La Turchia dichiara guerra all’Isis, ma colpisce i curdi del Pkk
Quali sono i veri obiettivi di Ankara?

Abbiamo scritto più volte su quanto sia complesso il quadro disegnato dalla Grande Guerra Mediorientale che coinvolge tanti paesi della regione – Siria, Iraq e Yemen in primo luogo.

In questo contesto la Turchia ha da sempre giocato un ruolo di primo piano. Ora, però, siamo di fronte ad un vero e proprio salto di qualità. Il governo di Ankara ha dichiarato guerra all’Isis, consentendo agli americani di poter utilizzare la base di Incirlik per i loro raid sulle postazioni del Califfato, ma da parte turca la guerra è soprattutto contro i curdi del Pkk (vedi foto) e quelli del Kurdistan siriano (Rojava).

Sulle montagne del Kurdistan iracheno sono già 260 i curdi uccisi dai bombardamenti turchi, un’azione condotta con il sostanziale avallo del governo curdo-iracheno presieduto da Massud Barzani, da sempre in buoni rapporti con il grande vicino del nord.

Che vi sia una grande ambiguità nella politica turca non c’è dubbio, ma questa non è una novità. Restano invece da capire gli obiettivi strategici dell’azione intrapresa da Erdogan negli ultimi giorni. Sicuramente il capo del governo di Ankara vive gravi problemi interni, visto l’insuccesso registrato nelle ultime elezioni politiche, ma l’ingresso ufficiale nella Grande Guerra Mediorientale ha sicuramente anche altre motivazioni.

Erdogan ha certamente tre obiettivi: 1. arrivare alla capitolazione di Assad, 2. colpire in profondità il Pkk, ed ogni nascente entità curda (la Rojava) non controllata dall’occidente, 3. indebolire – ma solo fino ad un certo punto – l’Isis. Tutto ciò allo scopo di riprendere, nelle nuove condizione, il progetto neo-ottomano immaginato da Davutoglu.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, nel quale Giuseppe Cucchi (del quale non condividiamo, ovviamente, la manifesta simpatia per i militari turchi) avanza sul sito limesonline un’ipotesi da considerarsi con la dovuta attenzione. Questa ipotesi si basa su due premesse: che l’Isis verrà prima o poi sconfitto, che questa sconfitta non significherà però il ripristino dello status quo ante, data la volontà delle comunità sunnite interessate a non tornare a dipendere dai governi di Baghdad e Damasco.

Chi prenderà a quel punto il posto del Califfo sconfitto? Questa è la domanda. Alla quale ad Ankara hanno ovviamente una risposta, naturalmente neo-ottomana.

Quante possibilità vi sono che questo disegno possa realizzarsi è difficile da dirsi. Non solo perché non sappiamo chi vincerà alla fine questa guerra (una domanda su tutte: come reagirà l’Iran all’iniziativa di Erdogan?), non solo per la molteplicità degli interessi nello stesso campo sunnita, ma anche perché il Califfo non si farà facilmente da parte per lasciare campo libero al Sultano.

I propositi neo-ottomani potrebbero rivelarsi ancora una volta illusori, ma l’ambizione turca  appare in effetti piuttosto chiara.

Qui sotto l’articolo di limesonline.

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Se il sultano Erdogan vuole farsi califfo
di Giuseppe Cucchi

L’improvviso ingresso nella guerra contro lo Stato Islamico sembra una rivoluzione per la politica estera della Turchia. Ma l’obiettivo del presidente rimane immutato.

C’è un personaggio dei fumetti francesi, il Gran Vizir Iznogud (già il nome è un programma!) che trascorre la propria vita a congiurare invano per “divenire califfo al posto del califfo”.

È la sorte che sembra attendere il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan, dopo che l’imprevista affermazione elettorale del partito curdo Hdp gli ha tolto la maggioranza assoluta e la possibilità di formare un governo  monopartitico per la prima volta da quando il suo partito Giustizia e Libertà (Akp) è entrato sulla scena politica turca.

Il suo programma di progressiva islamizzazione della Turchia
ha subito una battuta d’arresto forse irreversibile. Un programma perseguito senza soste e fruendo per un lungo periodo del miope sostegno fornitogli dall’Unione Europea.

Nell’ansia di ridurre la militarizzazione di un paese che trattava la propria adesione, l’Ue ha sostenuto con impegno tutte le misure miranti a togliere potere a quelle Forze Armate cui il legato costituzionale di Ataturk affidava il controllo e l’estrema difesa della laicità del paese. In qualche caso queste misure le ha addirittura sollecitate, accelerando un processo forse inevitabile ma che ha derivato dall’imprimatur di Bruxelles una rispettabilità che probabilmente non gli spettava.

La battuta d’arresto elettorale del partito di Erdogan
sembra incidere anche sulla complessa tela di politica internazionale che la Turchia sta tessendo in questo momento. Ankara opera con una Realpolitik che supera in molti casi di gran lunga i limiti della morale tradizionale – per intenderci, quella che vorrebbe che gli atti di un paese fossero guidati dai suoi valori oltre che dai suoi interessi e che respinge con sdegno la morale machiavellica secondo cui “il fine giustifica sempre i mezzi”.

Si discute spesso su chi sia il ragno al centro della tela turca.
In altri tempi il primato era assegnato senza esitazioni ad Erdo?an; Ahmet Davuto?lu, allora ministro degli Esteri, veniva considerato l’ideologo di riferimento.

La classica coppia di uomini di  Stato:
uno dotato del dono della visione strategica, l’altro capace di trasformare in realtà tale visione. Poi apparentemente le due strade si sono separate mentre entrambi crescevano e mutavano il proprio ruolo, Erdogan divenendo presidente e Davutoglu accedendo al premierato. Adesso si sente spesso parlare di frequenti dissidi fra i due e della possibilità che finiscano con l’opporsi l’uno all’altro. Il dissidio tra i due è reale o siamo di fronte all’ennesima versione dell’eterna commedia dei due gendarmi, con Davutoglu nella parte del buono ed Erdo?an ovviamente in quella del cattivo?

Tutto questo avviene mentre il paese cerca di imporsi come potenza regionale,
recuperando almeno parte del prestigio e dell’area di influenza dell’Impero Ottomano, mentre nell’ecumene islamico sono in corso due guerre – entrambe non dichiarate, ma non per questo meno reali – di cui la Turchia è uno dei maggiori protagonisti e mentre la tensione tra Ankara e i curdi sembra sul punto di trasformarsi in guerra civile aperta. Condizioni estremamente difficili, dunque.

Forse per questo Erdogan e la Turchia sembrano perseguire contemporaneamente
due diverse linee strategiche, apparentemente divergenti sui tempi brevi ma convergenti a lungo e forse anche a medio termine.

La prima è la strategia più evidente, centrata su un’immagine del paese che deve rimanere quanto più immacolata, filo-occidentale e filo-atlantica possibile. Ecco dunque le recenti concessioni fatte a Cipro, ove sembra che per la prima volta si possa seriamente parlare di abbattere il muro che separa le due comunità. Ecco la concessione dell’uso della base aerea Usa di Incirlick, precedentemente negata con ostinazione, ai caccia della coalizione anti-Stato Islamico (Is). Ecco l’idea di occupare in Siria una zona cuscinetto che consenta di sottrarre al rischio dei combattimenti centinaia di migliaia di profughi. Ecco infine l’annuncio dell’intervento contro il “califfato”, e poco importa se tale intervento si sia limitato a qualche sporadica cannonata mentre la vera azione bellica è stata quella contro i curdi del Pkk, che ha definitivamente seppellito una tregua in vigore dal 2013.

La seconda strategia è occulta e come tale probabilmente chiara
in tutti i suoi aspetti solo a pochissimi responsabili. Nell’analizzarla ci muoviamo nel campo delle ipotesi, non in quello delle certezze, con tutta l’aleatorietà di giudizio che ciò comporta.

Se si centra il ragionamento sull’ottica del cui prodest?
, diviene immediatamente chiaro come le azioni dello Stato Islamico beneficino in maniera non trascurabile il campo sunnita, impegnato in una guerra non dichiarata e senza esclusione di colpi contro gli sciiti. Questo conflitto è destinato a decidere quale dei due campi risulterà prevalente nell’ecumene islamico e a marcare confini più o meno definitivi fra le confessioni religiose in contrasto.

In oltre un anno di guerra aperta, il cosiddetto califfato ha ottenuto risultati impensabili. Ha portato avanti il frazionamento dell’Iraq e della Siria, staccando dai due paesi tutte le aree a prevalenza sunnita. Ha fondato uno Stato nuovo, che appare destinato a durare anche dopo l’eventuale distruzione dell’Is, visto che i suoi abitanti in futuro accetteranno tutto tranne che il ritorno sotto dominazione sciita. Ha tenuto impegnate in combattimento le milizie sciite irachene, libanesi e iraniane, costringendo Teheran a usarle per difendere la propria area di influenza anziché spenderle aggressivamente in altri teatri a dominanza sunnita – Bahrein e Yemen, per esempio.

Questo spiega come nell’Islam sunnita l’Is goda di quell’80% di approvazione che il famoso sondaggio di Aljazeera ha evidenziato, lasciando interdetto il mondo occidentale. Spiega altresì come i grandi sponsor dell’azione sunnita, in primis Turchia e Arabia Saudita, si siano limitati sino a ieri a condanne puramente formali del “califfato”, sostenendone in vari modi l’azione.

La Turchia ha appoggiato l’Is principalmente per astensione,
vale a dire non concedendo basi alla coalizione, non intervenendo in episodi come quello di Kobane, non facendo nulla per impedire il passaggio di jihadisti stranieri verso la Siria eccetera. Probabilmente c’e’ stata anche qualche forma di collusione fra “califfato” e servizi segreti turchi. Una situazione che per molti  aspetti  ricorda (in scala ridotta) quella creatasi in Afghanistan fra servizi segreti pakistani e talebani.

Ora le cose stanno apparentemente cambiando.
Ankara ha persino richiesto, con il sostegno degli Stati Uniti, la riunione del North Atlantic Council – l’organo politico di più alto livello della Nato – sulla base dell’articolo 4 del Patto Atlantico che consente a ogni paese membro di avviare consultazioni con tutti gli altri allorché si ritiene minacciato.

È una radicale inversione di rotta o la continuazione sotto altra forma della politica precedente? Probabilmente entrambe le cose contemporaneamente.

Se guardiamo solo alla politica ufficiale del paese, è in atto il cambiamento in cui l’Occidente sperava da tempo. Se invece teniamo conto di come, muovendosi accortamente in questo modo, la Turchia possa mirare a sostituirsi col tempo allo Stato Islamico – magari anche con qualche decisa azione bellica o con una serie di silenziose epurazioni che ne eliminino i vertici – e divenire il punto di riferimento del nuovo paese sunnita che emergerà alla fine della fase rivoluzionaria di questo conflitto, dobbiamo constatare la continuità della politica turca, che apparirebbe figlia di un unico grande disegno strategico.

A questo punto dobbiamo chiederci se Erdogan,
che ha dato segno negli ultimi anni di un’inarrestabile megalomania, non miri in realtà a divenire “califfo al posto del califfo”, come il Gran Vizir Iznogud.

In fondo il titolo di califfo spettava al sultano turco,
prima che Ataturk lo abolisse…

da limesonline