La morte nel Mediterraneo e le false parole «umanitarie» dell’Europa
Taccia almeno chi ha portato la guerra in Libia. Certo, dire questo non basta. Non ci sono solo le guerre, e le migrazioni hanno tanti motivi, in primo luogo di natura economica. Ma facciano almeno silenzio, e ci risparmino i loro sermoni «umanitari», coloro che sempre con false motivazioni umanitarie decisero di devastare la Libia con le bombe ed i missili della Nato. Coloro che hanno sostenuto l’invasione dell’Iraq, che fomentano la guerra in Siria, quelli che continuano a considerano cosa loro le vecchie colonie.
Taccia il crociato Gentiloni che plaude ai bombardamenti sauditi sullo Yemen, tacciano quelli che si vantano di aver impedito alla Somalia di avere un governo sostenuto dal popolo, tacciano quelli che sono sempre con Israele e le sue stragi.
Tacciano, perché se la morte di tante persone è dolore, la loro ipocrisia è insopportabile.
Della «realtà brutale» dell’«ipocrisia umanitaria» ci parla questo articolo di Alberto Negri, pubblicato questa mattina sul Sole 24 Ore.
Se salvarli è soltanto un’operazione di facciata
di Alberto Negri
La realtà è brutale e si chiama ipocrisia umanitaria. Il confine di mare dell’Italia è stato risucchiato dalla guerra in Libia, e da quelle in corso in Medio Oriente e in Africa da dove fuggono decine di migliaia di persone, ma né l’Unione europea, né la Nato né gli Stati Uniti vogliono riconoscerlo. La ragione è semplice: l’intervento in Libia del 2011 fu attuato da Francia e Gran Bretagna con l’appoggio dell’Alleanza e degli Stati Uniti. L’Italia non ebbe la forza di opporsi e partecipò con la speranza di difendere gli interessi protetti dai trattati con Gheddafi.
In Libia gli Stati Uniti non vogliono mettere piede, la Francia e la Gran Bretagna neppure, la Nato, che allora lanciò centinaia di missili Cruise, non proferisce sentenza. Si capisce bene perché il presidente turco Erdogan non conceda le basi per fare la guerra la Califfato: l’esperienza del passato, a partire dal conflitto in Iraq del 2003, gli fa diffidare di qualunque iniziativa occidentale, al punto da preferire uno Stato Islamico sanguinario ai suoi confini piuttosto del vuoto.
La Turchia ha scelto di prendere i profughi siriani in casa, 1,6 milioni, e gestire la situazione da sola. Forse è quello che dovrebbe fare anche l’Italia con i soldi dell’Unione perché Bruxelles con la missione Triton ha fallito.
L’ipocrisia, non l’afflato umanitario, è il fattore dominante. Lo spiegava bene ieri il britannico Guardian: in pubblico tutti dicono di volere salvare i disperati che annegano in mare ma in privato la diplomazia europea asserisce il contrario, perché teme che queste operazioni di salvataggio costituiscano un incoraggiamento agli arrivi record di migranti in un continente che non vuole boat people.
Del resto anche quelli che esprimono la loro giusta indignazione dovrebbero farsi un esame di coscienza. Si tratta spesso delle stesse persone che nel 2003 sostenevano che bisognasse bombardare Saddam Hussein, nel 2011 Gheddafi e poi anche Bashar Assad in Siria. Non c’è dubbio che stiamo parlando di dittatori all’origine dei mali che hanno generato: ma quali alternative abbiamo proposto dopo gli interventi militari? L’Iraq è stata la dimostrazione lampante di cosa significa agire senza un piano politico. È da lì che derivano gran parte dei guai di oggi.
I Paesi arabi confinanti con la Libia lo sanno bene: Algeria e Tunisia sono contrari a un intervento; l’Egitto, appoggiato da sauditi, Emirati, Francia e Russia, finanzia il generale libico Khalifa Haftar sperando di vincere la guerra contro gli islamisti di Tripoli sostenuti da Qatar e Turchia. Se poi questi islamisti saranno sostituiti dal Califfato sembra, al momento, non avere grande importanza. A questi Paesi dei disperati che affogano importa poco o nulla.
In realtà c’è una coincidenza di vedute con le democrazie europee, che devono far qualche cosa per salvare la faccia davanti all’opinione pubblica che vuole soccorrere i migranti in mare, ma se possibile non trovarseli poi come vicini della porta accanto.