L’accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano e i colloqui a Doha tra Kerry e Lavrov potrebbero avere riflessi importanti per Damasco. Riflessi che il presidente siriano forse troverà indigesti.

A chi in questi quattro anni di bagno di sangue gli diceva che è stato sconfitto perché non ha saputo sbaragliare l’opposizione islamista e jihadista, il presidente siriano Bashar Assad replicava che, al contrario, ha vinto perché non è stato sconfitto da nemici finanziati e armati da potenze economiche regionali, come l’Arabia saudita, e da diversi Paesi occidentali.

Un giudizio tutto sommato fondato se si tiene conto del bilancio di vittorie e sconfitte ottenute dall’esercito governativo siriano e dai suoi alleati, come i combattenti libanesi di Hezbollah, e dei territori strategici che il presidente siriano continua a controllare. Assad, a fine luglio, si è sentito sufficientemente forte da ammettere pubblicamente le difficoltà che le sue forze armate incontrano nel rimpiazzare con truppe fresche quelle sfinite da quattro anni di combattimenti e i soldati caduti in battaglia, in attentati e vittime delle esecuzioni sommarie compiute da qaedisti e jihadisti (in totale non meno di 60 mila dal 2011, contando solo i militari e non anche gli uomini della milizia pro governativa).

Qualcosa però bolle in pentola. L’accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano che Assad ha salutato con favore, rischia di avere riflessi importanti per quella parte della Siria che resta, assieme alla capitale Damasco, sotto la sua autorità. Riflessi che il presidente siriano potrebbe trovare indigesti.

I colloqui a Doha tra il Segretario di stato John Kerry, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e quello saudita Adel al Jubeir, hanno avuto l’obiettivo evidente di provare a tracciare il futuro a breve e medio termine del Medio Oriente. Quale “regalo”, oltre alle armi, Washington ha promesso pur di far digerire ad Arabia saudita e Israele l’accordo sul nucleare iraniano che continuano a contestare? Quale “svolta” gli Usa e la Russia hanno deciso di dare al quadro regionale per rassicurare le monarchie sunnite preoccupate dalla crescente influenza dell’Iran sciita? Cosa otterranno re e principi del Golfo in cambio delle loro aperture all’Iran?

Di fronte a questi interrogativi non è certo privo di importanza l’appello lanciato ieri dal ministro degli esteri del Qatar, Khalid al Attiyah, per l’avvio di un «dialogo serio con l’Iran». Così come l’annuncio che Washington bombarderà tutte le forze in campo in Siria, incluse quelle governative, che attaccheranno i cosiddetti “ribelli moderati” addestrati dai consiglieri militari statunitensi.

«Un piatto russo-americano è pronto per quanto riguarda la crisi siriana e, eventualmente, per l’intera regione», scrive su Rai al Youm, l’analista Abdelbari Atwan che da trent’anni racconta la palude mediorientale di accordi, guerre, alleanze vere e presunte, strette di mano e sorrisi di circostanza. «La recente visita del principe ereditario Mohammad bin Salman a Mosca dove ha incontrato il presidente Vladimir Putin, ha fornito una solida base per una nuova mappa di alleanze regionali», spiega l’analista arabo ricordando che sono insistenti, sebbene siano state smentite dalle due parti, le indiscrezioni su un incontro segreto avvenuto nei giorni scorsi tra il capo dell’intelligence siriana Ali al Mamlouk e, anche in questo caso, Mohammad bin Salman. Un faccia a faccia che non ha risolto i contrasti enormi tra i due Paesi. Avrebbe però aperto un canale di comunicazione impensabile quando erano in posizione di potere i principi sauditi Bandar bin Sultan e Saud al Faisal, entrambi nemici giurati della Siria di Assad, ora usciti di scena.

Riyadh, aggiunge Abdelbari Atwan, avrebbe ammorbidito le sue posizioni e scelto una prima forma di dialogo con i suoi nemici anche alla luce del fallimento in Yemen dove nonostante i pesanti bombardamenti dell’aviazione saudita, i ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, continuano a controllare buona parte del paese. Infine la Turchia, alleata dei sauditi contro la Siria, al momento appare più interessata ad attaccare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che a provocare la caduta di Assad.

Piuttosto pessimista si mostra Mohammad Kharroub del quotidiano giordano al-Ra’i, secondo il quale il successo dei colloqui di Doha e la definizione di un calendario politico che metta fine alla guerra civile siriana, dipende dalla eliminazione della condizione posta (da Arabia saudita, Qatar, Turchia e altri Paesi, ndr) della rimozione immediata di Bashar Assad dal potere. Nonché dalla comprensione di tutte le parti che la priorità ora deve essere assegnata alla lotta ai “takfiristi”, ossia ai leader e ai militanti dell’Isis e di altre organizzazioni jihadiste e qaediste. «I grandi burattinai regionali avranno capito la lezione?», si domanda Kharroub lasciando trasparire parecchio scetticismo.

da il Manifesto