Le elezioni europee saranno l’occasione di fare il punto della situazione sull’impressione dei popoli riguardo alla costruzione dell’Unione Europea. Sappiamo che l’opinione in merito è andata fortemente degradandosi dal 2009, come mostrano parecchi sondaggi. Il problema è particolarmente acuto in Francia, dove, per la prima volta, il numero di opinioni sfavorevoli all’Unione Europea è maggioritario.

Bisogna innanzi tutto ricordare che l’Unione Europea non è l’Europa, checché se ne dica. L’Europa è una realtà geografica, una realtà politica – anche e compreso nei conflitti – e, ben inteso, è una realtà culturale. Tale realtà esisteva ben prima che nascessero i primi progetti di unione o di federazione.

L’Unione Europea non è l’Europa

L’Europa è esistita, culturalmente e in un certo modo politicamente, ben prima della Comunità Economica Europea [quello che si chiamava « Mercato Comune » e che era il predecessore dell’UE] e, ben inteso, prima dell’UE. L’Unione Europea ha istituzionalizzato dei meccanismi di cooperazione, ma ha anche irrigidito le relazioni tra i Paesi europei che ne facevano parte e ha ampiamente destabilizzato quelli che si trovavano alla sua periferia.

L’UE e la CEE prima di essa non sono state «forze di pace» a misura del continente europeo. Pretendere che sia così vuol dire dimenticare il ruolo fondamentale della dissuasione nucleare garantita dagli Stati Uniti [la coppia URSS- Stati Uniti poi la Gran Bretagna e la Francia]. La dissuasione  nucleare, rendendo impossibile un grande guerra in Europa, e ciò particolarmente quando la dissuasione francese è diventata effettiva [metà degli anni ‘60], ha ricoperto un ruolo ben più decisivo della CEE e dell’UE nel mantenimento della pace. E’ a questo punto che la riflessione militare in Unione Sovietica comincia a sostenere che qualunque grande guerra  sfocerà in una guerra nucleare e che non si può vincere una guerra nucleare [1].

Da questo punto di vista, il contributo della CEE e dell’UE al mantenimento della pace in Europa è più che discutibile. L’UE è stata una causa di conflitto, precipitando ieri la disintegrazione dell’ex Yugoslavia e la guerra civile che ne è susseguita. Bisogna ricordare che la causa essenziale di questa disintegrazione fu l’attrazione dell’UE sulla Slovenia e la Croazia. L’istituzione di un piano di stabilizzazione, i cui effetti venivano percepiti in modo diverso  tra le Repubbliche della Yugoslavia, ha attizzato l’opposizione tra la Croazia e la Serbia. Eppure, è proprio la prospettiva di un’adesione rapida all’UE che ha convinto i dirigenti sloveni e croati a fare la secessione. Lo stesso fenomeno è oggi in opera in Ucraina.

Infine, la politica economica condotta dall’UE dal 2009 [e in realtà addirittura dal 2000 nella zona Euro] è la causa della debole crescita europea e dell’aumento astronomico della disoccupazione in Grecia [più del 28%], in Spagna, in Portogallo, ma anche in Italia e in Francia. Lungi dal proteggere le popolazioni, l’UE si è aperta troppo e ha favorito il contagio della crisi finanziaria del 2007-2008 [2]. Si può capire, in queste condizioni, il risentimento provato da parecchi elettori, che si tratti dell’UE o più precisamente dell’Eurozona, la quale è direttamente implicata nella stagnazione economica e nella crisi risentita in certi Paesi.

E’ questa una delle ragioni dello scontento anti-europeo che cresce oggi in diversi Paesi. E’ per questo motivo che le elezioni europee del maggio 2014 verteranno tra  le altre cose sulla questione dell’Euro. Tale questione, in realtà, è stata posta sin dall’inizio degli anni 2000 [3], ma è vero che è diventato un problema di centrale importanza solo dopo la crisi della Grecia, fine 2009 [4].

I vantaggi della dissoluzione dell’Euro

L’uscita dall’Euro, sia che risulti da una dissoluzione coordinata dell’Eurozona o che sia un’uscita «brusca», comporterebbe numerosi vantaggi per i Paesi dell’Europa del Sud, in particolare per la Francia. Abbiamo tentato di misurarne gli effetti in un’opera pubblicata nel settembre 2013 [5].

Innanzi tutto, attraverso un deprezzamento del Franco ritrovato che potrebbe essere del 20-30% [e tutto porta a pensare che in realtà saremo intorno al 20%] si ricostituirebbe immediatamente la competitività delle aziende francesi, sia nell’export che sul mercato interno francese. E’ lo «shock di competitività» di cui ha bisogno l’economia francese e in particolare l’industria. Rispetto a ciò, il famoso «patto di responsabilità» del governo non è altro che un’inezia.

Notiamo qui che una svalutazione dell’Euro, così come viene difesa dal Ministro dell’Economia Arnault Montebourg, avrebbe effetti molto più ridotti. Avrebbe un ruolo solo rispetto ai Paesi della zona Dollaro. E’ sicuramente importante ed il Ministero della Finanza ha calcolato che un deprezzamento del 10%  porterebbe ad una crescita del PIL  dell’1,2-1,8%. Del resto, ciò conferma le ipotesi di calcolo che sono state utilizzate nel lavoro pubblicato in settembre [6]. Notiamo anche che questi calcoli danno torto a tutti coloro, e sono numerosi, che affermano che oggi la competitività non è più misurata dal costo del prodotto.

La Francia, però, realizza solo il 50 % del proprio commercio internazionale con la zona Dollaro. Il resto viene fatto con la zona Euro e riguarda essenzialmente gli scambi con la Germania, ma anche con l’Italia e la Spagna. E’ ben per questa ragione che l’uscita dall’Euro sarebbe ben più vantaggiosa di un semplice deprezzamento dell’Euro. I calcoli che sono stati realizzati con P.MURER e C.DURAND mostrano che in una tale ipotesi, e ammettendo che il deprezzamento della moneta italiana e della moneta spagnola sia maggiore di quello del Franco, altrimenti detto, adottando l’ipotesi di svalutazioni competitive degli altri diversi Paesi dell’Europa del Sud, ci sarebbe una sferzata impressionante nell’economia francese, che porterebbe ad una crescita – lasciando tutto il resto invariato – del 15-22%  su una durata di 4 anni.

Bisogna segnalare che non solo l’industria beneficerebbe di questo deprezzamento, ma che i suoi effetti benefici si risentirebbero anche nei servizi, o nei servizi associati all’industria, o in rami molto sensibili a movimenti di tassi di cambio, come il turismo, il ramo alberghiero e quello dei ristoranti.

Un secondo vantaggio indotto sarebbe una forte riduzione del peso del debito, sotto l’effetto degli introiti fiscali generati da tale crescita. Diventerebbe possibile alleggerire il fardello della fiscalità che pesa sulle famiglie e sulle aziende. Secondo le ipotesi, nei quattro anni successivi alla decisione di uscire dall’Euro, vedremmo il peso del debito pubblico passare dal 93% del PIL all’80% – 66% ; che è molto più di quel che potremo mai realizzare restando nell’Euro.

Un terzo vantaggio, e dal mio punto di vista il più importante, sarebbe quello di far retrocedere in modo massiccio la disoccupazione e di creare una grande quantità di posti di lavoro nell’industria. Anche qui abbiamo stimato – sulla base delle persone alla ricerca di un lavoro di categoria A – che ci sarebbe una creazione netta di posti di lavoro da 1,5 a 2,2 milioni in tre anni. Riferito alle altre categorie utilizzate dalla DARES, il profitto dovrebbe essere ancora più elevato, poiché la crescita permetterebbe di rendere stabili numerosi impieghi precari.
Se si considera il totale delle categorie A, B e D, il profitto potrebbe salire da 2.5 milioni a 3 milioni di impieghi. Notiamo che un tale ritorno massiccio ad una situazione di pieno impiego migliorerebbe immediatamente il finanziamento delle casse di assicurazione-disoccupazione, ma anche quelle dell’assicurazione-anzianità.

I potenziali inconvenienti di un’uscita dall’Euro

Un’uscita dall’Euro ed un forte deprezzamento della moneta [il Franco] comporterebbero anche degli inconvenienti, che non bisogna però ingigantire. Innanzi tutto, ci sarebbe un aumento dei prodotti importati quando essi provengono da Paesi rispetto ai quali il Franco sarebbe deprezzato [Germania, Paesi della zona Dollaro]. E’ del resto lo scopo di qualunque svalutazione della moneta. Ma questo inconveniente è fortemente sopravvalutato da politici senza scrupoli che non fanno altro che spaventare la popolazione per difendere l’Euro. Così, nel caso dei carburanti, tenuto conto dell’immenso peso delle tasse, una svalutazione del 20% del tasso di cambio del Franco rispetto al tasso attuale dell’Euro di fronte al Dollaro, provocherebbe un aumento del solo 6% del prezzo al distributore. Ciò è molto ragionevole.

C’è in seguito la dimensione finanziaria delle conseguenze di una tale svalutazione. Guardiamo innanzi tutto la situazione del debito pubblico. Sappiamo che le Obbligazioni emesse dal Tesoro Pubblico, quando vengono emesse dal territorio francese, devono essere rimborsate nella moneta che ha corso legale in Francia. Questo è l’unico obbligo legale a cui sono sottoposte. Se questa moneta non è più l’Euro, ma il Franco,  esse saranno rimborsate in Franchi. E se il Franco si è deprezzato di fronte all’Euro, i detentori stranieri di obbligazioni francesi subiranno perdite, così come un detentore francese di buoni del Tesoro americani subisce perdite quando il Dollaro si svaluta fortemente rispetto all’Euro.

Ciononostante, è chiaro che questo provocherà successivamente un rialzo dei tassi di interesse [in gergo francese è il cosiddetto «premio di rischio»] per qualunque nuova emissione. Si può però perfettamente aggirare il problema. Bisognerà reintrodurre il meccanismo esistente fino all’inizio degli anni ’80 che costringeva le banche francesi [o qualunque banca desiderasse lavorare in Francia) ad avere nel loro bilancio un certo ammontare di obbligazioni del Tesoro (meccanismo della piattaforma obbligatoria degli effetti pubblici].

Per i debiti, ma anche per i risparmi dei singoli e delle aziende, poiché questo risparmio e questi debiti sono essenzialmente detenuti in banche francesi, non ci saranno cambiamenti. E’ una cosa criminale, come fanno certi politici sia dell’UMP che del PS, affermare – cercando ancora una volta di spaventare la popolazione – che una svalutazione del 20% del Franco si tradurrebbe in una perdita del 20% del risparmio.

In realtà, e tutti gli economisti lo sanno, ci sono perdite di valore solo nella misura in cui si comprano, con i propri risparmi, beni provenienti da Paesi rispetto alla cui moneta il Franco si è deprezzato. Per gli acquisti realizzati in Francia, o di prodotti [e di servizi] francesi, non vi sarebbe alcun cambiamento. In più, certi Paesi che hanno una moneta che si svaluta più del Franco [l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia] il risparmio francese vedrebbe il proprio potere di acquisto rivalutarsi per delle operazioni in questi Paesi. L’unico vero inconveniente è una crescita dell’inflazione che si farà sentire nei 24 mesi successivi all’uscita dall’Euro e la svalutazione del Franco.

L’inflazione indotta dal deprezzamento del Franco dovrebbe essere del 5% il primo anno e del 3% il secondo anno. Per far fronte ad essa, bisognerà molto probabilmente rimettere in funzione dei meccanismi di ancoraggio al costo della vita degli stipendi e delle pensioni. Qualunque aumento dell’inflazione, però, avrà anche come effetto quello di far abbassare meccanicamente  i tassi di interessi reali [con la differenza tra il tasso nominale e il tasso di inflazione]. Ciò potrebbe avere un effetto molto positivo sugli investimenti delle famiglie e delle aziende. In più, l’inflazione cancella meccanicamente una parte del debito accumulato. Inoltre, anche la prospettiva di conoscere un nuovo periodo di relativa inflazione non deve essere vista solo come un inconveniente, ma come qualcosa che potrebbe essere utile all’economia.

Bisogna infine aggiungere, beninteso, che in Francia sono necessarie delle riforme. Però, tutti i Paesi che hanno fatto delle riforme profonde l’hanno fatto DOPO una forte svalutazione della moneta. Uscire dall’Euro e lasciare che il Franco si svaluti può essere un primo passo decisivo sulla via delle riforme.


Il rischio politico dell’uscita dall’Euro

Il rischio politico non è da sottovalutare, ma è meglio dire che il rischio di un separazione è più facile da prendere in considerazione in quanto è anticipato. E’ il paradosso centrale di una dissoluzione dell’Eurozona. A livello dei governi, nessuno vuole prenderlo in considerazione apertamente. Eppure, questo atteggiamento è profondamente autodistruttivo. In effetti, se questa dissoluzione potesse essere attuata in maniera coordinata, lo shock sarebbe irrisorio. Ma il rifiuto da parte dei governi di prendere in considerazione questa soluzione lascia come unica soluzione l’uscita dall’Euro di uno dei due Paesi [l’Italia e la Francia], che comporterà una disintegrazione generale dell’Euro che potrebbe durare tra 6 mesi e un anno.

In queste condizioni, è chiaro che i Paesi che soffriranno di più saranno quelli che usciranno dall’Euro per ultimi. In una situazione di questo genere,  c’è in effetti un premio per il «primo uscito», che beneficia pienamente dell’effetto di svalutazione della propria moneta. E’ del resto per questa ragione che appena un Paese importante avrà lasciato l’Euro, il movimento di uscita diventerà rapidamente irreversibile.

Se si tratta della Francia, l’Italia si vedrà costretta ad imitarci dopo qualche settimana. L’uscita dalla 2° e della 3° economia dell’ Eurozona porterà a quella della Spagna [4° economia] e poi, a catena, il Portogallo, la Grecia, ma anche il Belgio e i Paesi Bassi. Se l’Italia esce per prima, la pressione sull’economia francese diventerà tale che dovremo anche noi uscire dopo 3 mesi. Qualunque sia l’origine, le uscite si susseguiranno e diventeranno una realtà in meno di dodici mesi.

La dissoluzione dell’Eurozona, o l’uscita di certi Paesi, è stata studiata in parecchi Paesi: Germania, Francia, Italia, Spagna e Paesi Bassi. Negli studi ufficiali, che siano quelli realizzati dalle Banche Centrali o dai Ministeri delle Finanze, che ho potuto conoscere, il bilancio di questa uscita è globalmente positivo. E’ addirittura molto positivo per la Francia e l’Italia ed è ciò che preoccupa i sostenitori accaniti dell’Euro.

Tutti questo studi evidenziano il carattere positivo di una svalutazione del tasso di cambio. L’ostacolo si situa quindi a livello politico. Sono stati realizzati anche studi «privati» ed il mio centro di ricerche vi ha contribuito [7]. Alcuni di questi studi sono stati fatti allo scopo di discreditare l’uscita dall’Euro ed hanno ottenuto risultati aberranti. Per esempio, l’Istituto Montaigne prevede un  grande crollo del PIL senza dare indicazioni del perché e del percome del calcolo. Questo fa nascere dubbi su alcuni di questi studi. Possiamo pensare che i ricercatori prevedano il crollo del commercio all’interno dell’Eurozona. Il ritorno alle monete nazionali – che del resto viene largamente anticipato in molte banche e aziende – non comprometterà per nulla questo commercio, così come il passaggio alla moneta unica non ha prodotto il sovrappiù di commercio e di crescita che alcuni avevano predetto.

Per ciò che riguarda la frazione del debito pubblico dei «non-residenti», tutte le persone interrogate, che facciano parte di amministrazioni o di banche private, riconoscono che verrà applicato il principio della «Lex Monetae», ossia il fatto che il debito di un Paese, se è emesso in questo Paese, deve essere rimborsato nella moneta del Paese, che la moneta si chiami Euro o con un altro nome [Franco, Lira italiana, Peseta spagnola…].Non ci sarà posto per processi in diritto internazionale.

Resta allora un argomento spesso evocato: quale sarebbe il peso di un Paese come la Francia nella «mondializzazione» se uscissimo dall’Euro. Questa mondializzazione però non impedisce alla Corea del Sud [44 milioni di abitanti] o anche a Taiwan di funzionare bene. In Europa, la Svezia e la Gran Bretagna non stanno poi così male per il fatto di non appartenere all’Eurozona. In effetti, coloro che tengono questi discorsi, sono eredi indiretti del regime di Vichy, in quanto non hanno fiducia nel nostro Paese, nei suoi valori e nelle sue capacità.

Bisogna avere fiducia nei punti di forza della Francia, che sono tanti. Diventa sempre più importante preservare il nostro modello sociale, che fa ormai parte della nostra cultura politica, come è detto nel preambolo della Costituzione, che tendiamo troppo a dimenticare. Da questo punto di vista, la pratica del Consiglio Costituzionale di adattamento a regole straniere è stata odiosa.

Dire questo non significa assolutamente rifiutare di cooperare con Paesi europei che non fanno parte dell’UE, come la Russia che è al tempo stesso in Europa e in Asia. Dire questo non significa assolutamente rifiutare di cooperare con i Paesi africani. Oggi l’Unione Europea ostacola una visione più larga delle nostre cooperazioni. Dov’è l’UE quando la Francia si ingaggia nel Mali? La Russia, invece, è con noi e sono aerei russi che provvedono ad una buona parte della logistica delle nostre operazioni estere. Bisogna trarne le conclusioni, per quanto esse possano essere sgradevoli per qualcuno.

La posizione dello Stato-Nazione è peraltro, e bisogna ricordarlo continuante senza cedere, l’unica a garantire la democrazia, poiché non ci potrebbe essere democrazia senza  sovranità, né legittimità. Anche qui, che si tratti di ragioni congiunturali, e sono ragioni importanti, o di questioni di principio, è chiaro che la Francia deve sforzarsi a ritrovare la propria sovranità.

Solidarietà tra i Paesi europei

E’ un vero problema, ma è posto male. Innanzi tutto, riconosciamo che con un budget dell’UE uguale all’1,26% del PIL e gran parte del quale viene divorato dalla burocrazia di Bruxelles, questa solidarietà non può essere finanziaria. L’abbiamo visto con il caso della Grecia e della Spagna. Non sono stati forniti aiuti alle popolazioni, ma ai creditori delle banche e dello Stato, prima di tutti alle banche francesi e tedesche. Bisogna dire e ridire che abbiamo fatto pagare alle popolazioni di questi due Paesi il sostegno alle nostre banche. Né più né meno.

E poi indubbiamente domandiamo troppa solidarietà a dei popoli che si conoscono poco e male. La soluzione del federalismo integrale deve essere rifiutata in ragione del carico finanziario che un tale federalismo farebbe portare ad alcuni Paesi, come la Germania in particolare. Non è realista pensare che i Tedeschi potrebbero contribuire con l’8%  – 12% del loro PIL per diversi anni ai budget dei Pesi dell’Europa del sud. Questa solidarietà deve quindi essere spostata sul terreno politico e deve potersi realizzare in progetti, sia industriali che scientifici, in contesti bi o multilaterali. Ricordiamoci che questa fu l’origine di Airbus e di Ariane.

L’Euro è condannato

Oggi possiamo dire che la moneta unica è condannata, sia per ragioni congiunturali [il peso dell’austerità che essa impone ai popoli dell’Europa del sud], che per ragioni di principio. Fu una pazzia fare una moneta unica senza prima realizzare l’Europa sociale e fiscale. Fu in effetti una pazzia fare una moneta unica tra Paesi le cui strutture, sia economiche che sociali e demografiche, erano così diverse e divergenti. Fu una pazzia fare una moneta unica tra Paesi che, di conseguenza, avevano tassi di guadagno di produttività molto diversi e diverse inflazioni strutturali [come anche un rapporto tra l’inflazione e la crescita].

L’Euro è stato realizzato per ragioni politiche. Hanno creduto che imponendo un primo elemento di Europa federale, quando le popolazioni ne rifiutavano il principio, sarebbero riusciti, a poco a poco, a costruire furtivamente questa Europa federale. Abbiamo visto a che disastro ha condotto questa politica di federalismo furtivo. I dirigenti, per primo Jacques DELORS, hanno creduto che l’economia si sarebbe piegata alla politica. Ma la realtà dei fatti, che hanno voluto negare, ha preso la rivincita.

La divergenza macroeconomica tra i Paesi dell’Eurozona era già evidente dal 2006. A quell’epoca avevo suonato il campanello d’allarme [8].Essa è diventata insopportabile con la crisi finanziaria e le conseguenze da essa derivate. Prima che la crisi dell’euro travolga completamente tutto, sarebbe più assennato sciogliere l’Euro e cominciare a vedere tra quali Paesi sarebbe possibile organizzare una convergenza sia sociale che fiscale, che potrebbe permettere di ricostruire, entro un termine che resta da precisare, uno strumento monetario comune.

Ci diranno che bisogna «cambiare l’Europa». Sempre la vecchia solfa, diventata una vera piaga. Ma è un discorso che fanno da più di vent’anni e che non ha alcun effetto, per delle ragioni che sono del resto facili da spiegare. Per cambiare l’Unione Europea, bisognerebbe che gli altri 27 Paesi si convertissero ai nostri valori, alla nostra situazione. Cosa impossibile e anche malsana, poiché le differenze possono fonte di crescita. Ma allora bisogna trovare delle soluzioni che permettano a queste differenze di esprimersi senza doverne pagare le conseguenze. Ciò impone sostanziali cambiamenti istituzionali. Non bisogna «cambiare l’Europa», ma «cambiare Europa» e per far questo non esitare a distruggere ciò che rappresenta un ostacolo, come l’Euro. Questo è il punto fondamentale che dovrà guidare il nostro voto alle lezioni europee.

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[1] Lo confermano i Voroshilov Lectures, a partire dal 1971-72.
[2] SAPIR J. , «From Financial Crisis to Turning Point. How the US “Subprime Crisis” turned into a worldwide One and Will Change the World Economy», in International Politik und Gesellschaft, n°1/2009, pp. 27-44.
[3] SAPIR J., «La crise de l’Euro. Erreurs et impasses de l’Européisme», in Perspectives Républicaines, n° 2, Giugno 2006, pp. 69-84.
[4] SAPIR J., «Is the Eurozone doomed to fail», pp. 23-27, in Making Sense of Europe’s Turmoil, CSE, Bruxelles, 2012.
[5] SAPIR J., Les scénarii de dissolution de l’Euro, [con P.MURER et C. DURAND] Fondation Res Publica, Paris, settembre 2013.
[6] SAPIR J. Les scénarii de dissolution de l’Euro, [con P.MURER et C. DURAND], op.cit.
[7] SAPIR J. Les scénarii de dissolution de l’Euro, [con P.MURER et C. DURAND], op.cit.
[8] Vedi mio articolo «La crise de l’Euro: erreurs et impasses de l’Européisme», in Perspectives Républicaines, n°2, Giugno 2006, pp. 69-84.

da RussEurope
Testo gentilmente tradotto da Etienne Ruzic