Gli ultimi dati ci dicono che sono circa mezzo milione i migranti che nei primi sei mesi de 2015 hanno chiesto asilo politico all’Unione europea, contro i 600mila dei dodici mesi precedenti.
Torneremo presto, con una scheda ad hoc, sulla vicenda specifica dei richiedenti asilo e dei rifugiati. E’ evidente che gli effettivi perseguitati politici sono un’infima minoranza, che la stragrande maggioranza dei migranti sono piuttosto “deportati economici”. Questi numeri obiettivamente impressionanti secondo tutti gli analisti sono destinati a restare costanti se non addirittura a crescere. Perché sono destinati a crescere? Perché globalizzazione e politica di rapina congenita ai meccanismi imperialistici, accentueranno le distanze tra ricchi e poveri e tra paesi oppressori e nazioni oppresse.
Va da sé che per porre fine davvero alla deportazione di massa la soluzione consiste nel farla finita con questa globalizzazione imperialistica. Questa, al contrario di quanto sostengono gli apologeti dell’ordine di cose esistenti, è quindi il problema non la soluzione. Una soluzione che appare lontana nel tempo poiché implica una rivoluzione globale, un rovesciamento del sistema economico e politico internazionale.
Non è un caso che gli apologeti della globalizzazione, i quali hanno il monopolio dei mezzi di comunicazione, davanti a questi flussi migratori, dicano che essi sono “epocali” e “inarrestabili”. Ciò che essi ci stanno in realtà dicendo è che la globalizzazione è da considerarsi irreversibile, che chi comanda oggi comanderà sempre, che le pratiche economiche neoliberiste vigenti sono irrevocabili.
I paladini della globalizzazione sono a loro modo coerenti quando auspicano e inneggiano alla deportazione economica da un lato e quindi alla “accoglienza” dall’altro — deportazione e accoglienza sono le due facce della stessa medaglia.
La deportazione economica dalla periferia povera al centro “opulento” è funzionale ai dominanti sotto molteplici aspetti. Cinque su tutti:
(1) immettere al centro milioni di disperati pronti a vendere la loro forza-lavoro per quattro soldi rafforza, al centro, la tendenza all’abbassamento generale dei salari ed alla competizione selvaggia tra lavoratori a tutto vantaggio del capitale; (2) la fuga in massa contribuisce alla desertificazione dei paesi da cui si emigra ed è utile alle classi dominanti di quei paesi in quanto, sgonfiando le tensioni sociali endogene, consolida il loro dominio: (3) di converso l’immigrazione in massa contribuisce in maniera determinante a distruggere il tessuto connettivo o demos dei paesi ospitanti. Questo demos costituisce non solo il sostrato materiale, giuridico e spirituale degli stati-nazione (senza il quale essi sono destinati a dissolversi nella paccottiglia sociale o melting pot nel quale ristrette oligarchie transnazionali potranno spadroneggiare) ma il luogo dove si è storicamente costituito il movimento operaio come comunità di classe opposta al capitale; (4) in questo imperiale melting pot democrazia e diritti di cittadinanza sostanziali sono destinati a sparire a loro volta, per lasciare il posto a stati di polizia ed a relazioni neofeudali di servaggio e sudditanza, fatti salvi diritti cosmetico-formali “per le minoranze” e innocui spazi-ghetto comunitaristici. Lo spazio giuridico-statuale imperiale, per sua natura, non può essere democratico.
(5) Azzardiamo infine una quinta specifica ragione riguardante l’Unione europea.
Deportare decine di milioni di immigrati è strategicamente funzionale al disegno delirante di sopprimere gli attuali stati-nazione e fare dell’Unione un impero. Per squagliare le comunità nazionali e rimpiazzarle con quella europea, le élite dominanti hanno infatti bisogno di introdurre un elemento esterno disgregante, dissolvente le diverse identità storico-nazionali. L’immigrazione di massa anche a questo deve servire secondo le élite euriste dominanti.
Non siamo ciechi. Sappiamo che ben altre e ben più nobili sono le ragioni etiche che spingono molti, a sinistra come nel mondo cattolico, a chiedere che tutti gli immigrati siano accolti. Essi desiderano una società “inclusiva”, che sappia ospitare tutti gli esseri umani che fanno richiesta di asilo e soggiorno. Abbiamo cercato di spiegare che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, nelle concrete condizioni in cui si dimena, un’immigrazione di massa non è sostenibile. Un’istanza etico-morale può essere giusta in astratto, ma può essere concretamente irrealizzabile se non addirittura esiziale. Fare di un principio etico un imperativo politico categorico (come in questo caso l’obbiettivo di “accogliere tutti”) causa infatti, oggigiorno, due disastri: il primo è che ci si pone al carro delle élite globaliste che in tal modo si aiutano invece di combattere; il secondo è la conseguenza del primo, ed è che si allontana dal proletariato lasciandolo in balia dell’avanzata delle forze xenofobe e razziste.
Sentiamo nostri i valori solidaristici propri del socialismo, come anche la pietas cristiana che comanda di amare il prossimo. C’è tuttavia un limite invalicabile: l’amare l’altro da sé non può spingersi fino all’odio del sé, fino al proprio autoannientamento.
Amare il prossimo come sé stessi, se non vuole essere una declamazione vuota e ipocrita, se non è l’invocazione di una mistica pauperitas universale, implica assicurare agli ospiti gli stessi diritti e i medesimi benefici di cui l’ospitante gode. Non esistono, entro questo sistema, le condizioni per estendere questi diritti e questi benefici, l’immigrazione contribuisce anzi a toglierli a chi li ha strappati in decenni di sacrifici e di lotte. E’ forse amare il prossimo incoraggiare la deportazione sapendo che questi milioni di esseri umani vivranno come “scarti”, nell’esclusione e nella miseria? Non è forse fare il gioco del vorace capitalismo neoliberista che infatti anela al pauperismo generale?
Non sembra quindi che sia per cristiano amore del prossimo che certa sinistra inneggia alla accoglienza di tutti. C’è chi è ideologicamente infatuato dal cosmopolitismo liberista e anti-nazionale e chi, in nome di un malinteso internazionalismo, si spinge fino all’odio per il proprio Paese il quale, sotto sotto, è odio di sé e del proprio popolo accusato per aver dimenticato i suoi ideali, di aver disconosciuto, ricusato ed isolato i migliori tra i suoi figli, quelli che quegli ideali non hanno abiurato mai. Si tratta di vie diverse, ma entrambe conducono al suicidio.