Uno Stato in bancarotta, sempre più dipendente dagli aiuti internazionali, un crescente rifiuto della campagna di coscrizione, la sfiducia prima della disfatta

(Nella foto quel che resta dell’aeroporto di Donetsk)

La tregua tra l’esercito di Kiev e i separatisti del Donbass, iniziata formalmente nel settembre 2014 a seguito della controffensiva di agosto da parte dei ribelli, è ufficialmente terminata in questo mese di gennaio 2015. Nell’est dell’Ucraina si combatte ormai da oltre 250 giorni; i 90 giorni di tregua avevano cristallizzato le posizioni, ma non gli scambi di colpi di artiglieria. Da due settimane le truppe si muovono di nuovo con evoluzioni decisive dello scenario militare.

L’aeroporto internazionale Prokofiev di Donetsk, uno scalo moderno costruito per gli Europei del 2012 e ormai ridotto a un mucchio di macerie, diventato il luogo simbolico della guerra e il centro di una battaglia quasi di trincea andata avanti per mesi, è stato alla fine riconquistato dai ribelli filorussi.

I ribelli hanno inoltre lanciato un’offensiva su Mariupol; il porto sul Mar Nero rappresenta un obbiettivo di rilevanza strategica visto che la striscia di costa di cui Mariupol è il centro maggiore potrebbe in futuro ristabilire la continuità territoriale tra la Crimea e la madre Russia attraverso le Repubbliche amiche e filorusse del Donbass. Mariupol ha anche un valore simbolico in quanto la città era già insorta contro Kiev il 9 maggio 2014, quando le immagini dei civili giustiziati in strada dalle truppe inviate dal governo golpista di Yatseniuk, mai mostrate dai media occidentali, avevano agghiacciato il mondo russofono.

La città di Debalstevo, considerata una roccaforte dell’esercito ucraino lungo il fronte di guerra, è oggi accerchiata dai ribelli filorussi e non più sotto il pieno controllo dell’esercito di Kiev. Colpi di artiglieria hanno colpito la scorsa settimana il centro abitato causando diverse vittime civili, l’esercito e i ribelli si sono reciprocamente accusati della responsabilità della nuova strage. Oggi i civili sono stati in parte evacuati mentre informazioni non confermate, ma rilanciate anche da alcuni osservatori occidentali, parlano di migliaia di soldati ucraini intrappolati, molti dei quali sarebbero già stati costretti alla resa.

Le difficoltà dell’esercito ucraino, secondo la propaganda ufficiale di Kiev, sono dovute al coinvolgimento diretto (e mai provato) di truppe meccanizzate regolari russe nel Donbass. Questa versione ufficiale del Governo è stata però smentita la scorsa settimana dal Capo di Stato Maggiore delle forze armate ucraine Victor Muzenko, il quale ha confermato la presenza di volontari russi irregolari, ma non quella delle truppe di Mosca. Muzenko di fatto ha avvalorato la versione di Putin, si direbbe non per un improvviso slancio di sincerità ma più probabilmente per lanciare un messaggio polemico al proprio governo sull’insensatezza di questa guerra e le scarse probabilità per gli ucraini di uscirne vincitori.

Messaggi altrettanto disfattisti sembrano arrivare anche dai vertici dei neonazisti del battaglione Azov i quali, in aperta polemica con Poroshenko, hanno dichiarato che le forze ucraine sono sul punto di capitolare. Gli ultranazionalisti, di cui il suo governo si è ampiamente servito, lo giudicano ora un leader debole, principale responsabile della possibile disfatta, inscenano manifestazioni sotto i ministeri e lo spettro di un secondo golpe, più oltranzista del primo, rappresenta un’ipotesi reale in caso di sconfitta. Infine Poroshenko è costretto a fare i conti anche con le crescenti proteste dei cittadini contro la campagna di coscrizione e la sfiducia degli ucraini verso uno Stato in bancarotta e sempre più dipendente dagli aiuti internazionali.

Sul fronte separatista la propaganda parla di una nuova campagna di reclutamento per portare gli effettivi fino a 100000 uomini (dagli attuali 45000), cifra probabilmente esagerata considerando la demografia del Donbass e che difficilmente  potrebbe essere raggiunta senza l’arrivo di ingenti guarnigioni, regolari o meno, dalla Russia. Anche per i ribelli i problemi non mancano: primo fra tutti la devastazione e la crisi umanitaria, l’assenza di viveri, elettricità e medicinali nelle principali città dell’est, ridotte allo stremo e sostenute principalmente dagli aiuti provenienti da Mosca.

Obama sta valutando l’invio di altre armi a Kiev, l’inasprimento dell’embargo (il provvedimento è già stato avallato il mese scorso dal Congresso) e ha già spostato 200 paracadutisti da Aviano e Vicenza in Ucraina in missione di addestramento. I paracadutisti americani troveranno lì i loro connazionali dell’Academi, ex-Blackwater: mercenari statunitensi già attivi in Iraq e impegnati operativamente in Ucraina dall’inizio del conflitto (e immortalati per errore in questo video la scorsa settimana, in cui alla richiesta dell’intervistatrice il militare ucraino risponde in inglese madrelingua).

In Ucraina, dalla ripresa delle ostilità, il numero di morti si aggira sui 25 al giorno, uno ogni ora, e la nuova tappa dei negoziati di Minsk per ristabilire la tregua mettendo al tavolo ucraini, separatisti e l’OSCE, è saltata la scorsa settimana. I ribelli si rifiutano di interrompere per primi i combattimenti finché Kiev non avrà fermato gli incessanti bombardamenti verso i centri abitati delle Repubbliche Popolari. I filorussi vogliono evitare quanto successo già in settembre, quando la tregua aveva concesso respiro a Kiev durante una fase militarmente avversa.

L’inverno russo ha condotto alla disfatta ben altri eserciti nel corso della storia: l’impressione è che prima a Kiev se ne renderanno finalmente conto, meglio sarà per tutti.

da Megachip