L’accordo-bomba di Losanna e la Grande Guerra Mediorientale
L’accordo sul nucleare iraniano non è stato un fulmine a ciel sereno. L’intesa era nell’aria, ed i russi l’avevano annunciata da giorni. Tuttavia, basti pensare alla scomposta reazione di Netanyahu, il suo effetto è stato quello di una bomba. Su una cosa tutti i commentatori sono unanimi: quell’accordo parla del nucleare, ma la sua portata è in realtà ben più ampia. Cerchiamo di capire il perché.
Concentriamoci dunque su quattro punti: 1. il contenuto dell’accordo, 2. il suo significato geopolitico, 3. lo scontro interno all’establishment americano e le sue ricadute su Israele, 4. cosa cambia nel conflitto in corso in Medio Oriente.
1. Il contenuto dell’accordo di Losanna
L’accordo annunciato nei giorni scorsi a Losanna verrà perfezionato entro il 30 giugno prossimo, ma già se ne conoscono i punti principali. Vediamoli:
a) L’Iran dovrà ridurre di due terzi la propria capacità di arricchimento dell’uranio. Le centrifughe necessarie all’arricchimento, che potrà proseguire solo nella centrale di Natanz, verranno portate a 6.104, rispetto alle circa 19mila attuali. La centrale di Fordow – potenzialmente inattaccabile, perché costruita all’interno di una montagna – dovrà essere riconvertita e non potrà più arricchire uranio per 15 anni. Il reattore ad acqua pesante di Arak, ancora in costruzione, ma in grado di produrre plutonio se terminato, verrà demolito e trasferito all’estero.
b) Sempre per 15 anni l’arricchimento consentito, da realizzarsi solo con centrifughe di prima generazione, sarà del 3,67%. Questa percentuale di Uranio 235 è sufficiente ad ottenere combustibile per usi civili, non consentendone invece l’uso militare, che necessita di una percentuale minima del 20%, ma che nelle attuali bombe atomiche raggiunge anche un valore dell’85%. Sempre per lo stesso periodo, l’attuale stock di 10mila kg di uranio a basso arricchimento verrà ridotto a soli 300 kg.
c) Le centrifughe e tutte le strutture in eccesso verranno poste sotto il controllo della Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). L’Iran accetta le sue ispezioni, non solo nelle centrali di Natanz, Fordow ed Arak, ma in ogni altra struttura, dichiarata o non dichiarata che sia.
d) Le sanzioni adottate da Usa ed Ue verranno sospese, ma solo dopo la verifica (affidata all’Aiea) del rispetto degli impegni. In caso di mancato rispetto le sanzioni verrebbero ripristinate. Per dirimere le controversie è prevista una specifica risoluzione Onu. Da notare che resteranno comunque in vigore le sanzioni all’Iran legate a “terrorismo, abusi sui diritti umani, missili balistici”.
Il succo di queste norme è chiaro: l’Iran rinuncia all’atomica e ad una parte non secondaria della propria sovranità nazionale. Le grandi potenze, loro sì armate con migliaia di bombe nucleari, impongono questa scelta a Teheran, in un Medio Oriente dove Israele custodisce un arsenale di 400 ordigni atomici.
In termini tecnici, viene calcolato che se nelle condizioni di oggi Teheran avrebbe bisogno di 2/3 mesi per ottenere materiale fissile per costruire un’arma nucleare, con le nuove condizioni – qualora l’Iran decidesse di non rispettare più le clausole di Losanna – gli servirebbe comunque almeno un anno. Il tutto per un periodo di 15 anni.
2. Una svolta geopolitica (in primo luogo americana)?
Se il bilancio sulla “vertenza nucleare” è quello che abbiamo cercato sin qui di riassumere, ben più complesso è quello sul significato geopolitico dell’accordo. La rinuncia (almeno temporanea) al nucleare non ha soltanto la contropartita della, peraltro graduale, rimozione delle sanzioni. La Repubblica Islamica dell’Iran incassa infatti quel riconoscimento politico mai concesso dagli americani dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.
Dunque, non di solo nucleare si è trattato a Losanna. Se così non fosse non si capirebbero né i festeggiamenti di Teheran né la rabbia israeliana. Non che da adesso l’Iran e gli Usa diventino alleati, semplicemente con Losanna l’Iran non è più uno “stato canaglia”. E tanto basta ad indispettire i guerrafondai di Tel Aviv.
Difficile valutare appieno la portata di questa svolta, ancor più il suo effettivo consolidamento. Losanna è però il segno che qualcosa sta cambiando. Abbiamo già scritto nei giorni scorsi (leggi QUI) della complessa strategia adottata dagli Usa nell’attuale conflitto mediorientale. Una strategia che punta ad un sistema di alleanze a geometria variabile, nel quale c’è un posto anche per l’Iran, se non altro come partner della lotta contro il Califfato.
A Washington vogliono un Medio Oriente controllabile, dal loro punto di vista il più stabile possibile. E, soprattutto, vogliono un Medio Oriente senza potenze regionali troppo forti. Questa sorta di veto imperiale vale ovviamente per l’Iran, ma pure per l’Arabia Saudita. Da questa esigenza strategica discendono i periodici aggiustamenti tattici.
Non è certo la prima volta che Usa ed Iran si trovano dalla stessa parte della barricata. In Afghanistan gli iraniani non videro di certo male l’attacco al governo talebano. Ancor più, in Iraq, l’invasione americana – pur se condannata – fu vista da Teheran come un’occasione per conquistare una notevole influenza negli affari di quel paese. Poi è arrivato l’Isis, e sul fronte iracheno americani ed iraniani combattono lo stesso nemico. Ed è probabilmente quest’ultimo fatto quello che ha dato la spinta politica all’accordo di Losanna.
3. Lo scontro interno all’establishment americano
Ma l’establishment americano è tutto unito sulla linea di Obama? Certamente no, e se ne vedranno delle belle. A Washington è sempre esistita una corrente più disponibile verso l’Iran, ma fino ad oggi era sempre rimasta minoritaria. Ora l’accordo di Losanna dovrà passare al vaglio del Congresso, dove Obama non ha una sua maggioranza certa. E che i problemi non mancheranno ci viene confermato da quanto scritto da la Repubblica del 3 aprile:
«Il presidente americano ha lanciato un messaggio anche al Congresso: se farà naufragare l’accordo senza “effettive alternative”, gli Stati Uniti saranno responsabili per il fallimento della diplomazia. A stretto giro, la risposta del capo della commissione esteri del Senato americano, Bob Corker: spetta al Congresso l’ultima parola in qualsiasi accordo sul nucleare in Iran».
Ed è proprio al Congresso che Netanyahu, agli inizi di marzo, è andato a sfidare Obama giusto sulla questione delle trattative in corso a Losanna, con un intervento nel quale ha definito l’Iran «una minaccia per il mondo intero». Quel giorno la campagna elettorale israeliana era ancora in corso, ed i sondaggi prevedevano una sconfitta del premier israeliano. Un esito certamente auspicato dalla Casa Bianca. Sappiamo invece come è andata a finire. Ed ora, sia pure solo nel 2016, le urne si apriranno negli Stati Uniti, e niente esclude la vittoria di un candidato repubblicano più vicino alla precedente politica estera dei neocons di Bush.
Il fatto è che, al di là delle elezioni, la frattura nell’establishment americano è reale. Ed è su di essa che si esercita la sguaiata pressione di Israele. Ma qual è la differenza tra le due linee in campo?
Innanzitutto, ed a scanso di equivoci, ripetiamo quel che abbiamo sempre detto e scritto: la politica di Obama non è meno imperialista di quella di Bush, e questo è abbastanza ovvio. E non è neppure meno guerrafondaia, dato che al minor uso dei bombardamenti a tappeto preferisce la tecnica, criminale ma più “raffinata”, degli omicidi mirati con i droni. Detto in breve, si tratta di una politica che persegue gli stessi fini del suo predecessore, ma con altri mezzi.
Quali furono i punti deboli di Bush? Essenzialmente due: l’aver suscitato resistenze popolari impreviste, l’aver alimentato una “guerra di civiltà” rigettata dai quattro quinti dell’umanità. Bene, Obama, avendo imparato la lezione, ha cercato di evitare quantomeno il secondo errore. D’altronde, perché dichiarare guerra all’intero Islam, quando si può invece provare a dividerlo?
Dal punto di vista dell’imperialismo americano il bilancio della linea di Obama non è negativo, ma siccome non tutte le ciambelle riescono col buco, resta il problema di un quadro mediorientale che rischia di sfuggire di mano alla Casa Bianca. In altre parole, chi avrebbe previsto, solo due anni fa, l’esistenza di un autoproclamatosi Stato Islamico, grande quasi quanto l’Italia, a cavallo tra Siria ed Iraq? Tolti i complottisti, che sanno sempre tutto, specie a posteriori, la risposta è: nessuno.
E’ questo “piccolo dettaglio” la prima ragione della svolta geopolitica in corso, ma solo i fatti ci diranno se essa sarà sufficiente a contenere la controspinta ossessivamente anti-iraniana della lobby sionista israelo-americana.
4. Cosa cambia nel conflitto mediorientale?
Se davvero, come sembra, l’Isis viene assunto come nemico principale da parte americana le conseguenze non tarderanno a manifestarsi pienamente. Se in Iraq l’alleanza Usa-Iran è semplicemente un dato di fatto, ben più complessa è la questione siriana.
Ma anche su questo intricatissimo fronte un segnale di svolta è arrivato già il 15 marzo scorso. Intervistato dalla Cbs, il segretario di stato americano Kerry ha detto che: «Gli Stati Uniti devono negoziare con Bashar al Assad per porre fine al conflitto in Siria entrato nel quinto anno». Per la prima volta, dunque, gli Stati Uniti non pongono più, come questione preliminare al negoziato, la richiesta di dimissioni di Assad. Un fatto politico assai rilevante, anche se ad oggi non ha cambiato di una virgola la situazione sul terreno.
Confusa anche la situazione nello Yemen. Qui, mentre si combatte aspramente ad Aden e non solo, gli Stati Uniti appoggiano la coalizione sunnita anti-Houthi e dunque anti-Iran. Quel che non sappiamo è se gli Usa vorranno dare copertura politica ai sauditi anche qualora questi ultimi scelgano la strada dell’invasione via terra del paese.
Abbiamo scritto più volte (leggi QUI) che la Grande Guerra Mediorientale in corso ha ragioni assai profonde che affondano nella storia, nella cultura, nelle religioni di quest’area, ma anche – com’è naturale – negli interessi delle diverse potenze regionali in campo. Ovvio che l’accordo di Losanna, anche ammesso che riesca a produrre tutte le conseguenze politiche attese, non modifica i termini né dello scontro religioso tra sciiti e sunniti (la cosiddetta fitna) né di quello tra gli attori regionali della guerra. Modifica invece, anche se non sappiamo ancora in quale misura, il ruolo degli Stati Uniti in questo conflitto. Non è poco.