L’hanno chiamato Democratellum ma non si sa bene il perché
Cari amici del M5S non ci siamo proprio. Il problema non è la disponibilità a discutere con Renzi di legge elettorale. Il problema è piuttosto il contenuto della proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati.
Quando, all’inizio dell’anno (leggi QUI), Renzi lanciò la sua offensiva sulla nuova legge, tre furono le opzioni avanzate: il sistema delle comunali, il Mattarellum, il sistema spagnolo. Poi, pochi giorni dopo, previo accordo con Berlusconi, quell’offensiva produsse il mostruoso Italicum, un incredibile incrocio tra il doppio turno delle comunali ed il premio di maggioranza del vecchio Porcellum, con l’aggiunta di soglie di sbarramento di tipo turco.
Per adesso questo obbrobrio giace su un binario morto. Lo sbruffone fiorentino ha dalla sua la forza di chi ha vinto nettamente le elezioni europee, ma deve fare i conti con le resistenze, più o meno sommerse, di chi a gennaio aveva sottoscritto il “Patto del Nazareno”. Vecchie, presunte, convenienze stanno forse venendo meno.
E’ in questo quadro che va letta l’iniziativa del M5S. Un tentativo di inserirsi in uno scenario assai fluido per cercare di limitare i danni della legge renziana.
Chi scrive non dubita affatto dello spirito democratico di questa mossa, dubita piuttosto della qualità democratica della proposta messa in campo. Una proposta che ricalca nell’essenziale il modello spagnolo, un sistema che distorce fortemente i principi della rappresentanza e dell’uguaglianza del voto, e che applicato in Italia potrebbe produrre effetti distorsivi anche maggiori.
Si fa presto a dire “proporzionale”
Come mai il prestigiatore Renzi indicava a gennaio le tre opzioni richiamate sopra? Fu quella una mossa meramente tattica? Forse sì, ma non sarà un caso se i tre sistemi indicati – il doppio turno, il Mattarellum e lo spagnolo – hanno in comune una cosa: produrre notevoli effetti maggioritari senza un esplicito premio di maggioranza. Con il vantaggio di poter ottenere gli stessi effetti del Porcellum senza però incappare in una nuova bocciatura della Corte Costituzionale.
Va detto che, per non farsi mancare niente, e per meglio evidenziare il suo assoluto disprezzo dei principi costituzionali, il futuro premier chiedeva già allora l’aggiunta di un premio di maggioranza del 15% da inserire tanto nel Mattarellum, quanto nel modello spagnolo qualora si fosse optato per uno di questi sistemi. Non per caso si è poi arrivati al cosiddetto Italicum, una delle peggiori leggi elettorali mai concepite al mondo.
Ora il problema è quello di opporsi a questo mostro antidemocratico. Ed è comprensibile che una forza come il M5S cerchi di farlo mettendo pienamente in gioco la forza parlamentare di cui dispone.
Ma la legge elettorale è materia delicata, è un tassello decisivo della democrazia. E, dunque, proporre una legge elettorale significa anche mettere in campo la propria visione della democrazia e dello stato. Ne consegue che la logica non può essere quella della “riduzione del danno”, perché tale “riduzione” può essere semmai perseguita attraverso i normali strumenti della battaglia parlamentare, laddove ogni convergenza è benvenuta quando serve a conseguire risultati concreti.
Una delle caratteristiche del M5S, ed un suo incontestabile punto di forza, è il costante riferimento alla democrazia. Ma purtroppo, nella proposta di legge presentata, il principio “uno vale uno”, un tempo si sarebbe detto “una testa, un voto”, cioè il principio proporzionale, viene di fatto accantonato.
Certo, così non è nella forma. Ma nella sostanza? Il fatto è che si fa presto a dire “proporzionale”, ma si fa altrettanto presto a disproporzionalizzare la base proporzionale con l’aggiunta dei famosi “correttivi”, paroletta assai malefica che fornisce la vera chiave di lettura della proposta del M5S.
Ricordiamoci che proporzionale era anche la base del Porcellum, stravolta però da un forte premio di maggioranza verso l’alto e da due soglie di sbarramento verso il basso. Proporzionale è anche la base dell’Italicum, stravolta ancor di più da premi e soglie da autentico regime.
Dire proporzionale dunque non basta. E questo vale anche per la legge dei Cinque Stelle. Certo – ci mancherebbe altro! -, la proposta del M5S è ben diversa dalla legge Calderoli e da quella del duo Renzi-Berlusconi, ma si allontana fortemente dai principi democratici della rappresentanza e dell’uguaglianza del voto tipici di una vera legge proporzionale.
La proposta di legge del M5S
Entriamo dunque nel merito.
Per brevità tralascio qui la questione delle preferenze. Dico solo che mentre è positiva la loro reintroduzione, trovo sbagliate le idee della “preferenza disgiunta” (la possibilità di scegliere un candidato di una lista che non si è votata) e quella della “preferenza negativa” (la cancellazione di candidati della lista prescelta). Meccanismi fra l’altro inconciliabili con la posizione fin qui tenuta dal M5S sul “mandato imperativo”. Posizione assai discutibile, e di certo non condivisa da chi scrive, ma mai messa in discussione dal Movimento.
Ma veniamo al cuore della proposta. Il M5S prevede un sistema basato su 42 circoscrizioni di diversa ampiezza. Ogni circoscrizione elegge i propri parlamentari con il metodo proporzionale, ma senza riporto dei resti nel collegio unico nazionale. In questo modo ogni circoscrizione ha una sua soglia di sbarramento implicita, normalmente molto alta, con l’eccezione delle aree metropolitane di Roma, Milano e Napoli, dove la soglia si abbassa sensibilmente per garantire il cosiddetto “diritto di tribuna”. Entreremo nel dettaglio più avanti, ma per capire di cosa stiamo parlando basti dire che in 15 circoscrizioni (su 42) la soglia di sbarramento sarà ben superiore al 10%, mentre in altre 19 andrà a collocarsi tra il 5 ed il 10%.
Sta qui, nella cancellazione del collegio unico nazionale, la prima pesantissima correzione del sistema proporzionale. Ma, come se non bastasse, ce n’è anche una seconda che riguarda il divisore adottato. Mentre il tradizionale metodo D’Hondt prevede la divisione dei voti di lista per 1, 2, 3, eccetera, fino al numero dei seggi da assegnare nella circoscrizione, i parlamentari M5S propongono quello che essi stessi definiscono “divisore corretto”. I voti di ogni lista vengono così divisi per 1, 1,8, 2,6, 3,4, 4,2, eccetera. Questo passaggio da uno scalino 1 ad uno scalino 0,8 determina un ulteriore vantaggio alle liste maggiori e naturalmente un’altra penalizzazione per le liste minori.
Il combinato disposto di queste due vistose correzioni produce una notevole disproporzionalità. In questo modo il premio di maggioranza da esplicito (come nell’Italicum) diventa implicito, e così pure le soglie di sbarramento. Come dire: il sistema parlamentare salva la sua faccia, ma la democrazia ne esce comunque pesantemente ammaccata.
Per evitare troppi tecnicismi riportiamo da l’Espresso uno studio realizzato dallo stesso M5S in base ai risultati delle elezioni europee. Secondo questo studio il Pd, con il 40,8% dei voti otterrebbe il 50% dei seggi, il M5S con il 21,2% dei voti avrebbe il 24,1% dei seggi, Forza Italia con il 16,8% dei voti incasserebbe il 17,6% dei seggi. Se c’è chi ci guadagna deve esserci ovviamente chi ci perde. Ed infatti: la Lista Tsipras con il 4% dei voti si fermerebbe all’1,1 dei seggi, Fratelli d’Italia con il 3,7% avrebbe solo lo 0,5% dei seggi, e la stessa Lega Nord – benché favorita dal suo carattere territoriale – porterebbe a casa solo il 4,6% dei seggi contro il 6,2% dei voti.
Naturalmente il nostro confronto è con un sistema elettorale puro. Si può dunque obiettare che il confronto va fatto semmai con quel che prevede l’Italicum. Obiezione accoglibile solo fino ad un certo punto, dato che attualmente, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del dicembre scorso, è in vigore una legge proporzionale con soglie di sbarramento al 2 e al 4%, a seconda che si sia “apparentati” o meno.
Comunque, a beneficio dei lettori, facciamo tutti i confronti prendendo il caso della Lista Tsipras, di una lista cioè che possiamo definire medio-piccola (nella graduatoria delle elezioni di maggio è arrivata sesta, assai vicina al quinto posto di Ncd). In base ai voti delle europee essa otterrebbe i seguenti seggi: zero con l’Italicum, 7 con la legge del M5S, 26 con la legge in vigore. Vedete che differenze, e pensare che si tratta di 3 leggi tutte con base proporzionale! Forse sarà ora più chiaro quanto sia poco innocente parlare di “correttivi”, quasi si trattasse di quisquilie cui non importa prestare attenzione.
I correttivi pesano eccome, sia quando producono effetti espliciti, come nel caso dei premi di maggioranza e delle soglie di sbarramento, sia quando essi sono solo impliciti, non dichiarati ma ugualmente operanti.
Certo, come si evince dai dati riportati, la legge del M5S non è mostruosa come quella del “Patto del Nazareno”. Non garantisce automaticamente a chi vince la maggioranza assoluta, e lascia una specie di “diritto di tribuna” alle forze minori altrimenti cancellate. Ma basta questo per dire che si tratta di una buona legge? Per quanto mi riguarda, assolutamente no.
Un sistema alla spagnola, con qualche piccola correzione
Il sistema proposto dal M5S è una duplicazione di quello spagnolo, dal quale si differenzia in maniera sensibile solo sulle preferenze, che in Spagna non ci sono, dato che anche nel paese iberico vige il sistema delle liste bloccate. Per la precisione c’è anche un’altra piccola differenza: mentre in Spagna, oltre alle soglie implicite dovute alle dimensione dei collegi, ve n’è anche una esplicita (al 3%) di fatto operante soltanto nelle due maggiori circoscrizioni, quelle di Madrid e Barcellona; nella proposta dei Cinque Stelle c’è solo la soglia implicita. Il che significa che se a Madrid ho bisogno di raggiungere il 3% per ottenere seggi, a Roma mi basterà forse il 2,5%.
Che si sia di fronte ad uno Spagnolo a 5 stelle ci viene confermato dai dati delle elezioni tenutesi nel paese iberico nel 2011. Il Partito Popolare con il 45,2% dei voti raggiunse la maggioranza assoluta del 53,1% dei seggi; il secondo partito, il PSOE, ottenne il 31,4% dei seggi con il 29,1% dei voti; la sinistra di Izquierda Unida con il 7,02% dei voti si fermò al 3,1% dei seggi.
Come si vede, il premio di maggioranza c’è eccome, anche se non garantisce sempre il raggiungimento della maggioranza assoluta; le forze principali (in Spagna 2, in Italia 3) vengono comunque avvantaggiate; le forze minori, anche se consistenti, sono pesantemente sotto-rappresentate; quelle più piccole del tutto cancellate: una fotografia sostanzialmente sovrapponibile al quadro disegnato per l’Italia dallo studio del M5S di cui abbiamo detto sopra.
Naturalmente ogni paese ha la sua storia e la sua strutturazione politica. In Spagna, ad esempio, i numerosi partiti regionalisti si trovano assai bene con il sistema delle piccole circoscrizioni. In Italia, dove l’unico partito regionalista è la Lega, questo sistema finirebbe per favorire ancor di più i partiti maggiori.
La violazione del principio dell’uguaglianza del voto
Prima di giungere alle conclusioni c’è un altro aspetto che merita di essere esaminato. Giustamente, nella sentenza già ricordata, la Corte Costituzionale ha insistito molto sul concetto di “uguaglianza del voto”. Ora sappiamo benissimo che un tale principio non può mai essere del tutto applicato. Ad esempio, qualora io scegliessi una lista che si fermasse in tutta Italia a poche migliaia di voti, il mio voto andrebbe perso con qualsiasi sistema elettorale. Il mio voto varrebbe dunque zero, a differenza di quello espresso da chiunque avesse votato una lista che abbia ottenuto anche un solo seggio.
Tutto questo è evidente. Ma allora perché il richiamo della Consulta? Semplicemente perché i meccanismi distorsivi delle leggi elettorali della Seconda Repubblica vanno ben oltre il caso limite di cui sopra. Questo per l’effetto combinato di premi di maggioranza e di soglie di sbarramento, indipendentemente dal fatto che questi meccanismi siano espliciti od impliciti.
Nel caso della proposta del M5S c’è però un’aggravante. Un’ulteriore differenziazione tra elettori di serie A e di serie B. In questo caso perfino peggiore dell’Italicum. Vediamo di cosa si tratta.
Dividendo l’Italia in circoscrizioni di dimensioni diversissime, e (questo è il punto decisivo) avendo cancellato il collegio unico nazionale, avremo anche “diritti elettorali” (chiamiamoli così per capirci) diversissimi nelle varie zone del Paese.
Per comprendere la questione diamo la parola ai parlamentari del M5S, che nel testo di presentazione della legge hanno scritto:
«In 33 circoscrizioni su 42 (che assegnano 373 seggi, ossia il 60% del totale) lo sbarramento naturale è superiore al 5%; nelle altre 9 circoscrizioni (che assegnano 245 seggi, ossia il 40% dei seggi della Camera) lo sbarramento è inferiore al 5%».
Ammissione interessante e tuttavia piuttosto reticente.
Come avrete capito, e com’è inevitabile in un simile sistema, ogni circoscrizione (e dunque ogni elettore) avrà la sua soglia di sbarramento. Le differenze, però, non sono così marginali come la citazione di cui sopra vorrebbe far intendere.
Vediamo nel dettaglio il numero di circoscrizioni previste con i relativi seggi (tra parentesi la soglia di sbarramento, calcolabile solo in maniera approssimativa, per ottenere seggi):
– Una circoscrizione con un seggio (50%)
– Una circoscrizione con tre seggi (30%)
– 13 circoscrizioni da 5-9 seggi (dal 10 al 20%)
– 19 circoscrizioni da 11 a 19 seggi (dal 5 al 10%)
– 6 circoscrizioni da 21 a 24 seggi (dal 4 al 5%)
– 3 circoscrizioni da 32 a 42 seggi (dal 2,5 al 3%)
Come si vede le differenze sono abissali. Facciamo alcuni esempi. Mentre l’elettore di Milano dovrà confrontarsi con una soglia attorno al 2,5%, per quello di Alessandria essa sarà del 7%, salendo al 10% a Caserta, al 17% a Potenza ed al 30% a Campobasso. Queste città sono state scelte a caso, giusto per dare l’dea di una pesantissima differenziazione che tocca in realtà tutto il territorio nazionale.
Vi sembra che il principio dell’uguaglianza del voto, e dunque dell’elettore, possa convivere con una simile differenziazione? Se, volendo contribuire a far scattare almeno un seggio, l’elettore di Campobasso avrà al massimo due opzioni, quello di Potenza ne avrà 3, quello di Caserta magari 4, quello Alessandria 5, quello di Milano probabilmente 10. Questi gli effetti devastanti di quella che possiamo definire solo come una vera e propria “discriminazione geografica”.
Il tentativo di giustificare l’ingiustificabile ha prodotto questa penosa argomentazione:
«La varietà di ampiezza delle circoscrizioni non costituisce un limite al sistema, bensì una sua qualità. Infatti, nelle circoscrizioni in cui si assegnano pochi seggi ottengono seggi esclusivamente le forze più grandi, mentre nelle circoscrizioni in cui si assegnano molti seggi ottengono seggi anche i partiti piccoli. E’ una conseguenza coerente col tentativo di rendere “reali” e non “virtuali” la rappresentanza: le forze politiche piccole, infatti, hanno una struttura, un numero di militanti e di risorse concentrato nelle aree metropolitane, viceversa nelle comunità più piccole, tali forze politiche spesso non hanno un reale radicamento territoriale».
Che dire? Gli è venuta proprio male e, come spesso avviene, la pezza di questa rocambolesca giustificazione è perfino peggio del buco causato dalla palese lesione al principio dell’uguaglianza del voto.
O bianco o nero: rappresentanza e “governabilità” non possono stare insieme
Ora la domanda è questa: perché il M5S è arrivato a questa proposta?
Per capirlo conviene dare la parola ai presentatori della legge. Dice ad esempio il pentastellato Danilo Toninelli, a commento del 10% di premio di maggioranza che otterrebbe il Pd, che questo dimostra che quello proposto è un proporzionale «fortemente corretto», «un proporzionale governante».
Ecco, in quest’ultima formula c’è probabilmente la chiave di tutto. Come ci conferma la seguente affermazione, tratta dal testo di presentazione della Proposta di legge: «La presente proposta si preoccupa di sciogliere il nodo fondamentale del rapporto tra l’esigenza di avere un Parlamento realmente rappresentativo e di favorire la governabilità del sistema disincentivando la frammentazione del sistema politico».
Eh no, cari amici del M5S, proprio non ci siamo. E’ qui che cade l’asino: nel tentativo di conciliare l’inconciliabile. Forse gli estensori non lo sanno, ma – parola più, parola meno – la loro formulazione è simile a quel che ci è capitato di sentire da almeno trent’anni (30), cioè dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso. E che non certo per caso ha portato ai successivi disastri del Mattarelum nel 1993 e del Porcellum nel 2005.
Vogliamo continuare su quella strada, pensando magari di essere più bravi nell’escogitare magiche soluzioni che tengano insieme il Diavolo e l’Acqua Santa? Fate pure, ma sappiate che la parolina decisiva è “governabilità”, un termine tutt’altro che neutro che non significa, come forse pensate, “governo democratico”, bensì governo oligarchico, governo sempre più autonomo dalla società e dallo stesso parlamento.
Il fatto è che il principio della rappresentanza e quello della “governabilità” non possono stare insieme, sono in contraddizione tra loro. Il primo ci dice che è il principio democratico che deve prevalere, per cui ogni governo deve avere comunque una piena legittimazione democratica, che risiede in primo luogo nel detenere il consenso effettivo nella società. Il secondo afferma invece che il governo viene prima di tutto, che l’essenziale è che sia stabile e duraturo, preferibilmente quanto più autonomo possibile dalle dinamiche parlamentari, con un consenso non necessariamente della maggioranza assoluta, e da misurarsi solo ogni 5 anni con elezioni sempre più manipolate da sistemi elettorali disproporzionali.
Riflettete. Fino agli anni ’80 la parola “governabilità” praticamente non esisteva. In Italia diventa d’uso corrente solo con il craxismo, per poi sfondare negli anni successivi. Anni che, su scala globale, vedono una trasformazione in senso autoritario delle democrazie parlamentari. Questo non per caso, ma per effetto di due precisi fenomeni. Il primo consiste nell’affermazione, al centro del sistema capitalistico, di potenti oligarchie finanziarie che abbisognano sempre più di un potere politico servile, dunque di governi, ma anche di partiti, sempre pronti a rispondere signorsì. Il secondo deriva dalla generale crisi del consenso che vivono i partiti così trasformati, destinati inevitabilmente a separarsi sempre più dalla società. A questa crisi di consenso si risponde trasformando, per legge, in maggioranze assolute le modeste maggioranze relative conquistate da partiti sempre più strutturati come gruppi di potere ben integrati nel blocco dominante, egemonizzato a sua volta dalle oligarchie finanziarie, nazionali ed internazionali.
Questa è, in buona sostanza, la famosa “governabilità”: un principio del tutto inconciliabile con la democrazia.
Ma se accettare il principio della “governabilità” è grave, pensare di poterlo facilmente miscelare con quello della rappresentanza è assurdo. Non è che con l’applicazione del principio di rappresentanza non si abbiano più governi, come la storia italiana (e non solo) dimostra in abbondanza. E’ che con il principio della “governabilità”, quello della rappresentanza viene sempre ferito a morte.
E siccome i due termini non possono stare insieme, inevitabile diventa il prevalere del principio di “governabilità”. Ora, se da un lato si possono capire le buone intenzioni dei parlamentari M5S, mai bisogna dimenticarsi che di buone intenzioni è lastricata la via che porta all’inferno…
D’altra parte, se si accetta come cardine il principio della “governabilità”, allora cari miei ha ragione Renzi. Egli infatti vi dirà: venite avanti ragazzi, vedo che vi siete applicati, e questo è bene. Tuttavia ancora non basta, perché il vostro sistema ci va vicino, ma per assicurare davvero la governabilità bisogna che la sera delle elezioni si conosca con certezza il vincitore, la maggioranza ed il capo del nuovo governo. Dunque: no alle mezze misure, sì o al ballottaggio o al premio di maggioranza, meglio a tutti e due messi insieme come nell’Italicum, una proposta che probabilmente modificheremo qua e là, ma senza venir meno a questo principio.
Non nascondiamoci che su questo il berluschino fiorentino ha davvero un ampio consenso popolare. Purtroppo è così. Decenni di martellamento sulla bontà del maggioritario e sulla “governabilità” non si superano facilmente, specie se si rinuncia a condurre la battaglia politica e culturale per la democrazia, il principio di rappresentanza e dunque per il sistema proporzionale.
E questo, detto con lo spirito di chi il M5S l’ha votato, di chi si augura che il Movimento superi positivamente le difficoltà emerse con il risultato delle europee, è il vero problema della proposta di legge da poco presentata dai deputati a Cinque Stelle.