Un triste bilancio

Il governo siriano sta celebrando la sua apparente vittoria sull’insurrezione armata in quella che fu la sua capitale. Ma la società siriana paga un prezzo troppo alto. Basta guardare le terribili immagini della distruzione provocata da anni di assedio e di indiscriminato bombardamento dell’artiglieria. Ciò simboleggia la devastazione del tessuto sociale siriano, peggiore di quella fisica e senza prospettiva di guarigione.

1. Dal punto di vista militare e, di primo acchitto, anche da quello politico non si può negare il successo del governo. Ma va sottolineato il fatto che ciò è stato possibile a causa di un ritiro negoziato e non di una vera e propria capitolazione. Il che dimostra quanto sia difficile per il governo avanzare militarmente e questo non significa che la situazione sia pacificata.

2. La sinistra democratica insistette sul fatto che la soluzione migliore sarebbe stata un cessate il fuoco e una pacificazione con spazi di dissenso. In tal modo essa si sarebbe trasformata in un’opposizione politica civile, come aveva iniziato tre anni prima. Purtroppo, innanzitutto, il governo continua a non esser disponibile ad una passo del genere e, in secondo luogo, anche i ribelli non sembrano pronti per questo, né i non affiliati né, a maggior ragioni, i jihadisti.

3. Osservando la situazione più da vicino, la narrazione del governo diviene opinabile. E’ comparsa la storia di alcune famiglie cristiane sopravvissute ad anni di assedio. Le immagini hanno mostrato fratelli con il nome di Ayman e Zeinat Akhras affamati ma vivi. E’ difficile immaginare che avrebbero potuto sopravvivere senza esser tollerati da almeno una parte dei ribelli. E’ vero: il gesuita olandese Frans van der Lugt, che decise di non lasciare la città vecchia, fu ucciso da alcuni di essi alcuni giorni prima dell’accordo. Ma non sembra plausibile che tutti o la maggior parte dei ribelli abbiano tagliato la testa dei Takfiri, che erano accorsi da tutto il mondo. In realtà nessun gruppo armato è stato mai menzionato come parte dell’accordo. Michel Naaman, un sacerdote siro-cattolico proveniente dalla città, che fu anche uno dei negoziatori, ha negato che fra i ribelli rimasti ci fossero stranieri. Su una rete della TV di stato ha anche dichiarato che la maggior parte di essi erano persone del posto. A quanto pare i gruppi jihadisti si erano già auto evacuati, innescando una dura faida e suscitando accuse di tradimento. Un’ intervista con un ex combattente di Homs ad Al –Monitor supporta l’ipotesi che molti fra i militanti siano stati ex attivisti rifugiati che hanno preso le armi.

4. La sconfitta inflitta all’insurrezione ad Homs dovrebbe essere un’occasione per tutti coloro che ancora mirano veramente agli obiettivi del movimento popolare democratico originale a riconsiderare la lotta armata e ancor di più la direzione verso una guerra regolare. Mentre è comprensibile il ricorso alle armi quando il governo non lascia spazio a pacifiche proteste democratiche e risponde solo con una violenza sproporzionata, questo può non essere politicamente appropriato sotto specifiche circostanze. C’è stato un rapporto dialettico fra militarizzazione, settarismo e intervento straniero che ha trasformato il movimento popolare democratico di massa in una guerra civile confessionale. Anche se il movimento democratico non aveva i mezzi immediati per riformare il regime, figuriamoci per rovesciarlo, esso ha davvero esercitato un forte richiamo anche nelle circoscrizioni popolari vicine al regime e poteva aspirare a raccogliere una larga maggioranza anche fra le identità confessionali. La militarizzazione ha invece portato alla ristabilizzazione del governo. Il governo ha dipinto il movimento con il colore del jihadismo e alla fine è riuscito a creare il suo nemico preferito.

5. Non è escluso che le truppe governative possano avanzare ulteriormente e riguadagnare territorio, dato che il jihadismo perde il sostegno popolare. C’è comunque un errore di calcolo strategico del gruppo dirigente. Non a causa dell’evidente supporto straniero di cui ambo le parti godono, che è ben lungi dall’esaurirsi. Ma il fatto che il sostegno popolare ai ribelli vacilli non significa sostegno al governo. Una certa forma di guerra civile può continuare per anni, favorendo una dittatura molto peggiore di quella restaurata da Sisi e dal suo esercito in Egitto. Le profonde spaccature anche di natura confessionale provocate dalla guerra civile getteranno sulla società una maledizione peggiore di quella in Iraq. A prescindere dal fatto che le divisioni resteranno a livello fattuale e saranno formalizzate, aumenterà la dipendenza dall’imperialismo, cioè l’esatto contrario di ciò che Assad sostiene di rappresentare. L’unica via d’uscita resta un accordo politico con settori significativi delle forze islamiche, qualcosa cioè che i gruppi dirigenti continuano ad escludere. (Si veda International Initiative for a Political Solution)

6. Per altro verso, la guerra civile siriana dimostra l’incapacità dell’islam politico sunnita di offrire un’alternativa praticabile al dominio imperialista, come esso dichiara di fare. Esso non è in grado di costruire un consenso sufficiente, non può confrontarsi con la diversità culturale e non affronta il problema di un progetto di sviluppo sociale ed economico contrario al sistema capitalista globale. Questo in Egitto ha condotto ad una situazione in cui le vecchie elites militari hanno riguadagnato un sostegno sufficiente per inscenare un colpo di stato militare, tornare al potere e metter fine alla primavera araba. Ciò tuttavia non significa che l’Islam politico si esaurirà presto. Rimarrà un’opposizione popolare potente e principale finché il terzo polo delle forze rivoluzionarie democratiche e sociali non offrirà una valida alternativa. Quest’ultimo sarà in grado di guadagnare terreno a due condizioni: in primo luogo che individui chiaramente le élite capitaliste locali e il loro radicamento nel sistema imperialista globale come nemico principale; in secondo luogo, che non cada nella trappola laicista e quindi sia in grado di sviluppare lo slancio contro l’elite e l’antimperialismo delle masse popolari, racchiuso nell’identità islamica ma mescolato con altri aspetti.

Traduzione di Maria Grazia Ardizzone