«L’apartheid economico ha rimpiazzato l’apartheid legale con le stesse conseguenze per le stesse persone, eppure viene visto come uno dei più grandi successi nella storia del mondo»
Sulla mia parete a Londra ho la mia fotografia preferita dal Sudafrica. Sempre emozionante da vedere, è un’immagine scattata da Paul Weinberg di una donna sola in piedi tra due veicoli blindati, i famigerati “ippopotami”, che stanno giungendo a Soweto. Le sue braccia sono sollevate, i pugni serrati, il suo corpo sottile nello stesso momento invita e sfida il nemico.
Era il Primo Maggio 1985: l’ultima grande rivolta contro l’apartheid era cominciata. Dodici anni più tardi, quando il mio trentennale divieto di entrare in Sudafrica fu revocato, ho vissuto un momento di incredulità, agli arrivi dell’aeroporto Jan Smuts, quando constatavo che l’ufficiale dell’immigrazione alla quale porgevo il mio passaporto era una donna nera: “Benvenuti nel nostro paese”, mi disse.
Ho presto scoperto che gran parte dello spirito di resistenza incarnato nella donna coraggiosa a Soweto era sopravvissuto, insieme a un vivace ubuntu che unisce l’umanità africana, la generosità e l’ingegno politico; per esempio, nella dignitosa determinazione di quelli che ho guardato formare un cordone umano intorno alla casa di una vedova alla quale il gestore dell’energia elettrica intendeva staccare la corrente, il rifiuto di accettare umilianti “case RDP”, che venivano chiamate “canili” e nelle pulsanti manifestazioni di massa di movimenti sociali che sono tra i più ingegnosi e dinamici del mondo.
Nel ventesimo anniversario del primo voto democratico del 27 aprile 1994, dovrebbero essere celebrate questa resistenza, questa ricerca di giustizia e di genuino progresso democratico, mentre il loro tradimento e sperpero devono essere individuate e condannate.
Il giorno 11 febbraio 1990, Nelson Mandela uscì sul balcone del Municipio di Cape Town con Cyril Ramaphosa, il rappresentante dei minatori che lo sosteneva. Finalmente libero, Mandela ha parlato a milioni di persone in Sudafrica e in tutto il mondo. Fu un momento, una storica frazione di secondo, rara e potente quanto gli altri grandi momenti nella lotta universale per la libertà. Sembrava che il potere morale e la giustizia potessero trionfare su qualsiasi cosa, su qualsiasi dogma. “Ora è il momento di intensificare la lotta” disse Mandela in un discorso orgoglioso e arrabbiato, forse il migliore o l’ultimo dei suoi migliori.
Il giorno dopo apparve in pubblico per correggersi. Il dominio della maggioranza non avrebbe reso i neri “dominanti”. Rapida ritirata: non sarebbero state nazionalizzate le miniere, le banche e le rapaci industrie monopolizzate; era svanita la democrazia economica, che aveva solennemente sancito con le parole: “un cambiamento o modifica delle nostre posizioni a questo riguardo è inconcepibile”. Rassicurando l’establishment bianco del paese e i suoi alleati in affari in tutto il mondo, la stessa ortodossia e clientelismo che aveva costruito, mantenuto e rafforzato l’apartheid fascista, divenne l’agenda politica del “nuovo” Sudafrica.
Accordi segreti hanno facilitato questo processo. Nel 1985, l’apartheid aveva subito due catastrofi: il crash del mercato azionario di Johannesburg e il default del regime sul crescente debito estero. Nel settembre dello stesso anno, un gruppo capeggiato da Gavin Relly, Presidente d’amministrazione della Anglo-American Corporation, incontrava Oliver Tambo, Presidente dell’ANC e altri dirigenti funzionari del movimento di liberazione a Mfuwe, in Zambia.
Il messaggio di Relly era che una “transizione” dall’apartheid alla democrazia elettorale con i neri al governo, sarebbe stata possibile solo se “l’ordine” e “la stabilità” fossero state garantite. Queste parole erano il codice liberale per indicare uno stato capitalista in cui la democrazia sociale ed economica non sarebbero mai state una priorità. L’obiettivo era di dividere l’ANC tra i “moderati” con i quali si potevano “fare affari” (Tambo, Mandela e Thabo Mbeki), e la maggioranza che componeva il Fronte Democratico Unito (United Democratic Front – UDF) e che stavano combattendo per le strade del paese.
Il tradimento dell’UDF e delle sue componenti più capaci, quali l’Organizzazione Nazionale Civica, oggi è una struggente storia segreta.
Nel 1987 e nel 1990, i dirigenti dell’ANC guidati da Mbeki hanno incontrato una ventina di membri di spicco dell’elite afrikaner in una dimora signorile nei pressi di Bath, in Inghilterra. Intorno al camino a Mells Park House, sorseggiarono vino d’annata e whisky di malto. Scherzarono sul fatto che stavano mangiando uva sudafricana “illegale”, nel senso che all’epoca i prodotti sudafricani erano oggetto di un boicottaggio mondiale. “Era un mondo civilizzato”, ha ricordato Mof Terreblanche, un agente di cambio e amico di F.W. De Klerk. “Quando bevi un drink con una persona… e poi un secondo, nasce la comprensione. Davvero, siamo diventati amici”.
Erano così segreti questi conviviali incontri, che nessuno, tranne pochi eletti nell’ANC, sapevano della loro esistenza. Ne erano i fautori principali quelli che avevano approfittato dell’apartheid, come il gigante minerario britannico Consolidated Goldfields, che pagò il conto del soggiorno a Mells Park House. La questione più importante sollevata intorno al camino era chi avrebbe controllato il sistema economico dietro la facciata di “democrazia”.
Allo stesso tempo, Mandela stava conducendo le sue trattative segrete dentro il carcere di Pollsmoor. Il suo contatto principale era Neil Barnard, un sostenitore convinto dell’apartheid che dirigeva il Servizio Nazionale di Intelligence. Furono scambiate confidenze, cercate rassicurazioni. Mandela telefonò a P.W. Botha il giorno del suo compleanno; il Groot Krokodil (Grande Crocodrillo) lo invitò a prendere il tè e, come osservò Mandela, versò persino il tè al suo prigioniero.”Sono uscito da quell’incontro con la sensazione” disse Mandela, “di avere incontrato un capo di stato creativo e cordiale che mi aveva trattato con tutto il rispetto e la dignità che potevo aspettarmi”.
Questo era l’uomo che, come Verwoerd e Vorster prima di lui, aveva spedito una intera nazione africana in un malvagio campo di concentramento occulto al resto del mondo. La giustizia e un risarcimento per questa epopea criminale di segregazione razziale sono state negate alla stragrande maggioranza delle vittime. Quasi tutti i verkramptes (fanatici), come il “creativo e cordiale” Botha, non sono mai stati processati per i loro crimini.
Quale ironia: fu Botha nel 1980, ben prima dell’ANC un decennio più tardi, a smantellare l’impalcatura dell’apartheid e, soprattutto, a promuovere una classe di neri benestanti che avrebbe giocato il ruolo di cui Frantz Fanon aveva avvertito: “una cinghia di trasmissione tra la nazione e un capitalismo rampante anche se camuffato”.
Nel 1980, riviste come Ebony, Tribute and Enterprise celebrarono le “aspirazioni” di una borghesia nera che viveva in case con garage per due macchine a Soweto, meta dei tour per stranieri organizzati dal regime. “Questa è la nostra classe media nera” commentavano le guide; ma in nessun senso era “media”: era invece una classe cuscinetto in fase di preparazione, come scriveva Fanon, per “la sua missione storica”. Oggi nulla è cambiato.
Il regime di Botha ha persino offerto a imprenditori neri generosi prestiti dalla Industrial Development Corporation. Questo ha permesso loro di creare imprese al di fuori dei “bantustan”. In questo modo, una società come la New African Investments, i cui propretari sono neri, ad esempio è riuscita ad acquistare una quota della Metropolitan Life. Nel giro di un decennio, Cyril Ramaphosa divenne vice presidente di quello che era effettivamente una creazione di apartheid. Egli è oggi uno degli uomini più ricchi del mondo.
La transizione è stata, in un certo senso, quasi impercettibile. “Le si può assegnare qualsiasi etichetta”, disse il Presidente Mandela a Groote Schur. “Si può definirla thatcheriana, ma per questo paese, la privatizzazione è la politica fondamentale”.
“Questo è l’opposto di quello che diceva prima delle elezioni del 1994,” osservai.
“C’è un processo in corso” fu la sua risposta incerta, “e ogni processo implica il cambiamento”.
Mandela semplicemente stava ripetendo il mantra dell’ANC, che sembrava assumere le ossessioni di un supercult. C’erano tutti quei pellegrinaggi dell’ANC alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale a Washington, tutte quelle “presentazioni” a Davos, tutti quegli sforzi per ingraziarsi il G-8, tutti quei consiglieri stranieri e consulenti che venivano e andavano, tutti quei rapporti pseudo-accademici con il loro gergo “neo-liberale” e i loro acronimi. Per prendere in prestito un’espressione usata dallo scrittore comico Larry David: “un ruscello gorgogliante di cazzate” ha inghiottito i primi governi dell’ANC, in particolare i suoi ministeri delle finanze.
Mettendo da parte per un attimo il ben documentato arricchimento personale dei notabili dell’ANC e le truffe negli acquisti di armi, l’analista dell’Africa Peter Robbins aveva una visione interessante su questo punto: “Penso che la leadership dell’ANC [provava] vergogna perché la maggioranza della loro gente vive nel terzo mondo. L’apartheid economico ha rimpiazzato l’apartheid legale con le stesse conseguenze per le stesse persone, eppure viene visto come uno dei più grandi successi nella storia del mondo”.
La Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission – TRC) creata da Desmond Tutu ha sfiorato questa realtà, anche se per un solo istante, quando le società commerciali sono state chiamate al confessionale. Queste udienze “istituzionali” sono state tra le più importanti, ma sono state pressoché snobbate. Rappresentando l’industria più vorace, spietata, redditizia e letale del mondo, la Camera delle Miniere del Sudafrica ha riassunto un secolo di sfruttamento in sei pagine e mezzo di derisori. Non si è vista una parola di scusa per aver trasformato vaste zone del Sudafrica nell’equivalente di Chernobyl. Non c’era una promessa di compensazione per gli innumerevoli uomini e le loro famiglie colpite da malattie del lavoro come la silicosi e il mesotelioma. Molti non potevano permettersi una bombola di ossigeno; molte famiglie non avevano i soldi per un funerale.
In un accento da epoca coloniale, Julian Ogilvie-Thompson, ex Presidente di Anglo-American, ha detto al TRC: “Sicuramente, nessuno vuole penalizzare il successo”. Ad ascoltare le sue parole c’erano ex minatori che riuscivano a malapena a respirare.
Governi di liberazione possono enumerare risultati reali e duraturi dal 1994. Ma la libertà più elementare, sopravvivere e sopravvivere dignitosamente, è stata negata alla maggioranza dei sudafricani, che sono consapevoli del fatto che se l’ANC avesse investito in loro e nella loro “economia informale”, avrebbe potuto trasformare la vita di milioni di persone. Avrebbero potuto essere acquistati e recuperati terreni per l’agricoltura su piccola scala dai diseredati, amministrata nello spirito cooperativo dell’agricoltura africana. Avrebbero potuto essere costruite milioni di case, si sarebbe migliorato il servizio sanitario e l’istruzione. Un sistema di microcredito avrebbe aperto la strada a beni e servizi a prezzi accessibili per la maggioranza. Niente di tutto questo avrebbe richiesto l’importazione di attrezzature o di materie prime e l’investimento avrebbe creato milioni di posti di lavoro. Diventando più prospere, le comunità avrebbero sviluppato le proprie industrie e un’economia nazionale indipendente.
Un sogno irrealizzabile? La disuguaglianza violenta che ora dilaga in Sudafrica non è un sogno. Fu Mandela, dopo tutto, a dire: “Se l’ANC non mantiene le promesse, i sudafricani dovranno fare quello che hanno fatto al regime dell’apartheid”.
Questo articolo è apparso sul Sunday Times, Johannesburg
fonte johnpilger.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare