Il 23 aprile Hamas e Al-Fatah hanno siglato un accordo politico di riconciliazione. La risposta sionista non si è fatta attendere: cancellati i cosiddetti “negoziati di pace” con le autorità di Ramallah. Per Benjamin Netanyahu infatti, così come per gli Stati Uniti e per l’Unione europea, Hamas sarebbe nient’altro che un gruppo “terroristico”. (Nella foto il dirigente di Al-Fatah Azzam Al Ahmad ed il premier di Hamas della Striscia di Gaza Ismael Haniyeh)
L’accordo contempla la formazione di un governo ad interim unitario e l’indizione di elezioni presidenziali entro sei mesi. Se l’accordo verrà davvero messo in pratica, si porrebbe finalmente fine alla scissione successiva alle elezioni del 2006 che vennero vinte da Hamas. Dopo mesi di scontri intrapalestinesi violentissimi nel 2007 si ebbero infatti due governi palestinesi ostili, quello di Hamas a Gaza e quello di al-Fatah a Ramallah.
Reggerà questo accordo? O finirà nella polvere come i precedenti, tra cui quello di Doha del febbraio 2012?
Noi ci auguriamo che esso venga rispettato da entrambi le parti. Ne guadagneranno i palestinesi, che infatti hanno festeggiato la sigla per le strade. Hanno esultato anzitutto i palestinesi di Gaza, vittime di un vero e proprio assedio genocida, messo in atto non solo da Israele ma dal regime militare egiziano di al-Sisi, che è appunto riuscito a sigillare Gaza impedendo non solo la libera circolazione delle persone, ma bloccando ogni sorta di aiuto alla martoriata popolazione.
Che l’accordo sia destinato questa volta a tenere è possibile: per entrambi le frazioni si tratta di una scelta obbligata. Da una parte Abu Mazen ha visto fallire, a causa del boicottaggio israeliano, tutti i suoi tentativi di raggiungere una qualche onorevole pace con i sionisti; dall’altra Hamas si è venuta a trovare in un vicolo cieco dopo la rottura con Damasco (solo in parte con l’Iran) e il colpo di Stato militare in Egitto e il rovesciamento del governo amico di Morsi.
Più in generale è la nuova situazione venutasi a creare in Medio oriente dopo le “primavere” ad avere spinto i due principali movimenti palestinesi a superare la scissione. Le grandi mobilitazioni popolari del 2011 e gli sconvolgimenti politici che hanno determinato, lungi dall’aiutare la resistenza palestinese gli hanno tolto la ribalta.
La Resistenza ha pagato a caro prezzo la sanguinosa guerra civile in Siria. Se al-Fatah ha assunto una posizione neutrale sul conflitto siriano, quest’ultimo ha accentuato le divisioni tra le diverse frazioni. Da una parte FPLP, il FPLP-Cg e l’organizzazione Jihad Islamica hanno assunto una posizione di più o meno aperto sostegno al regime di Assad, dall’altra Hamas e alcuni gruppi jihadisti filo-qaedisti palestinesi hanno appoggiato la rivolta. La tragedia siriana ha infine messo in difficoltà gravissime il movimento internazionale di solidarietà con la resistenza palestinese.
Non tutti i dettagli dell’Accordo sono noti. Sembra tuttavia che esso preveda la convergenza su un candidato unico in vista delle prossime elezioni presidenziali. Essi potrebbero essere o Khaled Meshaal o il prestigioso leader di al-Fatah Marwan Barghouti, tutt’ora detenuto nelle careceri israeliane.
Se il regime sionista depreca quest’accordo, noi abbiamo, al contrario, ottime ragioni, se non per esultare, per sperare che esso produca dei buoni frutti.