In vista della «Legge di Stabilità», ma guardando soprattutto al dopo

Eccoci ad ottobre, il mese della Finanziaria, oggi pudicamente chiamata «Legge di Stabilità». Come al suo solito Renzi fa squillare le trombe: a suo dire quella in arrivo sarebbe una «finanziaria espansiva». Falso, come al solito, dato che avremo al massimo una manovra soltanto un po’ meno recessiva del previsto. Esattamente come già avvenuto per l’anno in corso.

A questo proposito, non traggano in inganno gli zerovirgola della crescita del Pil. Essi non derivano certo da un (inesistente) abbandono delle politiche austeritarie, bensì da un’irripetibile congiunzione astrale fatta di svalutazione dell’euro, calo dei prezzi dell’energia e (pur con tutti i suoi limiti) quantitative easing della Bce. A questo aggiungiamo il naturale rimbalzo fisiologico dopo ben 3 anni e mezzo di recessione ininterrotta, e non sarà difficile capire come la modestissima crescita di questi mesi non abbia nulla a che vedere con le famose «riforme» di Renzi.

Detto questo, non bisogna far finta che nulla sia cambiato. Vantando i suoi presunti successi politici, il capo del governo ha detto nei giorni scorsi che laddove prima c’era il Fiscal Compact adesso c’è la flessibilità. Una evidente forzatura propagandistica, dato che l’Italia non mette affatto in discussione l’applicazione del Fiscal Compact (né, tantomeno, l’Unione Europea mostra segni di disponibilità in tal senso), ma una baldanza che ha un suo perché.

Cerchiamo dunque di capire tre cose: a) che tipo di finanziaria ci attende, b) da cosa dipendono i margini di flessibilità sui quali Renzi sta giocando la sua partita politica, c) quanto questi margini potranno prevedibilmente durare.

Una finanziaria d’attesa

In un certo senso quella che si profila è una finanziaria d’attesa. Un’operazione che si gioca sui mille tecnicismi partoriti dall’eurocrazia di Bruxelles per tenere insieme capra e cavoli, nel tentativo di non far crollare la baracca della moneta unica. Si parla così di una manovra di 27 miliardi di euro, ma ben 16 di questi dovrebbero venire dalla cosiddetta «flessibilità», mentre gli altri 10 dovevano arrivare (almeno fino a ieri) dalla spending review.  

In pratica i 16 miliardi (vedremo se integralmente concessi dall’UE) andranno ad aumentare il deficit di un punto di Pil. In realtà un primo «sconto» di 6,4 miliardi era già stato ottenuto nella primavera scorsa, quello adesso richiesto è di altri 9,6 miliardi (pari allo 0,6% del Pil). Più precisamente altri 6,4 miliardi dovrebbero essere scontati in base alla «clausola sulle riforme», mentre ulteriori 3,2 sono stati richiesti a causa dell’emergenza migranti.

Ne consegue che tutti i dati di previsione per l’anno prossimo sono stati rivisti. Il rapporto deficit/Pil è previsto in salita dall’1,8 al 2,2%, od al 2,4% qualora la «clausola immigrati» venisse accettata. Il rapporto debito/Pil, precedentemente previsto al 130,9%, salirebbe invece al 131,4%. Ma qui sono da notare due cose. La prima è che per migliorare i conti ci si è lanciati in una previsione di crescita del Pil per il 2016 dell’1,6%, a fronte del precedente (e già iper-ottimistico) 1,4%. La seconda è che le previsioni sul debito non tornano mai, ma proprio mai. Giusto per fare un esempio, il rapporto debito/Pil 2015 era previsto ad aprile al 132,5%, mentre ora viene stimato al 132,8. Inezie dirà qualcuno, ma inezie (si tratta comunque di 5 miliardi di euro) che diventano ancor più curiose se si tiene conto che il Pil è aumentato rispetto alle previsioni (0,9% la stima a fronte del precedente 0,7%) e che la spesa per gli interessi è anch’essa diminuita rispetto alle attese.

In ogni caso, al di là del solito abbellimento dei dati, è chiaro come Renzi punti a prendere tempo. Un’esigenza ancora più forte se è vero quello che scrive La Stampa questa mattina. Secondo il giornale torinese il progetto della spending review, così come propagandato ormai da due anni, è sostanzialmente fallito. Al posto dei 10 miliardi di «tagli mirati», sarebbero in arrivo i soliti tagli lineari. Non che la «mira» del duo Gutgeld-Perotti fosse particolarmente rassicurante. Al contrario, sappiamo bene quel che pensano e quel che vogliono questi due signori messi a dirigere il progetto della spending review. Ma il fatto che questa coppia di tagliatori professionali abbia fallito, la dice lunga su quanto il fondo del barile sia stato ormai raschiato.

Leggiamo allora cosa scrive La Stampa:
«Hanno avuto la meglio le resistenze, i distinguo, l’incapacità delle burocrazie e dei ministri di imporre con lungimiranza soluzioni razionali. Anche quest’anno i risparmi arriveranno con la solita regola, quella imposta più volte da Tremonti, da Monti e l’anno scorso da Renzi: ognuno (ogni Ministero, ndr) contribuirà con un taglio lineare delle spese del tre per cento. Il contributo della cosiddetta spending review alla manovra del 2016 varrà sei, forse sette miliardi su un totale al momento stimato in ventisette».

Lasciando perdere le solite lamentele sulle burocrazie, l’annuncio del fallimento non potrebbe essere più chiaro. Resta che i tagli ci saranno comunque. E non è difficile prevedere chi andranno a colpire. L’importo dovrebbe essere però un po’ più basso (6-7 miliardi). Da dove verranno fuori i 3-4 mancanti? Chiara la conclusione dell’articolista:
«Per far tornare i conti si spera nelle entrate della sanatoria sui capitali all’estero, nell’indulgenza della Commissione Juncker e dalla momentanea ininfluenza della Merkel, ancora stordita dallo scandalo Volkswagen».  

Ecco dunque introdotti al secondo punto che ci interessa.


Da cosa dipende l’attuale «flessibilità» europea?

L’articolo citato ci dà una prima risposta politica, che possiamo certamente condividere ma avendone chiari i limiti, come sempre quando ci si basa su situazioni del tutto contingenti. Più importante è un’altra considerazione, quella che scaturisce dall’insostenibilità del Fiscal compact per economie particolarmente depresse come quella italiana.

E’ da questa consapevolezza di fondo, che gli eurocrati non vogliono ammettere per ragioni ideologiche, che sono spuntate le cosiddette «clausole di flessibilità», un escamotage escogitato per aggirare almeno temporaneamente il Fiscal compact, senza però metterlo davvero in discussione. Tanto è vero che le tabelle del DEF di Padoan rispettano la regola del debito, anche se solo a partire dal 2017. Rinvii che vanno avanti da qualche anno, con gli obiettivi che slittano sempre più avanti. Adesso il governo italiano prevede che il rapporto debito/Pil scenda al 127,9% nel 2017, al 123,7% nel 2018, al 119,8% nel 2019. Quanto siano realistici questi numeri lo giudichino i lettori.

Alcuni pensano che questa politica del rinvio equivalga ad una morte di fatto del Fiscal compact. Non è questa la mia opinione. Il Fiscal compact non è infatti un capriccio dei tecnocrati di Bruxelles, ma piuttosto una necessità legata alla particolare natura dell’euro, quella cioè di essere una moneta senza Stato. Una moneta di 19 Paesi, dove quelli più ricchi (e che da essa si avvantaggiano) non hanno alcuna intenzione di mettere in comune i debiti, come la vicenda greca dimostra fin troppo chiaramente. Ma siccome la baracca così com’è non può reggere, ecco che si vuole raggiungere l’obiettivo della convergenza del debito attorno alla soglia del 60%. Da qui i mostruosi piani di rientro per i paesi più indebitati previsti appunto dal Fiscal Compact.

Ecco allora la domanda: se il Fiscal compact è così decisivo per le sorti dell’euro, da cosa deriva l’attuale (per quanto relativa) flessibilità? A mio parere le motivazioni già esposte hanno il loro peso, ma non sono sufficienti a spiegare l’attuale fase di attesa.

Mi spiego meglio: questa esigenza di barcamenarsi in attesa di tempi migliori, ben difficilmente potrebbe tradursi in una vera flessibilità sui conti se non vi fosse un elemento di natura squisitamente economica che oggi la rende invece parzialmente possibile. E qual è questo elemento? La risposta è semplice: i tassi di interesse, calati negli ultimi anni ben oltre le più ottimistiche previsioni.

Mentre ogni tentativo di rilanciare l’economia nell’eurozona è fallito, quello di ridurre il costo del debito (dunque gli interessi) è al momento riuscito. Questo non cambia le prospettive di fondo dell’euro e della stessa UE, ma consente all’oligarchia eurista di prendere tempo. E’ questo il «segreto» della flessibilità di Renzi.

E proprio i dati dell’Italia sono la più evidente dimostrazione di questo fatto. Gli interessi sul debito pubblico costeranno quest’anno allo Stato 70 miliardi di euro, 5 in meno rispetto al 2014. Un risultato eccezionale, basti pensare che soltanto 3 anni fa il governo Monti stimava la spesa per interessi al 2015 in circa 100 miliardi. Questa cifra si è dunque ridotta di ben 30 miliardi. Il tasso del BTp decennale, che era arrivato ad un massimo del 7,48% nel novembre 2011, è oggi ridotto ad un valore dell’1,72%. Una differenza abissale, che se perdurasse nel tempo varrebbe da sola più di mezzo Fiscal compact. Ma potrà durare? Questa è la vera domanda.

Quanto potrà durare?

E’ chiaro che senza questa enorme riduzione del costo del debito Renzi non avrebbe oggi alcun margine di flessibilità. Altro che «riforme»! Ma come è stato possibile raggiungere questo risultato? In prima battuta – nel triennio 2012-2014 – con il programma LTRO (long term refinancing operation), il finanziamento (a tassi bassissimi) della Bce alla banche europee, volto ad indurre queste ultime ad acquistare titoli del debito. In secondo luogo con l’annuncio, e poi l’attuazione all’inizio del 2015, del quantitative easing (QE), con il quale la Banca Centrale Europea acquista direttamente titoli per un importo mensile di 60 miliardi.

Ci siamo occupati più volte degli scopi del QE, mettendone in luce i limiti specie per quanto riguarda la sua forza di stimolo alla crescita (vedi, ad esempio, Quantitative easing: crescita o bolla?).  Ma se ai fini della crescita l’effetto del QE è veramente trascurabile, la stessa cosa non si può dire per l’andamento dei tassi, anche se questi ultimi avevano già risentito pesantemente di altri due fattori: la spinta deflattiva innescata dagli effetti della grande recessione iniziata nel 2008,  l’immissione di liquidità operata dalle banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone e della Gran Bretagna, ben prima che la Bce intraprendesse la stessa strada.

Ma mentre la deflazione abbassa i tassi nominali, ma non quelli reali, è l’aumento complessivo della liquidità – anche se sostanzialmente confinato nell’ambito dei circuiti finanziari – l’arma che ha consentito fino ad oggi la tenuta del capitalismo-casinò e della sua importante ma assai incasinata sezione europea.

Quanto potrà durare questa situazione nessuno lo sa. Per molti economisti mainstream le bolle speculative sono assolutamente necessarie. Una droga, certo, ma di cui il capitalismo attuale non può proprio fare a meno. Il problema è che le bolle prima o poi esplodono. E quando questo avviene – come nel 2008 – gli effetti possono essere davvero catastrofici. Tra questi effetti c’è indubbiamente quello dell’instabilità dei mercati finanziari. Inutile dire come a quel punto i tassi dei titoli pubblici italiani sarebbero tra quelli ad andare in fibrillazione.

E se oggi, con la straordinaria congiunzione astrale di cui abbiamo detto all’inizio, la crescita rimane asfittica; se con i tassi di interesse ai minimi storici, l’Italia si mostra comunque incapace di ridurre il proprio debito pubblico, cosa accadrà domani quando tutti questi fattori favorevoli potrebbero svanire uno ad uno? A quel punto le vanterie di Renzi servirebbero soltanto a coprirlo di ridicolo.  

Per quel momento bisognerà essere pronti: con un programma, una prospettiva ben definita, una forza organizzata e combattiva. Chiediamo troppo? No, chiediamo soltanto quel che serve. Giunti a questo punto, porsi obiettivi più bassi non servirebbe proprio a nulla. Tantomeno a salvarsi la coscienza.