Sulla rottura strategica con la borghesia liberale
Un ampio sguardo alla situazione turca dopo le recenti elezioni amministrative
Con quasi il 50% dei voti l’AKP può giustamente vantare un impressionante successo elettorale, nonostante la presunta implicazione del primo ministro e del suo entourage in vicende di corruzione. Questa è un’ulteriore prova delle profonde radici anatoliche che l’AKP ha potuto piantare nell’ultimo decennio, grazie anche alle conquiste sociali e democratiche, per non parlare poi del potere ininterrotto della politica identitaria sunnita. Comunque dietro l’accresciuta rigidità culturale e le tendenze autoritarie si nasconde una profonda perdita di egemonia, soprattutto fra le classi medie istruite. I conflitti si acuiranno e la Turchia ha perduto la sua attrazione di modello da seguire.
Le elezioni
La Turchia Nera rimane coraggiosamente con Erdogan, a prescindere dalle accuse di corruzione. Il fattore decisivo per il rinnovato sostegno elettorale è l’ascesa sociale ed economica, giunta in Anatolia anche per le classi medie e più basse; cosa che in effetti non è di poca importanza. Per riconoscere questo basta un confronto con gli scarsi risultati di tutti i paesi vicini. Inoltre c’è lo storico risultato di aver fatto indietreggiare pacificamente l’esercito, consentendo un’apertura democratica che simbolicamente include l’importante diritto di indossare l’hijab in ambienti pubblici.
D’altra parte la corruzione era diffusa anche prima dell’era dell’AKP. I nuovi governanti si limitano a fare le stesse cose dei precedenti, per molti perfino con una maggior legittimità. In realtà capitalismo significa sistemico arricchimento delle elites. La sua forma giuridica è secondaria. Però quanto non arriva alla base della piramide sociale è politicamente rilevante.
La Turchia Bianca, contraria alla svolta autoritaria del primo ministro dell’AKP, in termini di peso elettorale ha una potenza limitata. Da parte sua la clientela islamica non esprime alcuna rilevante critica verso la leadership di Erdogan, poiché segue una cultura patriarcale, che in realtà è simile a quella delle vecchie elites che adoravano Ataturk, “padre di tutti i Turchi”. Le accentuate mobilitazioni culturali sunnite contro laici e alawiti sembrano ancora gradite nelle circoscrizioni elettorali di Erdogan.
La rottura con le classi medie urbane
La Turchia Bianca, costituita da larghi settori delle classi medie istruite, può anche consistere in una modesta minoranza quanto ad influenza elettorale. Il suo ruolo nella società comunque è di gran lunga superiore al suo peso demografico. La vera forza e l’attrazione della guida dell’AKP si era basata sul blocco che comprende questi ambienti contro le vecchie elites kemaliste, soprattutto negli apparati repressivi. Questa alleanza divenne possibile perché Erdogan ha lasciato autonomia culturale alle classi medie urbane occidentalizzate. Nelle città nessuno è stato costretto ad indossare l’hijab o a rinunciare alla sua birra. Sapendo di questa travolgente alleanza dietro ad Erdogan, che includeva anche parti dei feudi elettorali del vecchio regime – cosa che tuttavia non significa automaticamente che questi ultimi hanno sostenuto l’AKP nelle urne – i generali golpisti non hanno più osato lasciare le loro caserme. Alla fine l’AKP diede loro la caccia e li sconfisse. A quel punto il kemalismo era praticamente moribondo.
Ma quei tempi ormai sono finiti. Il movimento di Gezi ha segnato un passaggio socio–politico tettonico, una rottura storica. Le classi medie urbane si sono stancate del crescente autoritarismo e della campagna identitaria sunnita che mette in pericolo la loro identità laica. Tutte queste tendenze sono state significativamente accresciute dalla campagna siriana dell’AKP. Principalmente basato sulle classi medie urbane, il popolo di Gezi si è allontanato dal blocco sociale, forte abbastanza da far cadere l’AKP, come alcuni esponenti della sinistra avevano sperato. Il contagio con il virus kemalista ha escluso l’indispensabile coalizione con i kurdi. Ma dall’altro canto l’AKP si è nuovamente ridotto al suo vecchio ambiente culturale islamico, anche se questo è sicuramente aumentato. La straordinaria forza fondata sul blocco democratico “sovraconfessionale” guidato dall’AKP di Erdogan non può esser ripristinata, né aggiungendo armature né estinguendo a parole il nemico interno. Al contrario, la spaccatura si approfondirà ulteriormente, senza possibilità di riconciliazione. Ci si possono attendere pesanti scontri e conflitti, come accade nel mondo arabo.
Siria
Uno dei catalizzatori della crisi interna della Turchia è l’intervento in Siria. All’inizio della primavera araba il modello turco splendeva brillantemente. La linea interna del blocco di democratizzazione guidato da Erdogan si rifletteva in un approccio “no problemi” nelle relazioni internazionali. Respinta dall’UE, Ankara aveva iniziato a costruire fruttuosi rapporti con Russia, Iran, Iraq e soprattutto con la Siria di Assad. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale la Turchia ha potuto in qualche modo liberarsi dalla morsa americana. Erdogan ha immediatamente abbracciato la primavera araba e ha sperato di venir portato a nuove altezze sull’onda delle mobilitazioni popolari. Venne coniato il concetto di “Neo-ottomanesimo”, anche se esso non riesce ad esprimere cosa specificamente ha reso la politica dell’AKP un successo sia all’interno che all’estero.
Ma la Siria e il blocco di Assad si sono rivelati un compito troppo grande per Erdogan, portando invece alla ribalta le contraddizioni interne e i limiti dell’islamismo moderato. L’AKP aveva sperato in una rapida vittoria come in Egitto e aveva puntato tutto su un’unica carta, che non è riuscita a dare. Quindi è divenuto necessario l’impiego di mezzi militari, che ha condotto alla creazione delle condizioni per la crescita del jihadismo, con la trasformazione del movimento popolare democratico in una guerra civile settaria. Proprio questa trasformazione ha permesso ad Assad di riequilibrare il suo blocco e di ritrovare stabilità dopo un iniziale momento di caduta. Tutto ad un tratto i servizi segreti turchi sono diventati un pilastro di Nusra e compagnia. Non era più il movimento di massa democratico della primavera araba a costruire un’alleanza: è stato invece il jihadismo a divenire compagno d’armi.
Le relazioni speciali con Iran, Russia e mondo arabo sono finite giù nello scarico. Perfino l’Arabia Saudita, che temeva come Assad la primavera araba, si è allontanata. Ryad è avversa ad una versione dell’Islam politico che lavori insieme alla masse popolari. Pertanto i sauditi hanno orchestrato il ritorno delle vecchie elites sul Nilo attraverso un colpo di stato contro la Fratellanza Musulmana, lasciando Ankara ancora più isolata. Tutto ad un tratto l’orgoglioso Erdogan, che aspirava a diventare l’incontrastato leader del mondo islamico contrastando Israele e affrontando anche il grande fratello al di là dell’Atlantico, è finito alla Casa Bianca a mendicare un intervento militare imperialista. Ma Obama resta riluttante, poiché teme di piombare in una ripetizione del disastro iracheno ed afgano.
Politica interna e politica estera sono strettamente collegate. Non si può baciare il jihadismo e contemporaneamente tenere per mano gli strati urbani della sinistra liberale. Sostenere la Guerra Santa contro gli alawiti in Siria solleciterà prima o poi la ribellione alawita in Turchia, che si è manifestata nella forma della protesta di Gezi. (Anche se la storia degli alawiti arabi e di quelli turchi è diversa, nell’attuale mobilitazione identitaria queste differenze non contano.)
Alla fine, cercando di imporre il modello turco con la forza, è prevalso quello arabo di conflitto culturale interno inconciliabile, uccidendo il sogno neo-ottomano.
La rottura con Gülen
L’ascesa dell’AKP fu sostenuta dal movimento di Gülen. Proveniente da una tradizione Sufi, esso è divenuto un tipo di organizzazione elitaria segreta del capitalismo turco, che ha infiltrato l’apparato statale. (In un certo senso, esso può esser paragonato all’Opus Dei, ma a differenza di quest’ultimo esso è situato più al centro dello spettro politico islamico). In termini culturali esso è più liberale dell’AKP, più nazionalista in senso turco e quindi anche più antikurdo, mantenendo amichevoli rapporti con l’apparato kemalista che ha penetrato. Il legame con Washington è stretto. Il movimento di Gülen, ad esempio, era contrario al sostegno dell’AKP alla flottiglia per Gaza. Esso valeva oro per il consolidamento del governo dell’AKP e come scudo contro un colpo di stato militare del movimento Hikmet.
Ma proprio questo putsch contro Erdogan, che Gülen ha aiutato a scongiurare, gli viene ora rimproverato dallo stesso Erdogan. Quest’ultimo continua a parlare di un complotto contro il governo dell’AKP, con un coinvolgimento dell’imperialismo occidentale. Qualunque critica o protesta, ed in particolare le accuse di corruzione, viene interpretata come cospirazione.
Perchè è sorta questa scissione? Sembra futile inseguire le reciproche accuse alla ricerca del colpevole. In ogni caso, si è verificata sullo sfondo di una significativa perdita di egemonia del blocco dell’AKP, mentre ventila aria fresca verso il kemalismo. La rivendicazione esclusiva del potere di Erdogan ha apparentemente spinto i gulenisti dal lato dei loro ex alleati, che essi avevano contribuito a far cadere attraverso la magistratura (“Ergenekon”). In realtà fra loro si combatte una spietata lotta di potere.
Che dire a proposito della campagna di Erdogan, che accusa Stati Uniti, Unione Europea, sionismo e interessi lobbistici di complottare contro di lui?
In generale Washington ha prestato sostegno al governo dell’AKP fin dall’inizio ed ha pure dovuto accettare il più ampio margine della sua politica estera. In cambio Erdogan ha assicurato i suoi alleati della NATO della sua lealtà. In aggiunta il governo islamico ha dimostrato di essere uno straordinario amministratore del capitalismo, beneficiando in particolare della politica monetaria della FED. Senza la conveniente offerta di moneta americana la Turchia non si sarebbe mai potuta permettere un disavanzo corrente di quasi il 10% del PIL, cioè uno dei più alti rapporti di tutti i paesi dell’OCSE. Il capitale globale in cerca di rendimento ha inondato il capitalismo turco, alimentando così la crescita. (I tassi per l’importazione di un simile capitale hanno rotto l’osso del collo all’Europa meridionale dopo la scossa degli interessi del 2008, cosa che può anche verificarsi in Turchia, soprattutto se gli Stati Uniti davvero decidono di assottigliare, come hanno più volte annunciato ma non ancora mai fatto). Tanto, per la cospirazione di lobbyes interessate.
Obama ha scelto di governare il mondo indirettamente, e non nella forma dell’Impero Americano del suo predecessore; cosa che include anche un allentamento della campagna antislamica. Gli Stati Uniti hanno reagito ai movimenti popolari democratici coinvolgendo la Fratellanza Musulmana nella loro architettura di potere, al fine di ristabilire il loro logoro ordine regionale basato essenzialmente su regimi dittatoriali neoliberisti laici. Pertanto essi hanno apertamente manifestato la loro scontentezza per il colpo di stato militare in Egitto, che ha restaurato il governo delle vecchie elites ed è stato orchestrato da Ryadh, il cane da guardia dell’antico regime. Gli americani sono consapevoli che tutto ciò è destinato prima o poi a naufragare nel caos e nella guerra civile, offrendo un terreno fertile al jihadismo. Gli Stati Uniti possono solo esser cauti in una situazione di crescente debolezza del loro ordine mondiale. (Molti complottisti ancora seguono l’idea neocon del “caos creativo”. Ma questo è utile solo da una posizione di onnipotenza, che la guerra contro l’Iraq ha rivelato essere insostenibile.)
Allora perchè Washington dovrebbe mettere il suo destino nelle mani della traballante alleanza fra gulenisti e kemalisti, cioè puntare su un golpe che comporterebbe il pericolo di una lunga guerra civile, cosa che sembra essere avvenuta nel mondo arabo? Perché dovrebbe mettere in pericolo uno stabile ancoraggio nell’instabile mondo islamico? Come fatto compiuto, probabilmente gli Stati Uniti sarebbero costretti ad accettarlo, ma dirigere attivamente un simile processo sarebbe sicuramente contro gli interessi del gruppo dominante di Obama. Senza un deciso sostegno degli USA, come avvenne nel 1980, un golpe appare molto rischioso, molto più che in Egitto.
Erdogan sembra anticipare i generali golpisti corteggiandoli con le riabilitazioni, dopo averli messi dietro le sbarre insieme ad agenti della polizia di Hikmet e a magistrati.
I kurdi
I kurdi guidati dal PKK vengono spinti verso un ruolo da cui potrebbero far pendere la bilancia, tanto più che il loro controllo sul nord della Siria (Rojava) li ha significativamente rafforzati anche verso la Turchia. Essi giustamente ritengono di aver migliori carte sotto Erdogan, piuttosto che con Gülen o con le vecchie elites kemaliste. Erdogan ha questa carta nelle mani, consapevole però che ad essa sono associati notevoli costi politici. Il nazionalismo turco ha conseguito un enorme peso nell’ambiente culturale islamico, anche se la autentica tradizione dell’AKP non è nazionalista. Quindi i tempi non sembrano maturi per una più democratica soluzione della questione kurda. C’è ancora un altro fattore che deriva dal coinvolgimento siriano: fintanto che Ankara andrà verso una soluzione militare essi, lo vogliano o meno, dipenderanno dal jihadismo. Dunque una svolta sulla questione kurda avrebbe al tempo stesso un impatto sul sistema delle alleanze in Siria.
Nel caso che Erdogan incorra in ulteriori difficoltà, potrebbe esser costretto a compiere un salto di qualità verso i kurdi. Il PKK ha almeno manifestato a sufficienza la disponibilità a ricambiare.
L’economia
Fino a quando il miracolo economico turco continuerà l’AKP avrà un sufficiente sostegno popolare. Ma un improvviso shock del cambio e dei tassi di interesse, simile a quello dell’Asia intorno al volgere del millennio (soprattutto Indonesia, Corea del Sud e Tailandia), che provochi una pesante contrazione è possibile o addirittura probabile, a seconda della politica monetaria statunitense. (Questo è vero non solo per la Turchia, ma per tutta una serie di “mercati emergenti”. Ma la Turchia è particolarmente esposta, visto il suo straordinario deficit delle partite correnti). Se questo scenario si realizzasse, la situazione politica sarà capovolta.
Una terza forza?
Il movimento sociale rivoluzionario fu schiacciato attraverso il sanguinoso colpo di stato militare del 1980. Alcuni cercarono di continuare la lotta armata, ma vennero emarginati dal vortice dei cambiamenti sociali del periodo 1989–1991. Il progressivo allentamento del regime, soprattutto sotto l’AKP, combinato con il miracolo economico (successi registrati entrambi dall’Islam politico) li hanno privati della loro base sociale e l’effetto è stato amplificato dalla loro incapacità di cogliere politicamente questi cambiamenti socio–politici. La sinistra radicale continua a parlare di regime fascista, affermazione sempre più lontana dalla realtà. Lo spazio lasciato dalla defunta sinistra è stato in parte colmato dal movimento kurdo.
Come è possibile che la svolta culturalista dell’AKP liberi uno spazio politico per una terza forza, cioè per una campo sociale rivoluzionario? Solo poche voci nella società turca, esterne alla congelata sinistra ortodossa, sarebbero d’accordo. Mentre il movimento nazionale kurdo non può giocare tale ruolo, poiché è costitutivamente ai margini della società turca; esso potrebbe però essere un alleato decisivo. La speranza di un nuovo spazio vitale per un blocco sociale democratico, rivoluzionario ed antimperialista è lì.
Traduzione di Maria Grazia Ardizzone