Nessuno degli attori regionali e globali vuole che l’autogoverno curdo nel nord della Siria sopravviva!
Dallo scorso 16 settembre l’ISIS sta attaccando la città di Kobane, capitale della provincia di fatto autonoma ed auto-amministrata dai curdi siriani, a loro volta alleati del regime di Assad, e che quindi l’ISIS considera una spina nel fianco. Torneremo su questa intricata vicenda. Pubblichiamo qui sotto il punto di vista di Wilhelm Langthaler.
Il ruolo determinante è stato giocato dalla Turchia: su Kobane Ankara ha l’ultima parola. Il calcolo turco è evidente. Se Rojava (questo è il nome dell’area controllata dai curdi – ndr) tiene, ciò costituirebbe un precedente, rafforzando enormemente il PKK. La pressione su Ankara per concedere una sostanziale autonomia anche ai suoi milioni di curdi aumenterebbe massicciamente.
Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno spingendo la Turchia, stato pilastro per la NATO, perché si unisca alla loro alleanza contro lo Stato islamico (IS), individuando quindi i jihadisti come nemico principale nella guerra civile regionale. La campagna aerea degli Stati Uniti sta trasformando Assad nel male minore, promuovendo potenzialmente il suo regime a livello di un partner.
Questo è però inaccettabile per il governo dell’AKP della Turchia. Per loro Assad rimane sicuramente il nemico principale. Essi hanno legato il loro destino al rovesciamento del loro ex alleato e ritengono di non potersi permettere un passo indietro. Ankara ha chiaramente dichiarato che non accetterà di indebolire l’IS senza mettere le mani su Assad. E’ evidente anche a loro che i “ribelli moderati” non sono solo emarginati: in fin dei conti sono un fantasma. E’ stata proprio la Turchia che ha contribuito a distruggere l’opposizione democratica modellata sul movimento Tahrir, guidando la spirale del militarismo settario che logicamente conduce al Jihad. (Il conflitto siriano sta avendo una grave ricaduta sullo stesso AKP, che ha assunto un profilo più settario e autoritario smantellando l’alleanza con parti della borghesia liberale) (1)
Per non respingere apertamente la richiesta di Washington, Erdogan ha istituito un contingente di difesa e una zona di non volo in territorio siriano, cioè un progetto altamente aggressivo che non è una novità ma che sta sicuramente cercando di spostare l’attenzione dall’IS su Assad come obiettivo principale. Per farlo Ankara ha bisogno del sostegno politico e, alla fin fine, anche militare da parte degli USA, che però non vogliono estenderlo.
Dall’inizio del conflitto Washington è stata riluttante a venire direttamente coinvolta in una guerra che potrebbe essere senza fine. Truppe turche sul suolo arabo potrebbero aggiungere un nuovo aspetto alla complicata e contraddittoria configurazione della guerra civile regionale, aiutando ulteriormente Assad a riconquistare presa politica.
Gli Stati Uniti, di fatto, hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di abbattere Assad e hanno abbracciato il progetto di costringere il suo regime ad una soluzione politica. Ora si tratta di mettere in piedi un contrappeso politico e militare in grado di occupare il vuoto che potrebbe aprirsi a seguito dell’indebolimento dell’IS da parte della pesante campagna aerea. Finora la creazione di una forza fantoccio occidentale ha dimostrato, tuttavia, di essere come la quadratura del cerchio. Qualsiasi tentativo di sostenere le forze anti-Assad è finito nelle incontrollabili mani jihadiste. Anche se l’impatto dei bombardamenti statunitensi sarà senza dubbio avvertito sul terreno, la sua traduzione in campo politico è sconosciuta ed incerta. Senza una forte operazione politica che comprenda le potenze regionali, tutto è destinato al fallimento. La posizione di Ankara per mantenere IS e jihadismo come fattore di equilibrio contro Assad sta riflettendo queste difficoltà. D’altro canto, però, la Turchia non può totalmente ignorare gli interessi statunitensi o addirittura andare contro di essi.
Pertanto le avanzate militari di Erdogan hanno avuto un carattere prevalentemente politico. Anche per il governo dell’AKP soldati turchi sul suolo siriano comporterebbero problemi incalcolabili:
a) Lasciar morire Rojava danneggerà gravemente il processo di pace con i curdi in Turchia. L’agitazione è programmata e si sta già sviluppando. L’AKP, però, ha bisogno dei curdi per mantenere l’opposizione interna sotto controllo.
b) In un modo o nell’altro la componente curda sarà necessaria per una coalizione siriana che cooperi con l’alleanza degli Stati Uniti contro l’IS. Anche se la Turchia sta cercando di indebolire il PYD/PKK, non si può quindi permettere il suo annientamento totale in Siria.
c) Un intervento militare porterebbe a un confronto con l’IS, con conseguenti ripercussioni significative nella stessa Turchia. La guerra civile siriana si estenderebbe in Turchia in misura molto maggiore di quanto accade già adesso.
d) Già oggi la maggior parte degli elettori dell’AKP mantiene una scettica distanza da un diretto coinvolgimento militare della Turchia. Problemi all’interno del blocco dominante saranno inevitabili nel caso di un’invasione vera e propria.
Cosa si può fare?
Il PYD/PKK prima di tutto chiede sostegno militare. Questo è comprensibile in quanto per esso è una lotta di vita o di morte. Ma nessuna potenza significativa è pronta a fornire tale aiuto. E qualsiasi intervento imperialista va rifiutato e combattuto (2). L’eroica resistenza armata da parte dei curdi contro un nemico superiore è quindi un segnale politico. Ogni loro avanzata causa problemi politici in Turchia.
Il principale interlocutore per la questione dei curdi siriani è la società turca: è necessario da un lato il pieno supporto per una forte autonomia curda in Turchia, che includa e riconosca il PKK, senza eluderlo come Erdogan ha intenzione di fare. D’altra parte è necessaria una piattaforma ampia per un cambiamento radicale della politica turca verso la Siria. L’obiettivo deve essere una soluzione democratica e sovra-confessionale e non una replica del modello del conflitto siriano, che minaccia di distruggere anche la Turchia. (Il blocco islamico sunnita guidato dall’AKP da un lato; il blocco Alevita kemalista con elementi di sinistra guidati dal CHP sul lato opposto).
Per l’Europa e la Germania lo slogan principale è quello di porre fine alla messa al bando imperialista del PKK.
In definitiva una soluzione per la Siria è cruciale. Oggi negoziati non sono possibili per entrambe le parti, che si radicalizzano sempre di più e vanno verso una soluzione esclusivamente militare. E’ quindi una impotente astrazione invitarle semplicemente a tornare al tavolo dei negoziati.
Il compito è quello di costruire un polo politico per riunire quei segmenti di società pronti ad un depotenziamento del confessionalismo e ad una democratizzazione che comprenda una dose ben temperata di condivisione del potere confessionale. Nucleo di un tale tentativo sarà la storica sinistra democratica insieme a quanto resta dello sconfitto movimento Tahrir siriano.
Un fianco deve esser formato da elementi dell’Islam sunnita provenienti dagli Ulema, dagli ordini Sufi e anche dall’islamismo politico, come la Fratellanza Musulmana o suoi elementi. La radicalizzazione confessionale e l’impulso verso il jihadismo li stanno divorando. L’altro fianco dovrebbe essere costituito da elementi del blocco sociale che alimentano il regime, come laici, democratici borghesi liberali, l’elite sunnita degli affari come pure dai settori illuminati delle minoranze confessionali, consapevoli che la trasformazione confessionale di un regime è un vicolo cieco storico. Messa in modo diverso: l’incorporamento della milizia Shabiha nelle Forze di Difesa Nazionale (NDF) apre la strada alla insopportabile Shabihaizzazione del regime stesso.
Tutte le suddette forze esistono all’interno della società siriana, anche se hanno perso rappresentanza politica. Oggi solo le forze che possiedono armi sono in grado di mantenere la loro presenza. Inoltre tutti gli attori regionali e internazionali sono in bilico nei confronti di un progetto democratico e popolare. Tutte le forze antisistemiche in occidente devono dare il loro sostegno a qualsiasi tentativo di costruire e promuovere un polo di opposizione democratica e sociale in Siria.
Traduzione di Maria Grazia Ardizzone
Note
1) Erdoǧan‘s electoral victory and the end of Turkey as a role model