L’articolo di Andrea Ricci, che proponiamo di seguito, è stato scritto prima che l’Electrolux annunciasse – ieri l’altro – una sorta di “piano B” incentrato sulla richiesta di denaro pubblico sotto forma di “decontribuzione”. Questi sviluppi, tutti da verificare, non cambiano comunque il senso della tesi che Ricci esprime in questo scritto.
Il caso Electrolux, con la richiesta della multinazionale svedese di una drastica riduzione dei salari per evitare il trasferimento della produzione in Polonia, ha di nuovo acceso i riflettori sul cuneo fiscale e sulla bassa produttività del lavoro come cause primarie della perdita di competitività dell’industria italiana[1]. Sono davvero queste le ragioni fondamentali che spingono le imprese alla delocalizzazione produttiva?
Nella tabella[2] seguente sono riportati alcuni dati comparativi tra l’Italia e la Polonia, relativi alle retribuzioni e alla produttività del lavoro:
Le prime due colonne sono quelle che maggiormente interessano alle imprese nella scelta di localizzazione degli impianti. Esse mostrano come il salario lordo espresso in euro di un lavoratore polacco è poco più di un terzo di quello italiano, a fronte di una produttività media annua pari a due terzi. Ciò vuol dire che, investendo in Polonia la stessa somma di euro spesa per impiegare un lavoratore in Italia, un’impresa occuperebbe 2,82 lavoratori polacchi e produrrebbe un valore superiore di ben l’86%.
Le successive tre colonne sono invece quelle che più interessano ai lavoratori. La colonna 3 mostra l’incidenza del prelievo fiscale sulle retribuzioni in euro[3]. Dato il minor peso della tassazione, il livello salariale netto polacco raggiunge il 44,4% di quello italiano. Nelle colonne 4 e 5 i salari sono espressi in termini di parità dei poteri d’acquisto (PPPs) in dollari. Questa unità di misura garantisce un più veritiero confronto perché consente di eliminare le distorsioni derivanti dalle diverse monete, l’euro e lo zloty, e dai differenti livelli dei prezzi esistenti nei due Paesi. In tal modo, il livello retributivo polacco recupera terreno su quello italiano arrivando al 62,4% in termini lordi e al 78% in quelli netti. Quali conclusioni si possono trarre da tale confronto?
La prima conclusione è che il cuneo fiscale, nelle componenti della tassazione sui salari e dei contributi sociali, rappresenta una causa secondaria della minore competitività italiana. Se in Italia, a parità di salario netto, si applicasse lo stesso prelievo fiscale della Polonia, il salario lordo polacco sarebbe pari al 40,8% di quello italiano, pur sempre di molto inferiore al divario di produttività. Le convenienze localizzative delle imprese non muterebbero di molto rispetto alla situazione attuale.
Un’altra tesi ricorrente sostiene che il problema consista in una bassa produttività del lavoro[4]. Questa tesi è però smentita dai valori della produttività espressi in PPPs riportati nella colonna 6 della tabella. In termini di potere d’acquisto la differenza tra i salari lordi italiani e polacchi è sostanzialmente allineata alla differenza di produttività, mentre per i salari netti è ben inferiore. Il rispetto della regola aurea, tanto cara all’economia neoclassica, dell’allineamento dei salari reali alla produttività del lavoro richiederebbe un aumento delle retribuzioni nette italiane di oltre l’11% rispetto a quelle polacche!
Rimane allora una sola possibile spiegazione dello svantaggio competitivo dell’Italia rispetto alla Polonia, cioè la sopravalutazione del tasso di cambio reale, riflessa nei dati espressi in PPPs. Poiché in entrambi i Paesi nel corso dell’ultimo quindicennio i prezzi hanno avuto un andamento analogo e abbastanza stabile[5], il disallineamento del cambio reale deriva in larga misura da una sottovalutazione dello zloty nei confronti dell’euro. Pertanto la convenienza di imprese, come l’Electrolux, alla delocalizzazione produttiva risiede nel fatto che l’Italia ha adottato l’euro, mentre la Polonia, pur facendo parte dell’Unione Europea da un decennio, ha mantenuto la propria moneta nazionale. Persino le differenti tassazioni sul lavoro possono esser fatte risalire a ciò, poiché il minor prelievo tributario polacco è compensato da un maggior deficit pubblico, che nel periodo 1999-2012 è stato pari in media annua al 4,6% del Pil contro il 3,2% di quello italiano. Non dovendo sottostare alle politiche di austerità imposte dall’appartenenza all’euro, la Polonia ha potuto così scegliere una pressione fiscale inferiore al costo di un maggiore indebitamento pubblico[6].
La seconda conclusione è che se i lavoratori italiani accettassero un taglio dei salari nominali dell’ordine del 30-40%, quale quello richiesto dall’Electrolux, avrebbero retribuzioni nette in termini di potere reale d’acquisto ben inferiori a quelle dei loro colleghi polacchi e sprofonderebbero ai limiti o addirittura sotto la soglia di povertà assoluta[7]. È del tutto evidente che una simile strada è impraticabile. Esistono allora soluzioni alternative alla desertificazione industriale dell’Italia?
Una prima soluzione consiste nell’avvio di una seria politica industriale per innalzare il livello tecnologico della struttura produttiva in modo da competere sulle fasce più alte e qualificate della domanda internazionale, poco sensibili alla concorrenza di prezzo[8]. Questa soluzione solleva però due obiezioni fondamentali. La prima riguarda la necessità, almeno nella fase iniziale, di forti investimenti statali in opere pubbliche, infrastrutture materiali e immateriali, incentivi mirati ed anche nella costituzione di nuove e dinamiche imprese pubbliche nei settori innovativi a più alto rischio. Gli attuali vincoli posti dal Fiscal Compact, non consentono tali spese. La seconda obiezione è che anche qualora si reperissero le risorse, magari attraverso un allentamento della politica europea di austerità, questa strategia avrebbe tempi lunghi e non produrrebbe effetti di rilievo sull’occupazione e sulla produzione manifatturiera prima di parecchi anni. Nel frattempo la crisi economica e industriale sta precipitando, le imprese procedono alla chiusura degli stabilimenti e, quindi, si richiedono risposte immediate, a pena d’inevitabili sommovimenti politici e sociali.
Esiste però un’altra soluzione, non alternativa alla prima, ma a essa propedeutica: quella del recupero della sovranità monetaria nazionale attraverso la fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’euro. In tal modo, da un lato si amplierebbero i margini finanziari per politiche di investimento pubblico, oggi represse dai vincoli imposti dalla Troika, e dall’altro lato si ripristinerebbe un valore corretto del tasso di cambio, allineato con l’andamento dei fondamentali macroeconomici, con i Paesi a noi più direttamente concorrenti, come quelli dell’Europa orientale e di altre aree emergenti. Gli effetti di una tale decisione sulla produzione industriale sarebbero immediati e allenterebbero la morsa della crisi sociale in atto, dando quel respiro, oggi mancante, all’avvio di politiche pubbliche di riconversione produttiva e ambientale dell’intero sistema economico italiano.
In conclusione, il caso Electrolux dimostra come la questione della sostenibilità di un’unione monetaria non riguarda soltanto i meccanismi di aggiustamento degli squilibri interni, analizzati dalla teoria delle aree valutarie ottimali[9], ma attiene anche alla problematica conduzione di un unico e comune tasso di cambio verso i Paesi esterni all’area. L’attuale ordine monetario dell’Unione Europea, fondato sull’euro e su una pluralità di altre monete nazionali, è fonte di gravi e perversi squilibri, che alla fine rischiano di innescare processi di disintegrazione economica con il ritorno a politiche protezionistiche e nazionaliste in tutta Europa[10]. Anche per chi sostiene la necessità di ripristinare la sovranità monetaria nazionale, si pone quindi il problema della ridefinizione di un nuovo sistema monetario europeo[11], a meno di ipotizzare il ritorno a condizioni di autarchia come quella sperimentata con gravi danni dall’Italia nel corso degli anni Trenta del secolo scorso.
Note
[1] Così, ad esempio, il senatore e giuslavorista Pietro Ichino ha commentato la vicenda Electrolux: “Un costo del lavoro gravato da un prelievo fiscale e contributivo eccessivo; un livello medio troppo basso di produttività; la chiusura del nostro sistema agli investimenti esteri, che per lo più portano con sé piani industriali innovativi, che a loro volta aumentano la produttività del lavoro”, cfr. Ichino: “Electrolux, emblema di un sistema in crisi. Altro che ricatto”, il Piccolo, 29 gennaio 2014. Sulla stessa lunghezza d’onda è anche Alberto Orioli, Quel cuneo su auto e lavatrici, Il sole 24 ore, 30 gennaio 2014.
[2] I dati ricavati dal database OECD sono calcolati sul valore totale del GDP. I dati sulla produttività si riferiscono alla produttività annua per lavoratore e tengono conto del diverso ammontare di ore lavorate per occupato (1752 in Italia e 1929 in Polonia nel 2012).
[3] Secondo i dati OECD il prelievo fiscale lordo sul lavoro, comprensivo dei contributi sociali e previdenziali, era pari nel 2011 al 47,6% in Italia e al 34,3% in Polonia.
[4] La richiesta di Electrolux è stata preceduta da un documento dell’Unione Industriali Pordenone (redatto da un team composto tra gli altri da Cipolletta, Treu, Castro e Illy) in cui, oltre al taglio dei salari, si propone un aumento della flessibilità della manodopera per incrementare la produttività, cfr. Pordenone, laboratorio per una nuova competitività industriale.
[5] Cfr. Oecd – Consumer prices.
[6] A parità di altre condizioni, se l’Italia avesse potuto avere un deficit medio di bilancio pari a quello polacco, in valori attuali avrebbe avuto a disposizione ben 22 miliardi di euro all’anno negli ultimi 14 anni per ridurre le tasse o aumentare la spesa pubblica. Probabilmente le risorse sarebbero state maggiori perché la crescita del Pil ne avrebbe tratto benefici.
[7] La soglia di povertà assoluta ammonta a 922,41 euro mensili per una persona residente in un medio comune del Nord , cfr. Istat – calcolatore soglia di povertà.
[8] Per un’analisi della debolezza della specializzazione produttiva italiana cfr. Stefano Lucarelli, Daniela Palma e Roberto Romano, Il sostegno agli investimenti in un’economia tecnologicamente in ritardo, in Economia e Politica, 20 novembre 2013.
[9] Sui limiti della teoria delle aree valutarie ottimali cfr. Guido Iodice e Daniela Palma, Una critica alla Teoria delle Aree Valutarie Ottimali come spiegazione della crisi dell’euro, in keynesblog.com.
[10] Emblematica è in questo senso la posizione espressa da Marine Le Pen: contre le chomage, encore et toujours le protectionnisme, in Le Monde, 25 ottobre 2013.
[11] Su questi aspetti cfr. Andrea Ricci, Uscita dall’euro e integrazione europea: un binomio possibile, in sinistrainrete.info, 13 gennaio 2014 e Enrico Grazzini, Gli scenari dell’euro, in Economia e Politica, 11 gennaio 2014.