Il vicolo cieco palestinese pone l’accento sul diritto al ritorno

Ash-Shabaka è un organizzazione no-profit indipendente la cui missione è informare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani dei palestinesi e sulla loro autodeterminazione nel contesto del diritto internazionale. Questo sommario politico è stato scritto da Randa Farah, docente palestinese di antropologia che ha scritto anche sulla memoria popolare palestinese e sulla ricostruzione dell’identità.

Come un disco rotto che riproduce in continuazione un ritornello fastidioso, il processo di pace si è consumato tra scadenze non rispettate, minacce e promesse, a soste intermittenti. Sembra che nessuna delle parti coinvolte – principalmente l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp)/l’Autorità palestinese (Ap), Israele e gli Stati Uniti) – sia stata in grado di sopravvivere senza far ricorso ad esse.

Ma le conseguenze per il popolo palestinese occupato, esiliato ed espropriato sono state disastrose, e la loro fine più volte rimandata. Vale la pena tracciare alcune di queste lezioni, per intraprendere d’ora in poi un nuovo percorso.

Ventun anni dopo Oslo, eufemisticamente chiamato anche «processo di pace», ampie aree di territorio palestinese sono state inglobate dalle colonie ebraiche, l’economia palestinese è a brandelli e gli ideali rivoluzionari del movimento di liberazione nazionale palestinese sono affondati davanti a una diplomazia finora inefficace.

Ancor più importante, il fronte nazionale è stato frammentato e i profughi e gli esiliati abbandonati a sé stessi. E questi non sono che gli effetti più evidenti di Oslo.

La storia dimostra, com’è opinione di Zeev Sternhell, che per i leader israeliani, siano loro di centro, di destra o di sinistra, «il termine ‘accordo’ significa resa incondizionata dei palestinesi. Perché l’esclusivo diritto alla terra degli ebrei sia completo e riconosciuto, i palestinesi devono accettare la loro inferiorità».

Nonostante le celebrazioni per l’accordo di riconciliazione di Fatah e Hamas del 23 aprile, non ci si può non domandare se il presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non avrebbe potuto rimandare la minaccia di scioglimento dell’Autorità palestinese, per riconciliarsi con Hamas, a un’altra occasione in cui tale mossa sarebbe stata più necessaria. E perché l’opinione di chi ha sempre criticato gli Accordi di Oslo e i negoziati che ne sono seguiti dal 1993, non è mai stata presa sul serio?

L’impegno per i nuovi accordi di riconciliazione appare più serio di quanto lo siano stati i due precedenti, e si parla di rivedere il sistema politico palestinese non solo all’interno dei Territori occupati palestinesi, ma anche entro l’Olp in quanto rappresentante del popolo palestinese tutto.

Messo in pratica, sarebbe un buon punto di partenza, ma vanno ricordati gli usi (e gli abusi) dei negoziati fatti fino ad oggi, e dell’impatto che questi negoziati hanno avuto sul popolo palestinese, per evitare tranelli futuri.

I negoziati hanno permesso a Israele di proseguire quasi indisturbato con l’evidentemente illegale processo di colonizzazione, mentre l’Autorità palestinese controllava la popolazione della Cisgiordania con forze di sicurezza addestrate negli Stati Uniti. I negoziati hanno fornito una copertura alla pulizia etnica attuata con le ruspe da Israele a Gerusalemme, nel Negev (Naqab) e nella così detta area C della Cisgiordania, all’assedio senza rimorsi di Gaza, e all’approvazione di leggi razziste nei confronti dei cittadini palestinesi israeliani.

Per gli Stati Uniti, i negoziati hanno tenuto nascosta una parte della regione in subbuglio, in quanto le priorità globali erano altre, ad esempio la Russia in rinascita, ed hanno assicurato le priorità di Israele e la protezione della sua esistenza in quanto avamposto imperiale.

In quanto all’Olp/Ap, i negoziati sono serviti a mascherare la loro mancanza di potere e di strategie alternative. Prendiamo ad esempio l’immagine di Mahmoud Abbas che firma furiosamente lettere di richiesta di adesione per la Palestina a 15 convenzioni e trattati internazionali. Facendosi coinvolgere dall’atmosfera raggiante trasmessa dalle tv satellitari, si sarebbe potuto immaginare che egli avesse liberato Gerusalemme e Jaffa e che fosse a un passo dalla vittoria.

Invece, le 15 convenzioni internazionali firmate non hanno costituito minaccia alcuna per Israele nel contesto regionale attuale e in quello politico globale, sebbene esse potrebbero essere utilizzate per ottenere buoni risultati se ci fosse la volontà politica.

Ma Abbas ha dato l’impressione di voler minare tale possibilità, annunciando la disponibilità sua e del suo gruppo ad estendere di altri 9 mesi i negoziati nel caso in cui Israele avesse bloccato gli insediamenti, per discutere, nei primi 3 mesi, sui confini, argomento rifiutato dall’inizio dei negoziati, nell’estate 2013, dai negoziatori israeliani.

Siamo così abituati ai fallimenti dell’Olp/Ap da percepire un simile atto di sfida come una vittoria? Se Israele avesse liberato il quarto gruppo di prigionieri, l’Olp/Ap si sarebbe astenuta dal proporre la stessa richiesta? E per quanto?

Non dovremmo lottare per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi e per il riconoscimento della Palestina in tutti gli organismi internazionali – per non parlare dei diritti dei palestinesi, tra cui il diritto al ritorno affermato dal diritto internazionale?

Il prezzo degli inutili negoziati

Se la richiesta di accoglimento in questi organismi internazionali fosse stata accompagnata da altre forme di resistenza, la questione sarebbe diversa. Dopo tutto, i palestinesi hanno accumulato, negli ultimi decenni, centinaia di dichiarazioni internazionali, convenzioni e risoluzioni di condanna per l’occupazione israeliana della Palestina. Ma queste risoluzioni funzionano solo quando la parte più debole comincia a vincere sul campo di battaglia, e/o ad accumulare abbastanza capitale politico internazionale da riuscire a spostare la bilancia del potere a suo favore.

Il coinvolgimento dell’Olp/Ap nei negoziati di pace, invece, finora ha avuto un approccio contrario, e si è sostituita la resistenza all’occupazione con negoziati infiniti, ritrovandosi sotto pressione per cercare attivamente di fermare altri atti di resistenza al solo fine di far continuare i negoziati.

Ad esempio, osserviamo le sconcertanti dichiarazioni di Abbas contro il movimento del Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) fatte nel momento in cui il movimento stava diventando una potenziale, autentica forza sovversiva. I funzionari dell’Olp/Ap hanno poi dichiarato di rispettare il diritto della società civile palestinese a condurre campagne Bds locali e globali.

Più recentemente, l’Ap ha arrestato quattro attivisti Bds per aver protestato contro la decisione dell’Ap di ospitare a Ramallah un gruppo di danza indiano che si era appena esibito a Tel Aviv, contravvenendo ai principi del Bds. Sebbene gli attivisti siano stati rilasciati su cauzione, saranno processati dal tribunale dell’Ap il 28 maggio.

Il prezzo degli inutili negoziati è stato alto per i palestinesi, soprattutto da quando l’Olp/Ap ha dato la priorità alla creazione di uno Stato palestinese sul diritto al ritorno – non ottenendo nulla. Il diritto al ritorno dovrebbe essere giudicato intrinsecamente al diritto all’autodeterminazione, e dovrebbe essere legato con lo scopo di creare uno Stato indipendente, e non essere trattato indipendentemente. Dopotutto è la nazione che decide il suo futuro politico.

Nonostante le promesse vecchie decenni di non voler mai cedere sul diritto al ritorno, l’Olp/Ap si sono continuamente impegnati in negoziati volti a ottenere solo quello, senza coinvolgere in significative consultazioni gli stessi profughi sull’argomento.

Il commissario generale dell’Unrwa, Filippo Grandi, nel suo intervento alla Birzeit University si riferiva a questo: «Temo che le mancate consultazioni con i profughi, per sentire le loro opinioni e per tenerne conto, ne consacreranno la loro esclusione, con conseguenze negative prevedibili».

Il voler negoziare con Israele dell’Olp/Ap ha anche facilitato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, senza alcun vantaggio per i palestinesi. In precedenza, i funzionari dei regimi arabi reazionari che si incontravano con le loro controparti israeliane, lo facevano segretamente, per timore di una reazione pubblica negativa nei loro confronti, per aver oltrepassato la linea rossa della normalizzazione con Israele. Oggi quella linea rossa è svanita, e i funzionari israeliani e gli uomini d’affari viaggiano liberamente e apertamente avanti e indietro per le capitali arabe.

Sempre più spesso gli incontri tra funzionari israeliani e arabi vengono trasmessi dalle televisioni arabe suscitando poca indignazione nel pubblico, considerato che altri conflitti nell’area mediorientale monopolizzano l’attenzione e assorbono le risorse. Ciò indica i mutati calcoli politici di molti regimi arabi sul ruolo di Israele in più ampie questioni regionali, dove Israele viene sempre più considerato un potenziale alleato con cui raggiungere obiettivi politici nella regione piuttosto che uno Stato predatore che colonizza territori arabi e che costituisce una minaccia al mondo arabo in genere.

Allo stesso tempo i governi arabi non temono più che i palestinesi possano diffondere idee rivoluzionarie nelle società nelle quali governano. Non si riesce anzi più a distinguere i burocrati dell’Olp/Ap da altri ministri o presidenti arabi, quando si muovono tra le sale della Lega araba indossando abiti occidentali in cerca di fondi presso i ricchi Stati del Golfo. La differenza è che oggi essi mancano del prestigio che aveva l’Olp un tempo, che permetteva loro di mobilitare palestinesi e arabi intorno alla loro causa.

L’inutile tentativo di ottenere uno Stato minuscolo, per quanto minimamente sovrano, ha estromesso la nazione palestinese in generale, ed ha portato a uno scollamento tra i palestinesi e alla loro incapacità di formare un movimento generale capace di unire tutti attorno a una visione condivisa e a un progetto nazionale generalizzato.

I palestinesi fuori dalla madrepatria rappresentano almeno la metà della nazione, ma sono stati relegati allo status di osservatori, privi della prospettiva di dire la propria sul loro futuro.

Finché lo sforzo palestinese per l’autodeterminazione e l’indipendenza rimane limitato alla salvaguardia di uno «staterello», il diritto al ritorno dei profughi continuerà ad essere rappresentato come una richiesta ambigua, marginale e/o irreale.

Ma il diritto dei profughi resta il nocciolo del movimento di liberazione nazionale palestinese: gli israeliani lo sanno bene e ciò li perseguita.

Il prezzo della colonizzazione continua

L’ostinazione dei palestinesi a battersi per i propri diritti, incluso il diritto al ritorno, si scontra con la determinazione di Israele a non riconoscere nessun diritto e nessuna concessione di terra palestinese.

Da notare la dichiarazione dell’11 marzo 2014 del Primo ministro Benjamin Netanyahu, indirizzata alla fazione al governo, di destra, Likud-Beitenu, nella quale egli afferma che non firmerà mai nessun accordo con i palestinesi in cui si continui a richiedere il diritto al ritorno dei profughi e in cui non si affermi il riconoscimento dei palestinesi di Israele in quanto Stato ebraico. Naturalmente oltre a questo Israele vuole un accordo che gli consenta di conservare la maggior parte del territorio della Cisgiordania, le risorse idriche e il controllo di ingressi e movimenti.

Ma ciò che Israele chiede è impossibile da ottenere. I palestinesi non dichiareranno mai di rinunciare ai propri diritti: nessun popolo lo ha mai fatto e non lo faranno neanche loro. Inoltre il mondo non può riconoscere la legittimità dell’occupazione israeliana del 1967 senza violare un principio-chiave del diritto internazionale, che destabilizzerebbe il resto del pianeta.

Nemmeno i più stretti alleati di Israele hanno riconosciuto l’annessione di Gerusalemme Est. Né può la comunità internazionale accettare lo status di cittadini di seconda classe riservato ai palestinesi di Israele, ora opportunisticamente mascherato dai negoziati.

In breve, nella lunga distanza Israele non può acquistare legittimità dalle sue azioni illegittime, indipendentemente dal suo potere militare ed economico. Israele può solo continuare la colonizzazione e le aggressioni utilizzando la propria macchina dell’hasbara (propaganda), finché il prezzo della colonizzazione sarà troppo alto da sopportare. Ciò accadrà quando i palestinesi si riprenderanno la rivoluzione, e i paesi arabi saranno davvero svincolati dal controllo occidentale.

Intanto la propaganda israeliana continua a manipolare gli sforzi dei palestinesi per la giustizia e i diritti, etichettandoli come atti di «terrore» e ostacoli per la pace. Prendiamo ad esempio la recente ripresa di attacchi contro l’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu per il soccorso dei profughi.

Secondo un articolo il parlamento inglese avrebbe aperto un’inchiesta sull’Unrwa su richiesta di potenti lobby pro-Israele, con l’appoggio dell’ex-membro del partito laburista israeliano della Knesset, Einat Wilf. (Ash-Shabaka non ha trovato alcun riferimento, online, a un tale comitato, ma solo riferimenti a un’inchiesta sullo sviluppo degli aiuti forniti dalla Gran Bretagna in Medio oriente, inchiesta che si fa ogni qualche anno. Nelle fonti non si cita l’Unrwa).

Un altro articolo sostiene che l’Unrwa sosterrebbe il terrorismo, creando una cultura della «dipendenza perpetua» e scoraggiando i palestinesi a cercare una soluzione pacifica al conflitto – ciò nonostante i decennali, inutili negoziati dell’Olp/Ap. Leggendo l’articolo vien da chiedersi se l’Unrwa è stata creata prima che i palestinesi diventassero profughi, ed essa appare come la radice di ogni male in Medio oriente.

Il problema per Israele è che la forza dell’hasbara e dell’esercito potrebbero non essere abbastanza. Più colonizza, espropria e discrimina, più si dimostra oppressore che continuamente vìola i diritti umani, non solo dall’occupazione del 1967 ma anche dalla creazione dello Stato nel 1948. Davvero, ciò mette in dubbio e attrae l’attenzione sulla legittimità dell’intero progetto sionista.

Il non voler abbandonare le conquiste militari da parte di Israele rende i tempi maturi per un’efficace azione contro le sue violazioni del diritto internazionale. Diversi enti europei stanno abbandonando gli investimenti in compagnie israeliane, sia da quelle che hanno la propria sede nei Territori occupati che da quelle che si trovano all’interno di Israele. Queste decisioni sono in parte la conseguenza dell’opinione consultiva della Corte di giustizia del 2004, e in parte la conseguenza delle azioni popolari intraprese dal movimento Bds e da altri attori. Non per niente il Segretario di Stato Usa John Kerry e il Presidente Obama hanno avvisato Israele di avvicinarsi a un «quasi totale isolamento».

In quanto ai palestinesi, è arrivato il momento di dare retta a uno dei loro maggiori poeti, Rashed Hussein, che una volta scrisse: «Le rivoluzioni vogliono momenti di rabbia».

Quel momento è adesso: la farsa del processo di pace deve finire, e, più importante ancora, è ora che gli attivisti palestinesi rivedano le priorità nazionali, con la questione dei profughi e il diritto al ritorno al centro della causa e non ai margini.

Il cammino dei negoziati senza la resistenza popolare e senza il rafforzamento dell’OLP in quanto ombrello nazionale che permetta la partecipazione democratica e popolare di tutti i palestinesi, ovunque essi si trovino, può finire solo in un disastro.

da InfoPal
Traduzione di Stefano Di Felice