Quanto è accaduto a Roma in uno dei quartieri dell’estrema periferia, per la precisione Tor Sapienza, è da giorni al centro del dibattito pubblico.

Una folla imbestialità di autoctoni si scaglia contro un edificio in cui sono stipati dei giovani immigrati in attesa di ottenere lo status di profughi politici. Hanno chiesto, e alla fine ottenuto, che venissero allontanati con la forza dal quartiere.

Politici, giornalisti, intellettuali, si sono subito divisi in due schieramenti contrapposti: da una parte la sinistra liberale (affiancata da quella “radicale”) che ha condannato la piccola sommossa come razzista, dall’altra la destra liberale (spalleggiata dai cascami neofascisti) che l’hanno demagogicamente coccolata e giustificata.

Si deve rifuggire da questa pantomima bipolare (razzismo-antirazzismo) se si vuole davvero capire e dare un giudizio.

Che si sia trattato di un tumulto xenofobo, non v’è dubbio — uno dei tanti che attraversano l’Europa, dalla Spagna alla Russia, dalla Francia alla Svezia. Nè può esservi dubbio che la xenofobia sia una brutta bestia. Lo è sul piano sul piano politico prima ancora che su quello etico-morale. La xenofobia sta diventando il carburante, il cavallo di battaglia, di forze a vario titolo reazionarie le quali, se un giorno salissero al potere, in barba alle loro professioni “democratiche”di fede, una volta edificato un sistema di segregazionista e di “pulizia etnica”, imporrebbero un regime politico autoritario e sicuritario, liquidando le ultime vestigia dello Stato di diritto.

Certo che occorre sbarrare la strada a queste forze! Ma per farlo occorre compiere due mosse preliminari: (1) tenersi alla larga dalla sinistra liberale e, (2) tenere distinti il cavallo dal cavaliere.

Per capire quanto accaduto a Tor Sapienza, occorre comprendere cos’è accaduto a questo quartiere negli ultimi decenni. Nata come borgata dormitorio modello essa ha subito, come tante altre periferie metropolitane, un graduale e crescente processo di “degrado”. “Degrado” sta ad indicare un doppio e parallelo fenomeno: da un lato l’abbandono da parte delle istituzioni, dall’altro lo spappolamento sociale. Alla base di entrambi stanno le politiche neoliberiste, portate avanti dai due blocchi bipolari. I tagli crescenti alla spesa pubblica hanno deviato verso la finanza speculativa le risorse che prima affluivano anche verso il basso. Meno scuole, meno asili nido, meno presidi sanitari, meno luoghi di socialità, meno trasporti pubblici, ecc.

Il sopraggiungere, dopo il 2008-09, della grande crisi economica, con l’aumento della disoccupazione, il crollo dei redditi da lavoro dipendente, l’impoverimento dei ceti medi, hanno causato il dilagante aumento dell’esclusione sociale.

Il combinato disposto delle politiche neoliberiste e della più grave crisi economica dal dopoguerra si è abbattuto anzitutto sulle periferie metropolitane, trasformate in vere e proprie pattumiere sociali, dove sono stati appunto gettati, ammucchiati e abbandonati, gli “esclusi”, gli emarginati a vario titolo, i reietti sociali.

In queste pattumiere si sfasciavano e frantumavano le tradizionali appartenenze cetuali e ideologiche. Il risultato di questa caotica decomposizione è una paccottiglia sociale (certa sinistra radicale preferisce l’anglicismo: melting pot) entro la quale, tuttavia, si riproduceva necessariamente — proprio come avviene nelle galere — una gerarchia, una stratificazione interna.

Ma mentre nelle prigioni è proprio l’autorità carceraria che si fa garante del rispetto delle gerarchie che si stabiliscono tra detenuti (dove gli immigrati prigionieri e i tossici sono il gradino più basso mentre sopra stanno mafiosi e criminali veri), nelle caotiche periferie degradate vale la legge della giungla, l’assenza dello Stato lascia che la lotta per stabilire il rango dei diversi ceti avvenga in base alla regola del più forte. Si stabilisce tra i forti un equilibrio, una instabile pace armata. La tensione si scarica quindi verso i più deboli, che è tuttavia la modalità che decide del rango dei forti. Accade così che coatti, delinquenti e attaccabrighe incarogniti (quelli che una volta si chiamavano “sottoproletari”), possano fungere da condensatori della polvere d’umanità fino a prendere la testa della folla inferocita.

Una modalità già ben nota nelle periferie nord-americane, francesi, inglesi, dove la guerra tra le diverse comunità nazionali, linguistiche, etniche e religiose, con il beneplacito delle autorità, ha condotto alla reciproca segregazione e alla costituzioni di ghetti etnicamente omogenei.

In Italia, dove l’immigrazione di massa è fenomeno recente siamo solo agli albori di questo fenomeno. E’ da vedere se da noi, al caos seguirà un compiuto ordine segregazionale su basi etnico-linguistiche. Forse, dato il generale sfascio sistemico, non ce ne sarà né il tempo né lo spazio. Forse al piccolo caos seguirà il grande caos.

Un grazie, comunque, vogliamo tuttavia rivolgerlo agli italiani di Tor Sapienza. La loro “indecente” ribellione da la misura di cosa si agita nelle viscere della società. Essi riportano certe anime belle coi piedi per terra. Ci riportano il governo, i partiti parlamentari, tanti sapientoni imborghesiti, le cui baruffe appaiono sideralmente distanti dalle istanze di milioni di cittadini precipitati sotto la soglia della povertà.

Per quanto in modo distorto e in forme ripugnanti questi cittadini chiedono giustizia sociale, gridano contro un sistema che li ha gettati ai margini, che li ha dimenticati, e chiedono se avere cittadinanza abbia ancora un qualche significato. Ciò che li muove è la sensazione di essere dei plebei che stanno precipitando verso la schiavitù, e proprio come plebei inferociti se la prendono contro gli intrusi di altra lingua e con la pelle di altro colore, invocando l’appoggio dei patrizi e delle loro autorità.

Non si deve confondere questa rivolta dal basso malgrado le sue forme xenofobe, con il lavoro sporco di leghisti e neofascisti, che aizzano i plebei non contro chi comanda ed il loro sistema, bensì contro chi sta più in basso di loro in difesa del sistema.

Occorre andare incontro alla rabbia popolare, spiegare le vere cause dei loro patimenti, indicare chi sia il loro vero nemico, non solo la “casta” ma il sistema economico neoliberista e globalista; quindi affermare che si esce dal marasma solo con una radicale svolta politica che riconsegni al Paese ed al suo popolo la sovranità, ceduta da una classe dirigente di venduti, agli Usa, alle aristocrazie finanziarie, all’Unione europea. Occorre un governo che metta al centro la difesa delle istanze popolari e combatta, invece di servire, le minoranze dei ricchi. Sarà possibile con uno Stato che userà le sue risorse per il bene comune.

Un simile governo, se sostenuto dalla maggioranza dei cittadini, avrebbe non solo il diritto ma la forza, di sfidare i potenti e sganciarsi dal sistema globale di capitalismo-casinò dominato dalle consorterie della grande finanza. L’Italia che vogliamo è un Paese indipendente che cesserà di far parte di alleanze imperialistiche come la NATO, quindi di soggiogare e vampirizzare altri popoli e nazioni per poi fargli guerra in caso di resistenza.

Un simile Paese sovrano avrebbe pieno diritto a proteggersi, ponendo dei limiti alla libera circolazione di capitali e di merci. Dovrebbe anche stabilire norme certe che regolamentino i flussi migratori diretti al suo interno. Fatta eccezione per i richiedenti asilo politico potrà entrare nel Paese solo chi abbia un visto d’ingresso. Che esso debba essere concesso prima dalle ambasciate (oggi covi di corrotti che concedono visti a chi paga bustarelle, ciò che favorisce proprio la malavita) o alla frontiera, ciò dipenderà dagli accordi bilaterali tra stati.

E’ vero o no che il capitalismo globalista, in nome del Dio denaro, vuole abbattere gli Stati e spianare le nazioni per poter far scorazzare liberamente le sue forze demoniache e schiavizzare i popoli? Certo che è vero! Fino a quel momento ogni popolo ha pieno diritto all’autodifesa.

da sollevAzione