Jihad fil sabil Allah – lotta armata sulla strada tracciata da Dio

Nel novembre 2009, quando la Resistenza irachena, dopo circa sei anni di lotta sembrava piegata e gli americani cantavano vittoria, così concludevo un mio articolo:
«C’è un detto in Pakistan: “Non puoi comprare un pashtun, però puoi affittarlo”. A questa massima sembrano essersi ispirati gli americani quando, dopo le sonore legnate subite nel triennio 2004-2006, decisero di agganciare su larga scala i clan sunniti col motivo di isolare e dare la caccia ai “qaidisti” e ai loro alleati in Iraq. Era l’ammissione di una sconfitta e di un radicale e diabolico cambio di tattica.  (…)

Ma gli americani e i loro satrapi sappiano che se hanno preso in affitto la Resistenza, essi non l’hanno per questo comperata. Il futuro riserverà loro amarissime sorprese. Se è vero che l’Iraq ha fatto un salto nel buio accettando la tutela degli americani, questi ultimi sappiano che non sarà facile conservarla, poiché la storia non è affatto finita».

Fu facile profezia.

La conquista il 10 giugno scorso da parte dei guerriglieri sunniti della metropoli irachena di Mosul ha colto di sorpresa strateghi, analisti e pennivendoli occidentali.

Essi ora parlando del rischio che “riesploda in Iraq la guerra civile”.
In verità, pur in forme larvate, la guerra civile in Iraq — quella che sorse come sottoprodotto dell’occupazione americana del 2003 —, pur tra fasi alterne, non è mai cessata.

A chi aveva seguito attentamente le vicende interne irachene non era sfuggito che da almeno un paio d’anni i movimenti sunniti d’opposizione armata al corrotto e confessionale governo di al-Maliki erano cresciuti in modo esponenziale. Una lotta che soprattutto nell’ultimo anno aveva messo a segno colpi micidiali, che hanno contribuito a indebolire il regime di Baghdad.

Non era sfuggito, agli osservatori più attenti, che il 3 gennaio scorso il movimento guidato da Abu Bakr al-Baghdadi — Stato islamico dell’Iraq e del Levante ad-Dawlat al-Islamiyya fi’l-‘Iraq wa’sh-Sham, di cui ISIL o ISIS, poiché “Sham sta per Levante o Grande Siria — aveva addirittura proclamato la fondazione di uno Stato indipendente nelle vaste zone liberate di al-Anbar e in parte delle province di Niniveh e Salahaddin, con propaggini addirittura in alcuni quartieri di Baghdad, di Mosul, di Tikrit. Quella proclamazione avveniva dopo una vasta offensiva che aveva portato proprio agli inizi di gennaio alla liberazione di città decisive come Falluja e Ramadi.

La fulminea conquista di Mosul dimostra che in questi primi mesi del 2014 la rivolta sunnita si è rafforzata, è anzi dilagata. La liberazione di Mosul non è stata tuttavia solo il risultato di un’occupazione militare dal di fuori. Essa si è innestata sulla   sollevazione dal di dentro di Mosul, anzitutto della sua maggioranza sunnita.

Come informano alcuni media in lingua araba, ciò è stato possibile grazie alla saldatura (che fu già sperimentata in alcune fasi della resistenza contro l’occupazione americana) tra i miliziani dell’ISIL, alcune milizie tribali sunnite e i diversi gruppi baathisti che in questi ultimi anni, pur nella clandestinità e in condizioni di durissima repressione, avevano continuato a combattere, tenendo in vita la loro rete organizzata.

Non per caso al-Maliki nel suo discorso col quale ha chiamato alla mobilitazione generale dichiarando lo Stato d’emergenza, non ha solo invocato l’aiuto americano, ma ha esplicitamente parlato di “complotto dei seguaci di Saddam Hussein”. Nel frattempo milizie iraniane basiji sono già entrate in Iraq per salvare il regime di al-Maliki.

Le notizie delle ultime ore confermano che siamo in presenza di una sollevazione generalizzata della comunità sunnita e quindi della formazione di una vera e propria alleanza tra diverse componenti, di cui l’ISIL è solo una parte.

Viene quindi destituita di ogni fondamento la notizia secondo cui la maggior parte dei combattenti sunniti sarebbe composta da jihadisti in ritirata precedentemente impegnati nel teatro siriano, in particolare delle zone di  Dayr az zawr, ar Raqqah, al-Hasakah e Aleppo.

Cosa unisca gli islamisti fondamentalisti di fede wahabbita e takfirita dell’ISIL alle organizzazione baathiste ed ai settori tribali che già nel 2005-2006 rifiutarono l’imposizione della sharia ed entrarono in aperto conflitto con il movimento di al-Zarkawi (dal cui seno l’ISIL è nato) ci viene fornito dal comunicato col quale agli inizi dello scorso gennaio comunicavano la conquista di Falluja: “Siamo qui per difendere Falluja dall’esercito dello sciita al-Maliki e dai safavidi iraniani”.

In questa frase c’è il fondamento che spiega l’unità tra jihadisti puritani di fede wahabbita-takfirita (che combattono gli shiiti in quanto apostati del vero Islam, considerati i nemici più infidi dell’islam) e le correnti baathiste, per le quali gli shiiti sono considerati servi dei safavidi (dei persiani), irriducibili nemici della nazione araba. Qui il vero collante del sodalizio tra islamismo di marca wahabbita e nazionalismo arabo in salsa baathista. Ciò che in Siria è diviso da linee settarie, in Iraq è reso possibile dalla medesima appartenenza alla comunità sunnita.

Le guerre civili in Iraq e in Siria — risultati, la prima di una lotta di liberazione dall’occupazione americana, e la seconda della rivolta sociale e democratica sull’onda delle “primavere arabe” — confermano che l’area è un sistema di vasi comunicanti, ove una scossa ad un lato si riverbera all’altro.

Commentando la sanguinosa guerra civile in Siria, affermavamo che probabilmente si era entrati in una sui generis “Guerra dei trent’anni”. Una guerra di lunga durata la cui posta in gioco è la risistemazione geopolitica dell’intero Medio oriente e la cui configurazione è sostanzialmente quella che risultò dalla spartizione imperialista tra inglesi e francesi (gli accordi segreti Sykes-Picot del maggio 1916).

Quella configurazione geo-politica, già in crisi, ricevette il colpo di grazia con l’invasione americana dell’Iraq. Perché? Perché si risolse de facto in un colossale fiasco, nel fare dell’Iraq una protesi dell’Iran.Tenendo conto che la Siria e il Libano (via Hezbollah) erano già alleati dell’Iran, era sorto un corridoio strategico che andava da Tehran a Beirut.

Questo corridoio, che sembrava stabile, sta invece crollando sotto i colpi della sollevazione delle comunità sunnite (e di cui il “jihadismo” è solo un sottoprodotto), una sollevazione che ha preso le forme di una “fitna”, di una resa di conti tra sunniti e shiiti. I due attori regionali che stan dietro e alimentano questa “fitna” sono noti: l’Iran da una parte e l’Arabia saudita dall’altra. E’evidente che, mentre l’Iran sostiene le forze sociali e politiche delle comunità shiite e alawite, i sauditi si vedono costretti a sostenere le formazioni “jihadiste”, quelle che han dimostrato sul campo di possedere una grande capacità di tenere testa ai loro numerosi nemici. Il terzo protagonista regionale di questa grande partita è la Turchia, spalleggiata dal piccolo emirato del Qatar e dalla potente Fratellanza musulmana. In questo contesto l’Egitto fa storia a sé. I generali di al-Sissi, nel colpire la Fratellanza musulmana e avocare a sé tutto il potere, hanno avuto sì la benedizione dei sauditi (e alla fine dell’imperialismo euro-atlantico), ma questo non vuol dire che sostengano le ambizioni saudite. Sintomatiche la dichiarazioni di al-Sissi sulla Siria, nelle quali ha deprecato la sollevazione armata contro il regime del clan di al-Assad.

Senza dimenticare che un altro attore sono i curdi, la cui infelice posizione geografica li obbliga a destreggiarsi tra le varie potenze regionali, e le cui ataviche divisioni interne obbliga ad una sostanziale irrilevanza.

Sullo sfondo ci sono ovviamente gli Stati Uniti di Obama, che paiono un pugile suonato e non sanno che pesci prendere. Vedremo se la Casa Bianca, voltando le spalle ai sauditi, accetterà l’invito di al-Maliki a fornire un aiuto diretto per schiacciare la sollevazione sunnita. Molto più chiara la politica putiniana, di aperto sostegno a Tehran e ai suoi alleati.

Siamo quindi alle prime battute di un lungo conflitto che ridisegnerà l’atlante medio-orientale.
In attesa di quella che sarà la mediorientale “pace di Westaflia”, e molto sangue purtroppo dovrà scorrere, il primo round sembra essere stato vinto dal “jihadismo al-zarkawita”,(*)   dalla apparente nascita di un Califfato che occupa mezzo Iraq e parte della Siria.

(*) A torto i miliziani dell’ISIL vengono definiti “Qaidisti”. al-Zahawiri in un recente comunicato sulla Siria ha condannato l’ISIL prendendo le difese di al-Nusra, come del resto, nel dicembre 2007, aveva “scomunicato” al-Zarkawi e la sua strategia takfirita-stragista in Iraq.