Sono o no una realtà i 50 miliardi annui di sacrifici per i prossimi vent’anni?
Ci vediamo costretti a tornare sul tema del Fiscal compact. Del resto, repetita iuvant. Il fatto è che c’è chi sta lavorando a far credere che il Fiscal compact non sia un problema, come se gli eurocrati di Bruxelles l’avessero messo lì per scherzo, un modo per intimidire ma senza fare sul serio. Purtroppo non è così, checché ne dicano governanti disonesti e giornalisti superficiali.
La cosa è troppo importante per lasciare spazio alle rassicuranti leggende del mainstream, spesso rilanciate a casaccio nel mare magnum del web, magari anche solo per assoluta ignoranza della materia. E’ troppo importante perché qui sono in gioco il futuro dell’economia nazionale, le prospettive occupazionali, l’accentuazione del massacro sociale in corso.
Per fortuna non siamo i soli ad aver notato la diffusione in rete di alcune interpretazioni rassicuranti sull’applicazione del Fiscal compact. Ecco, ad esempio, come ha reagito su Facebook Marco Passarella, anch’egli evidentemente irritato da certi faciloni:
«Comunque a me i conti sul fiscal compact continuano a non tornare. Se si dice che il debito deve essere ridotto in misura pari ad un ventesimo dell’eccedenza sulla soglia del 60%, allora, nel caso italiano, si tratta (all’ingrosso) di 1/20 di (130 – 60)% e cioè 0.05*0,70 = 0,035, ossia il 3,5% del PIL italiano. E visto che il PIL italiano è di 1.500 miliardi circa, come rata iniziale, ceteris paribus, stiamo sempre sui 50 miliardi (quelli famosi del calcolo sbagliato). E che la prossima rata sia meno salata implica ciò che andrebbe dimostrato, e cioè che il pagamento della prima rata non abbia un effetto recessivo sul PIL italiano che più che compensi la riduzione dello stock di debito. Qualcuno mi dice dove si annida l’errore?».
Passarella ha perfettamente ragione: non c’è nessun errore. Certo, il conto di 50 miliardi all’anno per vent’anni è frutto di un calcolo all’ingrosso. E difatti, alla fine, potrebbero essere anche di più! Ma su cosa giocano, allora, i sostenitori del «no problem»? La risposta è semplice: giocano su due fattori. Il primo sta nel meccanismo previsto per la riduzione annua del debito; il secondo è rappresentato dall’incredibile farraginosità delle norme del trattato.
E’ grazie a ciò se certi faciloni – interessati o meno, poco importa – arrivano alle più strampalate conclusioni. Prendiamo il caso di Stefano Feltri, che con un articolo surreale sul Fatto Quotidiano pretende di dire tutto già nel titolo: «Fiscal compact: la paura (infondata) dei 50 miliardi». Perché poi questa paura sia infondata Feltri non lo spiega, rimandando ogni “chiarimento” ad un pezzo di un ricercatore dell’Istat, Franco Mostacci. Il quale si diffonde (come è giusto che sia per un ricercatore dell’Istat) su una serie di formule matematiche, senza però riuscire a spiegare il punto fondamentale: se il debito deve più che dimezzarsi in vent’anni, come verrà pagato il conto?
Ora, di fronte ad una domanda così semplice ed elementare, salteranno certamente fuori i sapientoni che ci spiegheranno: a) che quel che deve ridursi è un rapporto e non una cifra netta, b) che le regole del trattato non sono poi così rigide come sembra. Grazie, ma eravamo già informati. Piuttosto, ci spiegassero loro come mai – se tutto è così semplice – la riduzione del debito è sempre stata storicamente piuttosto difficile, lenta e frutto di pesanti manovre economiche. Questo è il caso del periodo 1994-2004, durante il quale, nonostante le durissime misure prese (riforma Dini delle pensioni, la pesantissima finanziaria di Prodi, il record mondiale delle privatizzazioni), e nonostante un tasso medio di crescita oggi impensabile intorno al +2%, il debito venne ridotto solo di 18 punti di Pil in 10 anni. Mentre ora si pretenderebbe una riduzione di 74 punti, sia pure in vent’anni, senza troppi sacrifici, con molte meno cose da privatizzare, con tassi di crescita asfittici (mediamente ben poco al di sopra dell’1% anche secondo le ottimistiche previsioni del governo).
E’ evidente che i conti dei faciloni non tornano proprio. Ma siccome costoro non demorderanno facilmente, può essere utile provare ad approfondire la questione. Qualche giorno fa ho già scritto qualcosa (vedi il punto 3 di questo articolo) su come, nel DEF, il governo Renzi si è di fatto impegnato al pieno rispetto del Fiscal compact. Ovviamente lo ha fatto a modo suo, mettendo furbescamente degli “innocenti” numeri al posto di più compromettenti parole. Ma lo ha fatto, tant’è che a Bruxelles hanno apprezzato, naturalmente salvo verifica. Ed in quei numeri ci sono, sia pure espressi in percentuale, i famosi 50 miliardi. Una cifra un po’ ballerina, perché legata a diverse variabili. Secondo le proiezioni del governo, qualora tutto, ma proprio tutto (crescita del Pil, livello dei tassi, eccetera), andasse per il meglio, i miliardi potrebbero scendere a 45. Siccome è evidente che così non sarà, la stima di 50 miliardi è perfino da considerarsi troppo bassa.
Giunti a questo punto è doveroso entrare nel merito delle tesi dei faciloni. Essi appartengono a diverse categorie: a) quella dei mentitori istituzionali (Renzi, Padoan, eccetera), persone che sanno ma che debbono necessariamente mentire; b) quella dei giornalisti di servizio, persone che a volte sanno a volte no, ma che non vanno mai contro il potere; c) quella degli smanettoni internettari, persone che in genere non sanno, ma che amano lo scoop sia che si tratti di preannunciare cataclismi del tutto improbabili, come di negare catastrofi scritte perfino in un trattato internazionale.
Tre sono le questioni che vogliamo qui mettere a fuoco: 1) il meccanismo previsto per la riduzione del debito, 2) i criteri per la verifica di tale percorso da parte dell’UE, 3) l’adesione del governo Renzi (qui davvero repetita iuvant) ai vincoli del trattato.
La riduzione del debito
Su questo punto le cose sono (o dovrebbero essere) arcinote. Il trattato prevede che il rapporto debito/Pil raggiunga il 60% entro vent’anni, dunque attraverso una riduzione annua pari ad un ventesimo della quota eccedente il 60%. Nel caso italiano, in base alla fotografia della situazione al 31/12/2013, tale quota eccedente è pari al 72,6% del Pil, che tradotto in euro significa 1.132 miliardi. Dividendo questa cifra per 20 si ottiene la rata annuale di 56,62 miliardi. Dunque, piaccia o non piaccia, siamo addirittura sopra i famosi 50 miliardi. Ma siccome il rientro non dovrà avvenire in cifra fissa ma in percentuale al Pil, le cose sono un po’ – ma non troppo – più complesse.
E’ evidente infatti che – ammettendo una, peraltro impossibile, tabella di marcia lineare – il valore del taglio annuo previsto non è legato solo al numeratore (lo stock del debito accumulato), ma anche al denominatore (il Pil espresso in valore nominale).
Ora, siccome il Pil nominale è uguale al Pil reale più l’inflazione, se ne deduce che un aumento dell’inflazione renderebbe il percorso di rientro del debito più facile. Perfino l’ineffabile Padoan ha recentemente annunciato (vedi di nuovo l’articolo di cui sopra) questa irresistibile scoperta dell’acqua calda. Una “scoperta” che per certuni dev’essere stata davvero folgorante, visto che vi si aggrappano in tutti i modi per sostenere che in fondo il Fiscal compact non ci farà così male.
Che l’inflazione convenga ai debitori e la deflazione ai creditori è cosa ben nota a chi abbia un mutuo a tasso fisso. Se io debbo pagare le mie rate ad un tasso annuo del 5% ho tutto l’interesse che l’inflazione salga il più possibile oltre tale cifra. Viceversa, avrò tutto da rimettere se l’inflazione (come avviene attualmente) tende maledettamente verso lo zero. In questo caso, in termini reali, finirò per pagare il mio mutuo anche il doppio di quanto l’avrei pagato con un tasso di inflazione pari a quello di restituzione del mutuo.
Non c’è bisogno di dire che quel che danneggia il debitore, favorisce il creditore. Non sarà proprio per questo che la Bce pratica da sempre una politica tendente a ridurre al minimo l’inflazione? Domanda retorica di cui c’è quasi da vergognarsi, tanto sono evidenti gli interessi in questione.
Passando dai debiti privati a quelli pubblici il discorso non cambia, dato che l’interesse delle banche, delle assicurazioni, dei fondi di investimento è appunto quello dei creditori. Dunque: inflazione bassa ed interessi reali alti, al di là della loro diminuzione nominale. C’è perciò da dubitare che la Bce voglia davvero invertire sostanzialmente la rotta, almeno fino a quando il precipizio della deflazione non porterà la recessione a livelli del tutto insopportabili anche per la Germania.
C’è però una differenza fondamentale tra il debito delle famiglie, generalmente a tasso fisso, e quello dello Stato, che – dal momento che si affida al mercato finanziario – varia costantemente ad ogni emissione di nuovi titoli. Certo, un aumento dell’inflazione farebbe lievitare il Pil nominale, ma si trascinerebbe dietro i tassi di interesse, che (al netto dei fattori speculativi), tenderebbero a seguire la crescita dell’inflazione. I cui “vantaggi” verrebbero così annullati, sia pure tendenzialmente e non immediatamente.
C’è solo una circostanza in cui la riduzione del debito potrebbe avvenire quasi esclusivamente per via inflazionistica. Il caso è quello di una violentissima, e soprattutto rapidissima, fiammata inflazionistica. In quel caso – che ovviamente sarebbe però devastante per altri aspetti – i tassi di interesse non ce la farebbero a seguire la crescita dell’inflazione, ed inoltre il vantaggio così ottenuto sul differenziale interessi/inflazione dei titoli già emessi farebbe il resto. E’ plausibile un simile scenario? Di certo non è impossibile, ma l’esperienza storica dimostra che simili fiammate inflazionistiche si determinano o in presenza di conflitti armati (esempio, l’Italia tra il 1943 ed il 1945) od a seguito degli stessi (esempio, la Repubblica di Weimar negli anni ’20).
Al di fuori di simili tremendi scenari l’arma inflazionistica appare piuttosto debole, anche se non del tutto inefficace. Un’arma magari utile, meglio se manovrata a favore delle classi popolari attraverso una riconquistata sovranità monetaria, ma di certo un’arma non risolutiva.
Ad ogni modo non crediamo che Padoan prefiguri scenari bellici o comunque iper-inflattivi. Il suo piccolo inno all’inflazione – per altro assai curioso in chi è parte da sempre di un establishment che vede l’inflazione come il peccato – è da considerarsi più che altro come un segno di impotenza, la speranza di chi conoscendo il baratro che ci attende si appiglia a tutto quel che può servirgli per adempiere ai doveri imposti dai dogmi di Bruxelles, senza intralciare troppo la populistica caccia al voto del berluschino fiorentino, che al momento è pur sempre il suo principale.
Non ci sono dunque facili scorciatoie per quanto riguarda la restituzione del debito. I 50 miliardi annui da recuperare, o con nuovi tagli o con nuove tasse o con un mix di entrambi, potrebbero ridursi un po’ con un minimo di crescita ed un certo incremento dell’inflazione, come, viceversa, potrebbero aumentare un po’ con il persistere della recessione e con lo stabilizzarsi della deflazione, con l’affermarsi cioè di una versione italiana di uno scenario di tipo giapponese.
Nell’incertezza su quel che accadrà nei prossimi anni, attenersi alla stima di 50 miliardi è dunque la cosa più seria e realistica che si possa fare.
I criteri di avvio del percorso del Fiscal compact
Entriamo qui in una materia relativamente più complessa. Materia tuttavia comprensibilissima, purché si badi alla sostanza, senza farsi spaventare dalle astruse regole europee e dalle formule matematiche in cui sono esperti a Bruxelles.
A proposito, ma che credibilità potrà mai avere una costruzione politica che anziché basarsi su una costituzione leggibile da tutti, si fonda invece su trattati illeggibili, comprensibili solo ad una ristretta cerchia di eurocrati? La risposta è semplice: nessuna. E difatti essi lo sanno talmente bene che alle loro astrusità limite non pongono, lasciando credere ai futuri fasti dell’unione politica solo i gonzi del “più Europa”, in Italia ormai ridottisi alle attuali forze di governo (Pd e centristi), alle quali, per completezza, rimane solo da aggiungere la corrente esterna del partito di Renzi denominata Sel.
Ma torniamo a bomba. Prima abbiamo visto in quale misura il Fiscal compact prevede la riduzione ventennale del debito. Ora vediamo come e quando questo percorso dovrebbe avviarsi.
In primo luogo va detto che non c’è un’ora x uguale per tutti. Le regole applicative prevedono infatti una tempistica diversa per gli stati che sono incorsi nella «procedura di deficit eccessivo», quelli cioè che hanno sforato il famoso vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Per questi stati il percorso di rientro del debito inizia con l’uscita da questa procedura, momento dal quale scatta un periodo di transizione di 3 anni. Per l’Italia – uscita dalla procedura lo scorso anno – questo significa una prima verifica a fine 2015, mentre ad esempio Francia e Spagna, che sono ancora abbondantemente sopra il 3%, inizieranno il percorso solo nei prossimi anni.
Per il periodo di transizione (per l’Italia il triennio 2013-2015) non è richiesto un rispetto tassativo della regola della riduzione di 1/20 dello stock del debito. In questo periodo l’UE si “accontenta” di un progressivo avvicinamento a quell’obiettivo. Un processo di transizione, appunto, volto a determinare le condizioni strutturali per poter successivamente onorare la tabella di marcia della decurtazione ventennale. Alla quale l’UE – lo ripetiamo per i faciloni euro-ottimisti – proprio non intende rinunciare.
Ma, terminati i tre anni, cosa andranno a verificare esattamente gli eurocrati chiamati a tale compito? Attenzione! Perché questo è il punto veramente decisivo.
Per spiegare come funzionerà il meccanismo della verifica citiamo un articolo di Giuseppe Maria Pignataro (il Sole 24 Ore del 15 aprile):
«La verifica del rispetto della regola tuttavia avverrà considerando tre diverse configurazioni: a) il backward looking – riduzione rispetto alla media dei tre anni precedenti al 2015; b) il backward looking corretto per il ciclo, e cioè considerando la deviazione dal pil potenziale; c) il forward looking – riduzione nei due anni successivi al 2015 ad un tasso medio di 1/20 calcolato sui tre anni precedenti al 2017. Solo se tutte e tre queste valutazioni risultano non rispettate è prevista l’apertura di una procedura d’infrazione».
In pratica, il 31 dicembre 2015, l’Italia potrà presentarsi agli esaminatori europei o dimostrando che si è già messa in riga (in una delle due versioni ammesse dal backward looking), o provando che lo farà nei due anni successivi (forward looking).
Inutile dire che verrà scelta, giocoforza, la terza opzione. Sulla assoluta impraticabilità delle altre due nessuno osa infatti avanzare dubbi. Ma qui si pongono due domande: 1) quanto è realistico un simile percorso di rientro? 2) E se lo è, al prezzo di quali sacrifici?
Chi scrive pensa che non sia affatto realistico, come vedremo dopo tornando sul DEF elaborato dal governo Renzi. Ma se lo fosse, questo significherebbe comunque il recupero di 3,3 punti percentuali di Pil sull’avanzo primario (come nelle proiezioni del DEF è scritto), che tradotto in cifre significa 54 miliardi.
Ecco che tornano fuori, immancabilmente, i (circa) 50 miliardi. Quei 50 miliardi annui di sacrifici che Renzi vuole occultare, e che qualche buontempone vuol far credere che verrebbero fuori dal nulla. Che poi vi siano anche giornalisti che si prestano ad un simile gioco, magari per dire semplicemente che Grillo è un terrorista quando suona l’allarme sul Fiscal compact, questo non può certo stupire.
Il governo del Fiscal compact
L’abbiamo già scritto: gli uomini del berluschino fiorentino hanno cucinato «un DEF per l’Europa, ma soprattutto per le europee», un voto nel quale Renzi si gioca davvero molto. E tuttavia, se quel documento è stato presentato quasi come un «nuovo corso» della politica economica italiana, esso si muove, al contrario, in perfetta continuità con la linea dei governi precedenti, e con un perfetto allineamento ai diktat europei. Un allineamento che si ricava perfettamente dai numeri indicati nel Documento di economia e finanza.
Non è un caso che il percorso di rientro del debito venga fatto iniziare dal 2015, essendo questo il primo anno del triennio 2015-17 previsto dall’opzione forward looking. In questo triennio si ipotizza una riduzione di 9,8 punti di Pil (pari, grosso modo, a 156 miliardi – ecco di nuovo un taglio annuo di 52 miliardi). Questa riduzione è solo un po’ inferiore a quella attesa dalla tabella di marcia, che prevederebbe un -11,1 punti di Pil, ma tutto andrebbe perfettamente in passo già a partire dal 2018.
Il governo Renzi è dunque il governo del Fiscal compact. Ed i famosi 50 miliardi sono scritti nei suoi numeri. E saranno 50 miliardi e più di sacrifici, a meno che si voglia pensare che verranno recuperati vendendo qualche auto blu o sforbiciando un po’ i vergognosi guadagni dei manager di stato. Si toccheranno invece, ed in profondità – sta qui il vero cuore della spending review – la sanità, il welfare, le retribuzioni ed i livelli occupazionali dei dipendenti pubblici.
Ma c’è di peggio. Ed è che anche questi immani sacrifici potrebbero non servire proprio a niente. Anzi, è piuttosto probabile che finiscano per peggiorare la situazione anche dal punto di vista del debito, che è poi quel che è accaduto con la politica di austerità dei governi Berlusconi, Monti e Letta.
A questo proposito diamo la parola ad un “insospettabile”, Stefano Fassina, che è pur sempre un esponente del maggior partito di governo. Ecco cosa scrive sul suo blog sull’Huffington post:
«La linea seguita nell’euro-zona determina maggior debito pubblico, salito in media nell’euro-zona dal 65% del 2007 al 95% nel 2013. In Italia, nello stesso periodo, dal 104 al 129% (al netto delle risorse impegnate nei Fondi “Salva Stati”). È inevitabile perché la rotta della svalutazione del lavoro deprime la domanda interna fino alla recessione-stagnazione e deflazione (ora incubo della Bce convertitasi al quantitative easing, fino a poche settimane fa considerato uno strumento del demonio dalla Bundesbank)».
La linea dell’austerità è dunque fallimentare, e quella del governo Renzi disegna uno scenario insostenibile ed irrealistico. Leggiamo:
«Lo scenario di finanza pubblica definito nel Def è, al tempo stesso, insostenibile sul piano sociale e irrealistico, in quanto recessivo, sul piano economico. Insostenibile perché gli ulteriori profondi tagli prospettati alla spesa pubblica stravolgerebbero il nostro quadro sociale. Irrealistico perché si continua a ignorare la reale dimensione del moltiplicatore della spesa e delle tasse e si continuano a gonfiare, con sfacciata ideologia, gli effetti delle mitiche riforme strutturali, in particolare la precarizzazione del lavoro e l’ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva (il Presidente del Consiglio continua a ricondurre alle regole del mercato del lavoro il minor il livello di disoccupazione del Regno Unito rispetto al nostro. Qualcuno gli spieghi che Londra dall’inizio della crisi ha stampato enormi quantità di moneta, ha svalutato la Sterlina del 40%, ha avuto un deficit di bilancio dell’8% in media degli ultimi quattro anni)».
Qui Fassina tocca il tema del moltiplicatore della spesa e delle tasse, che così riprende successivamente:
«La colpa grave (del governo, ndr) è l’indisponibilità a riconoscere la dimensione reale del moltiplicatore della spesa, che in una fase di prolungata recessione-stagnazione e credit crunch è 3 o 4 volte maggiore del moltiplicatore delle tasse: in altri termini, coprire la riduzione dell’Irpef con tagli di spesa ha effetti recessivi».
La questione del moltiplicatore è davvero fondamentale, tanto più perché siamo dentro ad una recessione di cui non si vede la fine. Secondo il Fondo Monetario Internazionale il moltiplicatore della spesa nei periodi di crisi è pari a 1,3. Cioè un miliardo di aumento di spesa produce 1,3 miliardi di aumento del Pil. Viceversa, un miliardo di riduzione della spesa determina 1,3 miliardi di riduzione del Pil. Bene, come ha fatto invece i suoi calcoli il governo? Per il 2016, quando è attesa una riduzione di spesa di 32 miliardi (pari al 2% del Pil), ha calcolato un effetto recessivo dello 0,3% anziché del 2,6% come suggeriscono gli studi più recenti (2013) del Fmi.
Quella di Renzi è dunque una linea insostenibile ed irrealistica, oltre che antipopolare. Fassina ha ragione, peccato che continui ad assicurare il suo voto al governo. Peccato, soprattutto, che non metta in discussione l’euro e l’Unione, perché è da qui che vengono le politiche che pure denuncia. Ora, sappiamo che la coerenza non è certo la massima virtù dei politici attuali, ma così facendo è inevitabile che ad una analisi economica giusta non faccia seguito alcuna proposta politica degna di questo nome.
Ma questo è un altro problema. Qui ci interessava mettere in luce come anche in ambienti governativi – Fassina peraltro è stato vice-ministro dell’economia nel governo Letta – sia ben chiara l’insostenibilità dell’attuale quadro europeo.
E, tornando all’oggetto di questo articolo, le considerazioni di Fassina ci dicono appunto due cose: che i 50 miliardi di sacrifici ci sono e che probabilmente non serviranno neppure ad abbattere il debito.
Conclusioni
Naturalmente i faciloni non si daranno per vinti, ma ben presto le sparate di Renzi (alias il bomba) si riveleranno per quel che sono.
Ora, siccome i fatti hanno la testa maledettamente dura, concludiamo tornando sull’articolo di Giuseppe Maria Pignataro (il Sole 24 Ore di ieri), che abbiamo già citato. In questo scritto l’autore si dimena per far quadrare il cerchio. Riconoscendosi nel dogma eurista egli sostiene che il debito va ridotto, che ci vuole una tabella di marcia ben precisa, che questo è per «il nostro bene». Dunque viva il Fiscal compact? No, non esattamente. Egli vorrebbe un Fiscal compact diverso, ma non dice come dovrebbe essere.
E come potrebbe dirlo? Il suo problema è che si vede costretto a svolgere considerazioni simili a quelle di Fassina, ma – proprio come l’esponente della minoranza Pd – senza poterne trarre alcuna conseguenza concreta. Leggiamo:
«E’ peraltro un dato di fatto che in una fase di acuta debolezza economica riconducibile sia a fattori interni che esterni, le correzioni fiscali molto concentrate nel tempo finalizzate a ricercare il pareggio accentuano massicciamente o determinano esse stesse la caduta del Pil e peggiorano in tal modo in misura drammatica il rapporto debito/Pil».
E allora? Allora ecco la conclusione inconcludente, e tuttavia significativa, dell’analista del quotidiano di Confindustria:
«In definitiva chiedere l’abolizione del Fiscal compact non è una scelta vincente (il perché non si sa – ndr), ma continuare a volerlo perseguire nella sua attuale configurazione è una strada improduttiva o molto più probabilmente autolesionistica».
Pignataro è palesemente auto-contraddittorio, ma non è questo il punto. Il punto è che anch’egli deve riconoscere alla fine la natura «autolesionistica» per l’economia italiana del trattato.
Altro che «Fiscal compact? No problem»!