INABITABILE: così sarà la Striscia di Gaza entro cinque anni secondo un rapporto dell’ONU

Ecco una notizia che non riesce a far notizia. «Inabitabile» è una parola grossa. Specie se riferita ad un luogo popolato da un milione e ottocentomila esseri umani. Di cui praticamente nessuno si preoccupa. «Inabitabile» è una parola grossa, ma è quella che sta scritta in un rapporto ONU pubblicato qualche giorno fa. E che – indovinate il perché – non ha fatto granché notizia.

Volutamente, abbiamo aspettato qualche giorno per commentarlo. Giusto per vedere se si smuoveva qualcosa nell’umanissima Europa simboleggiata da «Mami» Merkel. Non che ci aspettassimo una parola dall’«umano» di Rignano. Lui ha troppi amici a Tel Aviv. Ma il disinteresse è stato davvero generale, segno che lo strabismo degli opportunisti vive un momento di grande fulgore.

«Gaza potrebbe diventare inabitabile entro il 2020, se le attuali tendenze economiche persistono», è scritto nel rapporto annuale dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo).

I dati sono piuttosto evidenti: il 72% della popolazione è semplicemente ridotto alla fame (coloro che dipendono totalmente dall’agenzia dell’ONU sono passati dai 72mila dell’anno 2000, agli 868mila del maggio scorso), la disoccupazione (44%) è la più alta del mondo, il 95% dell’acqua utilizzata non è potabile, l’energia elettrica (già prima dei bombardamenti della scorsa estate) non arrivava a coprire il 40% della domanda, i senzatetto sono 500mila.

Tutto ciò non è frutto di qualche evento naturale. Le cause di questa situazione sono due: il blocco totale imposto da Israele da 8 anni e le ripetute aggressioni militari dello stato sionista.

Quando noi, fin dal 2007, abbiamo descritto la Striscia di Gaza come un campo di concentramento a cielo aperto, molti ci hanno guardato con diffidenza. Idem, quando abbiamo definito la politica israeliana come genocidiaria. Esageravamo? Non sembrerebbe. Se un intero territorio è destinato a diventare inabitabile, come si può definire altrimenti la politica di chi determina un simile risultato?

Nel rapporto dell’ONU si legge che: «Tre operazioni militari di Israele negli ultimi sei anni, aggiunte a otto anni di blocco economico, hanno devastato le già debilitate infrastrutture di Gaza e fatto a pezzi la sua base produttiva, non hanno lasciato alcun tempo per una significativa ricostruzione o ripresa economica e hanno impoverito la popolazione palestinese di Gaza, rendendo le sue condizioni economiche peggiori di quelle di due decenni fa».

Gli estensori del documento valutano che le perdite dirette (escludendo le persone uccise) delle tre aggressioni israeliane (2008/2009, 2012, 2014) sia pari a tre volte l’intero Pil di Gaza. Un Pil che solo nell’ultimo anno è crollato del 15%.

Andando nel dettaglio, solo i bombardamenti dell’estate 2014 hanno distrutto o gravemente danneggiato 20mila case, 247 fabbriche, 300 centri commerciali, 148 scuole, 15 ospedali e 45 centri di assistenza sanitaria. Questi i dati forniti dall’agenzia dell’ONU.

Il documento si occupa anche degli effetti del blocco imposto a Gaza fin dall’ormai lontano 2007. Scrive l’UNCTAD che esso «Ha inflitto la distruzione su larga scala dell’economia locale di Gaza, delle attività produttive e delle infrastrutture, e ha colpito numerose strutture industriali, agricole, commerciali e residenziali, direttamente o indirettamente, provocando gravi carenze di acqua, elettricità e combustibili».

Niente di nuovo per chi denuncia da anni la situazione della Striscia di Gaza. E, tuttavia, parole abbastanza chiare provenienti da una fonte insospettabile che dovrebbero produrre almeno una qualche reazione di sdegno e solidarietà. Che invece non ci è parso di udire.

C’è da aggiungere che a questa situazione già tragica, si aggiunge ora il criminale progetto egiziano di totale isolamento del lato sud del lager messo in piedi dai sionisti. Ce ne siamo già occupati in passato, ma oggi il progetto va verso la sua definitiva attuazione. Di cosa si tratta? Dopo aver distrutto la stragrande maggioranza dei tunnel della speranza – quelli che, attraversando il confine tra la Striscia e l’Egitto, consentivano il passaggio delle merci verso Gaza –  Al Sisi ha ora disposto la sua soluzione finale: la costruzione di un canale d’acqua lungo il confine.

Le ruspe sono al lavoro, mentre duemila famiglie di Rafah sono state evacuate allo scopo già alla fine del 2014. Scavando in profondità, l’obiettivo è quello di rendere impossibile la costruzione di nuovi tunnel. Il dittatore egiziano – che tanti a sinistra amano – vuole così completare l’assedio della stremata popolazione di Gaza. Con lui al potere i criminali del governo di Tel Aviv hanno trovato un alleato davvero prezioso.

Il canale, alimentato dall’acqua del Mediterraneo, piace molto agli scribacchini di casa nostra (vedi, ad esempio, l’articolo di Maurizio Molinari su La Stampa dal titolo – che si commenta da solo – «Cozze e scampi per bloccare i tunnel di Hamas con l’Egitto»). Come possiamo definire un titolo del genere? Per abbellire il loro progetto genocida, i governanti egiziani hanno pensato infatti di costruire sul canale 14 fattorie ittiche. Ma come si fa a parlare di allevamento di mitili quando è in gioco invece la vita di quasi due milioni di persone? Ecco una cosa che bisognerebbe chiedere a certo giornalistume che ben conosciamo. E che per giunta è sempre pronto alle sue prediche «umanitarie». Un umanitarismo però a corrente alternata. Chissà perché.