L’embargo è il punto cruciale

L’attacco israeliano a Gaza ha condotto ad un ulteriore terribile massacro, uno dei tanti della storia del colonialismo sionista. Ma, al di là della condanna morale, qual è il risultato politico?

1. Obiettivi di guerra di Israele

Israele non ha mai parlato chiaramente degli obiettivi della sua guerra. Forse addirittura non li ha neppure chiariti a se stesso. In generale si trattava di indebolire la resistenza e Hamas, cavalcando un’onda di sciovinismo sionista che si è impossessato di una vasta maggioranza  della società israeliana. Fin dall’inizio l’obiettivo massimo, l’annientamento della resistenza armata, è stato irrealistico e quindi non dichiarato. La distruzione di numerosi sistemi di gallerie è servita sia come giustificazione sia per l’attacco che per la sua cessazione.

In ogni caso, una valutazione accurata del risultato della guerra deve prendere in considerazione il suo straordinario carattere asimmetrico.

2. La resistenza si è rafforzata

La distruzione di Gaza è stata massiccia. Ci sono stati migliaia di morti e feriti. La miseria umana è inimmaginabile. Quindi non c’è ragione per il trionfalismo.

Tuttavia, alla fine, la resistenza militare non ha ceduto. Lo stallo prolungato sta giocando a favore della parte più debole. Così Hamas si ritrova politicamente rafforzato.

Inoltre oggi Hamas è forse l’unica ramificazione dell’Islam politico sunnita che non ha reciso tutti i legami con Islam politico sciita, nonostante il fatto che ha partecipato alla guerra civile siriana. La questione palestinese continua ad unificare mentre il settarismo divide la resistenza.

3. L’embargo

Il vigente cessate il fuoco non è fondato su un vero e proprio accordo. Almeno si è parlato di allentare il blocco. Il ministro degli esteri degli Stati Uniti si è espresso in tal senso e c’è stata un’azione simbolica, come l’allargamento della zona di pesca. Secondo i rapporti, un soccorso umanitario ha potuto raggiungere la Striscia.

Ma lo status del confine è soggetto a cambiamenti, anche molto veloci. Molto dipende dagli umori dei vertici egiziani, che si sono schierati con Israele in un modo che non ha precedenti.

Quindi  anche per il futuro il focus del conflitto ruoterà intorno all’allentamento e alla revoca del blocco globale contro Gaza e, questione collegata, al riconoscimento politico della resistenza palestinese guidata da una forza islamica.

4. Costi per Israele e ordine regionale

Israele crede di essere in grado di conseguire l’isolamento, senza compromessi, della resistenza palestinese. Ma una politica di terra bruciata fa incorrere in costi. Sul più lungo periodo il potenziale della resistenza si sta accumulando e una contro-reazione diventerà inevitabile: l’inimicizia totale delle masse popolari palestinesi, arabe e islamiche; il logoramento del credito presso l’opinione pubblica occidentale, data la manifesta contraddizione rispetto al discorso democratico predominante; infine la svolta per quanto riguarda l’interesse regionale degli Stati Uniti, sotto pressione della classe dirigente stessa.

Ma è ovvio che tali cambiamenti graduali non sono sufficienti a causare una rottura con la linea del sionismo radicale. Lungo i decenni le relazioni USA-Israele sono diventate troppo organiche, simili già ad una sorta di fusione. Solo una alterazione qualitativa del rapporto globale di forze a scapito della leadership degli Stati Uniti può portare un cambiamento. Le tendenze sotterranee ci sono e sono pure identificabili. Tuttavia occorre un evento scatenante, una rottura, una sorta di rivoluzione per cambiare realmente la struttura globale di potere. Ad esempio, un nuovo crollo economico globale potrebbe servire come causa scatenante di un tale evento.

5. La fine della primavera Araba attraverso il conflitto confessionale

Il tempo della resa dei conti con l’ordine degli Stati Uniti nella regione, nel 2011, sembrava avvicinarsi.  Le masse popolari alla fine si mossero contro il vecchio ordine. Si verificò un’ondata potente, una tempesta vera e propria che sembrava inarrestabile. I tiranni cominciarono a tremare e cadere.

Israele, che si autodefinisce “unica democrazia del Medio Oriente”, ha fatto tutto il possibile per difendere le dittature. Nel frattempo Washington era consapevole della necessità di un rinnovamento dei vecchi regimi, integrando le forze che avessero un seguito di massa, anche al prezzo di una ulteriore perdita di influenza.

Ma i movimenti democratici sociali popolari, il movimento Tahrir arabo non è riuscito a risolvere il suo rapporto con l’Islam politico, con la storica tendenza di opposizione sia al nazionalismo arabo e allo stesso tempo ai regimi filo-imperialisti, che spesso sono prodotti della decadenza e della trasformazione del primo.

Il movimento Tahrir,  compresa  la sinistra araba storica, non è riuscito a sviluppare la chiave per incidere sul potenziale dell’Islam politico contro le élites. (Se questo sia possibile o no, non si può  stabilire a priori ma deve essere verificato in pratica. Ma nessun tentativo sistematico è stato intrapreso.) C’è un tipo di laicità elitaria all’interno dello sinistra storica che senza dubbio ha avuto la sua parte nella sconfitta. In un certo senso la laicità, agendo come una setta politicizzata, si è trasformata in una confessione.

L’islamismo ha preferito la (difficile) cooperazione con le vecchie élites piuttosto che l’attacco a testa alta, che avrebbe richiesto un ampio fronte per andare oltre il suo ambiente culturale,  comprendendo anche il movimento Tahrir. Quando l’islamismo ha iniziato a diventare il centro del sistema politico, ha definito  il movimento Tahrir addirittura come suo principale nemico. La Fratellanza Musulmana si è dimostrata incapace di affrontare l’eterogenea opposizione di massa, che  ha aiutato a sorgere. Completamente disposti a cercare un compromesso, hanno spianato la strada al sanguinoso colpo di stato militare che alla fine ha distrutto l’intera primavera araba. La Fratellanza, variante moderata del salafismo in termini di metodi utilizzati, in questo modo si è scavata la fossa.

Con un modello simile, la rivolta sociale democratica in Siria è sprofondata in un conflitto settario. Per reprimere qualsiasi domanda democratica il regime ha avviato una escalation confessionale armata. Il jihadismo, la versione radicale del salafismo, ha potuto salire al punto più alto di potenza e di espansione. L’intera regione è imprigionata in questa guerra civile confessionale. Il jihadismo sunnita è destinato alla fine a fallire per la mancanza di consenso, ma la sua sconfitta comporta il pericolo della restaurazione del vecchio ordine.

Per riassumere: siamo di fronte alla scomparsa del vecchio ordine, compresi anche i confini coloniali del patto Sykes-Picot, che significa anche una perdita di controllo occidentale. Ma d’altra parte la guerra settaria intestina paralizza la resistenza anti-imperialista e permette a Israele di continuare come se nulla fosse accaduto.

Dieci anni fa i neocons proclamarono il “caos creativo”. Obama ha applicato il freno di emergenza, ma era già troppo tardi. Il caos c’è, ma per la potenza egemone globale è tutt’altro che creativo. Ma finché gli arabi si tengono essi stessi sotto controllo, Israele rimane l’unico punto di riferimento imperiale e mantiene così le mani libere.

Guai a Israele se un giorno diventerà possibile dare al caos una svolta unificante anti-imperialista.


Traduzione di Maria Grazia Ardizzone