Quella di oggi è stata una giornata di trattative più o meno segrete. Domani la controriforma costituzionale torna infatti al Senato, ed il capo del governo è assai meno sicuro di quanto la sua immagine spaccona gli impone di far credere.
Il tema ovviamente non è quello dell’approvazione prima o dopo la data indicata dell’8 agosto. Dopo l’otto viene il nove, e dopo agosto viene settembre. Figuriamoci se il furbastro andrà ad impiccarsi ad una data. Il problema è piuttosto quello di ciò che uscirà dal primo voto del Senato.
Gli obiettivi di Renzi
Per Renzi gli obiettivi dell’operazione messa in campo sono due. Il primo, immediato ed altamente simbolico per la sua immagine di “rottamatore”, riguarda il nuovo Senato. Nella sua ottica non è tanto importante la sua composizione – quanti sindaci, quanti rappresentanti delle Regioni, quanti nominati dal presidente della repubblica – l’importante è che non sia più elettivo. La natura propagandistica di questo accanimento è del tutto evidente. I senatori e il loro lauto stipendio è quanto gli serve per dimostrare che quando parla di “rottamazione” non si riferisce solo alla Concordia, che comunque si è premurato di andare ad accogliere buffonescamente nel porto di Genova.
Il secondo obiettivo è più sostanziale e si chiama legge elettorale. Una legge dalla quale Renzi si aspetta legislature stabili per il Pd, cioè in primo luogo per se stesso. Il tutto grazie al restringimento di ogni spazio democratico, alla marginalizzazione delle opposizioni, alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Un’offensiva anti-democratica già ben delineata nel progetto di controfirma costituzionale in discussione al Senato.
E’ evidente quanto gli obiettivi sostanziali e quelli propagandistici della strategia renziana siano legati tra loro. Da una parte c’è un disegno autoritario che, partendo dalla controriforma istituzionale ora in discussione, avrà il suo compimento decisivo nella legge elettorale; dall’altra c’è un trofeo da brandire populisticamente, specie nel momento in cui i nodi economici ed i diktat dell’Europa renderanno la sua popolarità assai più malferma di oggi.
Proprio perché ben conscio che così stanno le cose, il golpista del Quirinale è già entrato a gamba tesa nel dibattito in corso sulla controriforma costituzionale, premurandosi di dire che non si deve in alcun modo parlare di “svolta autoritaria”. E perché mai non si dovrebbe? Si vuole imporre un Senato non elettivo, si vuol rendere praticamente impossibile l’indizione di referendum popolari, si vuole rendere altrettanto impraticabile il già debole strumento delle “leggi di iniziativa popolare”, e non si dovrebbe denunciare un simile attacco anti-democratico? Ma per favore.
Il problema, dal punto di vista della democrazia, non è il superamento del bicameralismo in sé. Il problema, come già avvenuto per le province, è la trasformazione del Senato in assemblea non elettiva pur essendo sempre dotata di poteri non secondari – dalla piena competenza in materia di riforme e leggi costituzionali, alla partecipazione all’elezione del presidente della repubblica.
Siccome il battage sulle riforme istituzionale è in auge da un quarantennio, è il caso di rileggersi come rispose Umberto Terracini al giornalista del settimanale Epoca che lo intervistava sul tema il 28 marzo 1974 (!). Chiede l’intervistatore Paolo Ojetti: «Senatore, da molte parti si dice che Camera e Senato siano un’inutile duplicazione…». Ed ecco la fulminante risposta di Terracini: «Se lei ha pronto un pezzo di carta per l’abolizione del Senato, gliela firmo subito».
Per l’abolizione, non per la sua non elettività, che peraltro all’epoca nessuno proponeva. Oggi, al contrario, è l’ipotesi dell’abolizione ad essere stata accantonata, per far posto ad una confusa “riforma” che sembra avere l’unico punto chiaro proprio nella non elettività dei suoi membri. Quel che si intende abolire non è dunque un’istituzione “superata”, quel che si intende davvero cancellare è solo quel poco di democrazia esistente.
Quanto è forte la minaccia delle urne?
Siccome l’opposizione al progetto controriformatore del governo è fortissima e trasversale, siccome dal voto del Senato potrebbero arrivare diverse sorprese, è opinione diffusa che Renzi potrebbe alla fine scegliere la strada delle elezioni anticipate.
E’ da escludere una simile eventualità? No, anche perché potrebbe far gioco scaricare sui senatori la colpa della perdurante stagnazione economica. Insomma, davanti ad un Pil che non cresce e –peggio – di fronte ad una nuova pesante manovra da realizzare in autunno, meglio dare la colpa a Corradino Mineo ed a Vannino Chiti, piuttosto che a Jean Claude Juncker o ad Angela Merkel.
Detto così verrebbe quasi da scommettere su una simile eventualità. Il tipo è più spregiudicato e populista del suo compagno di merende ai servizi sociali. E poi, cosa c’è di meglio che aggirare le difficoltà che non si riescono ad affrontare? E’ chiaro che una simile mossa del cavallo non avrebbe comunque alcun respiro strategico, ma l’ex sindaco di Firenze vive alla giornata e punta molto sul fattore fortuna. Il problema per lui è un altro, e sta in alcune controindicazioni immediate all’azzardo delle urne.
Quali sono queste controindicazioni? Tenendo conto che se voto sarà, lo si dovrà fare con la legge uscita di fatto dalla sentenza della Corte Costituzionale del dicembre scorso (un proporzionale con soglie di sbarramento al 2 ed al 4%, con una preferenza), esse sono così riassumibili:
1. Questo sistema, anche in base ai risultati delle europee, non darebbe la maggioranza assoluta al Pd, e neppure al centrosinistra nel suo insieme. Viceversa, il Pd perderebbe la maggioranza assoluta di cui gode sostanzialmente oggi alla Camera dei deputati, anche grazie ai transfughi di Sel.
2. Anche Renzi sa perfettamente che il risultato delle europee è difficilmente ripetibile, altro non fosse che per l’elevata astensione registratasi a maggio. E un passo indietro, anche modesto, certo non gli darebbe più forza nelle difficili trattative – per la formazione del nuovo governo, per riprendere il tragitto delle riforme costituzionali e della legge elettorale – che si aprirebbero subito dopo.
3. Quasi certamente si dovrebbe andare verso nuove “larghe intese” comprendenti Forza Italia, che potrebbe rivelarsi decisiva per formare un nuovo governo. Cosa farebbe Renzi a quel punto? Due le opzioni: un nuovo governo a termine, dopo quelli di Monti, Letta e dopo il fallito Renzi 1, oppure un governo di legislatura con i berluscones ben più in vista di quanto lo siano oggi gli alfaniani. Come si può ben capire, due ipotesi una più disastrosa dell’altra per le mire e l’immagine del bullo alloggiato a Palazzo Chigi.
4. Andare al voto anticipato dopo neppure un anno di governo, non darebbe forse l’immagine di un leader se non sconfitto di certo piuttosto azzoppato? Molti lo hanno votato anche in nome di una “stabilità” che ben poco si coniuga con il ricorso al voto anticipato. Specie se questo promette nuove convulsioni.
5. Avremmo infine un piccolo paradosso: il “rottamatore” di senatori, colui che si presentò a Palazzo Madama con le mani in tasca, chiedendo agli occupanti di quegli scranni di organizzare alla svelta un bel suicidio collettivo, avrebbe finito per rimandare a votare gli italiani anche per rieleggere 315 odiatissimi senatori. Non suonerebbe già questo come un chiaro segno di fallimento della strategia renziana?
Tutte queste ragioni escludono l’azzardo delle elezioni anticipate? No, specie se le cose dovessero prendere davvero una brutta piega per Renzi. Ma siccome il tipo è furbo, questa opzione sarà solo l’arma d’ultima istanza. Un’arma che Renzi per primo sa di dover maneggiare con cura, visto che potrebbe esplodergli in mano. Anche perché possiamo immaginarci quali sarebbero sia le reazioni dell’Europa (avremmo tra l’altro la crisi durante il semestre di presidenza italiana), sia quelle dei nostrani potentati economici, interessati ad incassare alla svelta le famose “riforme”, specie quelle sul mercato del lavoro.
Dunque, se è vero che nulla può essere escluso, anche perché molto dipenderà dagli eventi delle prossime settimane, la minaccia del ricorso al voto anticipato appare oggi per quel che è: l’esibizione sfrontata di una pistola in realtà scarica. Se non proprio un segnale di impotenza, di certo non un grande segno di forza.