loro disperati tentativi di evitare che il sistema ri-collassi su se stesso.


Il diavolo sta nei “dettagli”… e che dettagli!

Intanto è degno di nota che l’esultanza con cui vennero presentati i risultati del Consiglio Ecofin del 18 dicembre — Saccomanni si spinse a parlare di “risultato storico” — ha lasciato sommessamente posto, anche tra i più decisi europeisti, non solo a dubbi, ma anche a delusioni profonde. Il “Trattato storico” si è trasformato in un “pessimo compromesso”; il “protocollo d’Intesa” è diventato un “canovaccio aperto a sostanziali modifiche”. Veniamo anzi a sapere che “il negoziato è ancora in corso ed è tutto in salita”. [1]

Non c’è solo confusione nelle cabine di regia di Bruxelles e Francoforte, c’è un vero e proprio scontro sulla via da seguire. Buona parte dei governi europei, sostenuti da alcuni dei tecnocrati di Bruxelles e Francoforte, vorrebbero rimettere mano al “Trattato” di dicembre, mentre la Germania, per bocca di Schauble, si è arroccata in sua difesa e minaccia sfracelli se solo si sposta una singola virgola.

Il punto dolens è sempre quello, che la Germania non è disposta a cedere sovranità, respinge cioè l’idea che organismi sovranazionali ficchino il naso nei loro affari interni, in particolare nel loro opaco sistema bancario e finanziario. Siamo alle prese, mutatis mutandis, con le stesse dinamiche che operarono nel 2010 con lo scoppio della bolla dei debiti pubblici dei cosiddetti Piigs: si dovevano mutualizzare i costi dei “risanamenti” oppure ogni paese avrebbe dovuto provvedere a se stesso? Come andò a finire si sa, la spuntò il governo tedesco della Merkel il quale, com’è noto, in barba al suo conclamato europeismo, seguì (e segue ancora) l’adagio Ognuno per sé, Dio per tutti.

Ci diceva a caldo l’analista che tre sono i principali obbiettivi dell’Unione bancaria:
«(1) spezzare il legame tra il rischio-Banca e il rischio-Stato; (2) proteggere a oltranza il risparmiatore; (3) garantire l’uniformità delle condizioni del credito in un mercato bancario europeo ancora troppo frammentato, con le aziende italiane che pagano tassi d’interesse alle banche italiane più alti di quanto non facciano le aziende tedesche con le banche del proprio paese». [2]
La verità è che l’accordo salva-banche stipulato a dicembre non assicura il successo di nessuno dei tre obbiettivi. [3]

Proviamo a spiegare meglio perché, con questa Unione bancaria, non si scongiura  il pericolo di un default combinato di banche.

Sorvoliamo sul fatto decisivo, che non vengono rimosse le cause dei fattori strutturali di rischio rappresentati dalle banche europee — non viene messa in discussione la loro natura di banche d’affari dedite alla speculazione nei mercati finanziari globali, quindi né la leva finanziaria né l’utilizzo di derivati, ecc.

(1a) Per evitare anche un default del sistema bancario europeo occorrerebbe un fondo di garanzia comune dell’ordine di centinaia di miliardi mentre quello stabilito è di ridicoli 55 miliardi — si tenga conto che la crisi di questi anni ha richiesto ai governi dell’Unione di mobilitare risorse per oltre 4.500 miliardi. [4]

(1b) Del resto, a causa dell’opposizione tedesca ad un fondo comune:
«Per un periodo di tempo molto lungo, la gran parte dei costi continuerà a ricadere sui fondi di garanzia nazionali, e dato che in ogni paese di grandi banche ce n’è al massimo una manciata, i fondi nazionali [della sole banche fallite, Nda] non basteranno qualora una di esse dovesse finire nei guai. Perché un fondo di garanzia funzioni, devono parteciparvi molte banche … il fondo di garanzia nazionale non riuscirebbe a coprire l’ammanco e il costo del salvataggio ricadrebbe sulle spalle dei contribuenti». [5]
Non è quindi nemmeno vero che con l’Unione bancaria le banche fallite non saranno salvate (come fin qui accaduto) con l’aumento delle tasse sui cittadini.

(2) E non è vero che il “risparmiatore sarà protetto ad oltranza”. Cipro fa scuola. Nell’accordo c’è infatti l’adozione del criterio del bail-in, ovvero che per evitare il fallimento la banca viene autorizzata a sequestrare i fondi dei suoi depositanti. Si afferma ora non sotto la soglia dei centomila euro, ma chi ci assicura che il principio potrà essere derogato andando a rapinare anche risparmi più modesti?           

(3) Né sarà garantita affatto “l’uniformità delle condizioni del credito in un mercato bancario europeo”. Alcuni sistemi bancari, quelli che dagli speculatori saranno considerati più a rischio di default, saranno ovviamente più esposti di altri. Quello italiano, zeppo di titoli di Stato che la stessa Eba (Autorità bancaria europea) equiparò a  “titoli tossici” [6], è quindi più esposto che mai alla tempesta e sarà costretto, tanto più dai futuri stress test a cura della Bce, a forti ricapitalizzazioni e a cure dimagranti che accentueranno il credit crunch.

Di converso:
«Le banche tedesche beneficeranno della maggiore affidabilità della garanzia fornita dallo Stato tedesco, mentre quelle italiane si troveranno in una situazione di svantaggio per via del minor valore della garanzia offerta dal loro governo. Di conseguenza i tassi d’interesse sul credito continueranno a divergere ancora a lungo e un’azienda del Sud Europa, non avrà la possibilità di ottenere credito a condizioni accessibili. Ma senza credito le speranze di crescita potrebbero rivelarsi illusorie». [7]
Va infine sottolineata la farraginosa architettura dell’Unione bancaria, voluta dal governo tedesco, che renderà praticamente impossibile prendere decisioni comuni veloci in casi d’emergenza. [8]

Se la bolla borsistico-finanziaria scoppierà, le banche salteranno e non ci sarà Unione bancaria che tenga. Se si cercava un’altra prova che l’Unione europea è in via di disfacimento, questa ci è fornita proprio dalla vicenda dell’Unione bancaria. La stessa posizione dura della Germania non si spiegherebbe se a Berlino non considerassero la tendenza alla dissoluzione come quella dominante.

Ps
Sono in molti, in Italia, anche in ambienti sovranisti, a considerare il sistema bancario italiano “meno malato” o “più sano” di quelli tedesco o francese. Si crede così alle fandonie dei banchieri e dei politicanti italiani. Le cose non stanno affatto così e faranno meglio a ricredersi, a guardare in faccia la realtà.
«All’inizio del 2007 i titoli degli istituti di credito valevano in borsa 247,9 miliardi, mentre a fine giugno 2013 ne capitalizzano 61; fra il 2006 e il 2012 i ricavi per dipendente degli istituti di credito sono scesi da 226mila euro a 209,3mila euro; il rapporto fra costo del lavoro e ricavi è invece salito dal 32,2 al 35,5%; il Roe (che misura la redditività del capitale) è caduto, passando in negativo, dall’11,8% a -1,1%, e non regge il confronto con l’industria il cui Roe è sceso dall’8,6% ma è rimasto positivo al 4,1%; i crediti netti nel 2012 sono diminuiti dell’1,8% e i prestiti dubbi dal 2005 sono cresciuti del 190%; da fine 2007 l’occupazione si è ridotta di 26mila unità, e altri 19mila tagli sono in programma nei vari paini aziendali; nel solo 2012 sono stati chiusi 700 sportelli». [9]

NOTE

[1] Beda Romano, Il Sole 24 Ore del 17 gennaio 2014
[2] Che cos’è l’Unione bancaria. Il Sole 24 Ore del 18 dicembre 2013
[3] «L’unione bancaria europea rischia di tornare nel limbo delle buone intenzioni. Ne sarebbero soddisfatti molti, convinti che, se lo schema è quello concordato a dicembre, è meglio non averla affatto. Ma ad essere nei guai sarebbe la Bce, costretta ad effettuare delicati e rigorosi stress test sulle banche europee, senza la garanzia di una rete di salvataggio. La contesa è complicata ma cruciale: ancora una volta è uno scontro fra Berlino e le istituzioni comunitarie. A dicembre, la Merkel era riuscita convincere gli altri leader europei a sottoscrivere un accordo che, sostanzialmente, lascia nelle mani (e nelle casse) dei singoli governi nazionali la gestione dei fallimenti bancari e, soprattutto, consente alle diverse capitali di bloccare interventi che potrebbero richiedere il contributo di altri paesi. La costituzione di un fondo comune di salvataggio (55 miliardi di euro, secondo molti assolutamente insufficiente) è rinviata di dieci anni. Il punto è che, trattandosi di un accordo intergovernativo, il Parlamento europeo è sostanzialmente tagliato fuori dalla nascita e dalla gestione del nuovo meccanismo unico di’ntervento nelle banche in crisi».  
Maurizio Ricci. La Repubblica del 25 gennaio 2014
[4] Rony hamauy. La voce.info
[5] Guntram B. Wolf. Il Sole 24 Ore del 23 gennaio 2014
[6] Morya Longo e Fabio Pavesi. Il Sole 24 Ore del 29 ottobre 2011
[7] B. Wolf. Ibidem
[8] «Al di là dei problemi di galateo istituzionale e di rapporti fra governi e organismi comunitari, infatti, è l’impianto della riforma ad apparire farraginoso, in una materia, come quella della chiusura di una banca, che richiederebbe interventi lampo. Il think-tank Bruegel ha chiamato una apposita guida ad un ipotetico intervento di risoluzione di una banca “Non provateci da soli a casa”. A esprimersi sul fallimento, infatti, sarebbero potenzialmente più di 100 persone. Questo il processo. I supervisori della Bce lanciano l’allarme, ma a decidere l’eventuale intervento devono essere: il direttorio dello Ssm, Meccanismo unico di supervisione (24 membri), il direttorio della Bce (24 membri), probabilmente anche il team di mediazione (3 membri) ancora dello Ssm, il suo consiglio esecutivo (10 membri) e, infine, il direttorio al completo, questa volta, dello Srm, il Meccanismo unico di risoluzione. Ma non è finita. Perché, a questo punto, si apre il contradditorio fra il direttorio sempre dello Srm e il Consiglio europeo, cioè i 28 governi della Ue, su proposta della Commissione di Bruxelles (28 membri)».
Maurizio Ricci. La Repubblica del 25 gennaio 2014
[9] Sergio Bocconi. Corriere Economia del 28 ottobre 2013